Corn Island, di George Ovashvili

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Come un ponte galleggiante tra le coste fratricide dell’Abkhazia e della Georgia, una piccola isola abitata da un anziano contadino e da sua nipote diventa il punto di osservazione privilegiato del conflitto che da anni dilania la terra stretta tra il Mar Nero e le montagne del Caucaso. Qui dove il tempo segue il ritmo lento della natura, dove al giorno illuminato dagli spari seguono notti in cui il silenzio è assordante e il fluire dell’acqua è l’unico suono percepibile, anche gli uomini hanno smesso di dibattersi nella civiltà e si sono fermati a un’epoca che non esiste più. La natura qui è l’unica sovrana e l’unico potere in grado di decidere della vita e della morte di tutti coloro che ne fanno parte, e ancora più della guerra distrugge senza pietà ciò che gli uomini hanno costruito con pazienza, impregnando la terra con il loro sudore, solo per assecondare il capriccio delle stagioni e l’ondeggiare delle maree.

In questa dimensione quasi surreale, il vecchio contadino coltiva instancabilmente la sua piccola piantagione di mais, e la nutre ogni giorno con le sue speranze, così come fa con sua nipote, parlandole unicamente con gli occhi, ma il destino dell’uomo non fluisce mai placido come il fiume che circonda questa piccola isola, e all’improvviso un vento inaspettato arriva a sconvolgere per sempre il delicato equilibrio che l’ha tenuta in vita da quando è emersa dalle acque.

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Il regista georgiano George Ovashvili osserva l’isola dalla sua nascita alla sua morte, senza mai distogliere lo sguardo dalle sue coste, immaginando questo piccolo pezzo di terra come una metafora più estesa del ciclo della vita e della lotta costante dell’uomo per la sopravvivenza. Guardando i personaggi dritto negli occhi, Ovashvili fotografa le loro emozioni senza farli parlare, scrutando la fatica nelle pieghe della pelle e il desiderio di vivere nelle linee sinuose dei loro corpi. L’immagine divampa nel silenzio, lo riempie e lo amplifica, condensando nel gesto reiterato della coltivazione il significato di un’intera esistenza, votata alla costruzione faticosa di un futuro effimero come il passare delle stagioni.

E proprio nella straordinaria capacità di raccontare il mondo stringendo lo sguardo su quest’isola minuscola, che galleggia per miracolo nel bel mezzo dell’Inguri, sostenendo il peso di un’intera piantagione di mais e delle misere anime che a quella terra hanno affidato il loro destino, che esplode la potenza narrativa di questa pellicola, che scorre lenta come il fiume che la sorregge e incanta coloro che hanno il privilegio di posare lo sguardo sulle sue sponde.

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