Scarlett Johansson plays The Major in Ghost in the Shell from Paramount Pictures and DreamWorks Pictures in theaters March 31, 2017.

Ghost in the Shell, di Jamie Moss

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Nasce come un manga nel 1989 e diventa una pietra miliare del genere fantascientifico conosciuto a livello mondiale grazie al film di animazione del 1995 diretto da Mamoru Oshii.

Dal nucleo narrativo originale sono derivati una serie di sequel sia in versione cartacea che animata, oltre a videogame e merchandising che ne hanno fatto un brand. L’universo futuristico e cyberpunk ideato da Masamune Shirow recupera le sue radici in un’estetica fortemente techno e postmoderna da cui hanno attinto altri capolavori come Blade Runner, Akira o Alita (dello stesso periodo) e ha ispirato un immaginario da cui sono derivate tutta una serie di capisaldi successivi, dal celebre Matrix al visionario  Evangelion.

Ora, dopo mesi di febbrile attesa da parte del mondo nerd, tra fughe di notizie varie, paura di distorsioni o di fraintendimenti dell’originale, è possibile ammirare nelle sale italiane la trasposizione cinematografica di quel cult capolavoro che è Ghost in the Shell.

Ma procediamo con ordine. La sfida che la Dreamworks ha deciso di intraprendere acquistando i diritti cinematografici nel 2008 dalla Kōdansha, la casa editrice che ha curato la prima edizione del manga, è dare forma e consistenza a un universo complesso, non solo estremamente dettagliato e attentamente articolato dall’autore (il manga infatti è infarcito da una marea ridondante di didascalie e note a margine che spiegano in ogni minimo dettaglio il mondo del futuro) ma soprattutto a una storia che assume gran parte del suo valore dalle profonde implicazioni filosofiche e etiche che scaturiscono dal contesto narrativo.

Ambientato in una futuristica metropoli del 2029, in cui gli uomini hanno corpi potenziati da innesti cibernetici, la storia si concentra sulle indagini della Sezione 9, una squadra internazionale di polizia specializzata in crimini di cyberterrorismo e gestita dalla Hanka Robotics. Comandante della sezione è il Maggiore Makoto Kusanagi, un cyborg dal corpo totalmente artificiale.

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Quando è apparso nel 1989 con una serie da 11 puntate su Young Magazine il titolo originario era Kōkaku kidōtai che letteralmente vuol dire “Squadra mobile con corazza offensiva”, il nucleo narrativo ruotava infatti tutto intorno alle indagini della sezione speciale di polizia sulle tracce di un pericoloso hacker, “Il Signore dei Pupazzi”, capaci di controllare la mente umana.

Il sottotitolo con cui divenne poi famoso in tutto il mondo fa invece riferimento alle inquietanti implicazioni che si sviluppano a partire dal presupposto che ciò che rende un cyborg unico e diverso da una macchina è la presenza di un ghost, cioè uno spirito, che è connesso con la sua anima, la sua componente umana.
Ma cosa accade se un intelligenza artificiale diventa capace di sviluppare una coscienza e una consapevolezza della propria esistenza? Un cervello cibernetico può generare un ghost?
Sono considerazioni filosofiche come questa, unite agli interrogativi sull’eugenetica e sulle profondi trasformazioni dell’informatica che hanno reso un thriller poliziesco un’opera fantascientifica fondamentale.

Si evince da questo presupposto la difficoltà di confrontarsi con una tale profondità di temi. Il film, diretto da Rupert Sanders, riesce a rendere molto bene l’atmosfera straniante e la fascinazione nascosta per il feticcio propria della storia originaria.
La sceneggiatura è attenta a facilitare la comprensione anche a chi non hai incontrato prima il mondo di Shirow, ricostruisce con puntualità la complessa vicenda di Mokoto, divisa tra la sua anima umana e il suo corpo-oggetto, lacerata dalla suo destino di macchina progettata per una missione precisa e la sua volontà, sospesa tra un passato che non le appartiene e la paura costante che tutto ciò che le appartiene sia in realtà artificiale.
Le scene d’azione  sono spettacolari, rese splendide da un 3D mozzafiato e gli scorci urbani sorprendenti invitano a perdersi per seguire l’indagine della squadra nella caccia al nemico misterioso, attraverso la quale il Maggiore ri-scopre se stessa e la sua storia.

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Quello che forse di più manca al film è l’atmosfera noir, quei silenzi carichi di mistero, quel velo di suspense accompagnato da una musica alienante che fece dell’anime un capolavoro indiscusso del genere e primo mirabile esempio di CGI inserito in un’animazione tradizionale.
Attenzione però, perché già versione animata venne accusata di essere una semplificazione eccessiva del manga originale, sebbene proprio in questo risiedesse il suo pregio maggiore. Se sulle pagine Shirow tentava faticosamente di dare spessore al suo universo iper-tecnologico e futuristico attraverso un mare di commenti metatestuali, l’anime ha senz’altro avuto il merito di conferire maggior respiro proprio agli interrogativi morali, etici e filosofici impliciti nella vicenda di Motoko e della realtà che la circonda.

La pellicola presenta invece il limite di nutrirsi eccessivamente di tutti quegli effetti di spettacolarizzazione che non appartengono alla narrazione giapponese, forte di una tradizione che detiene invece il cardine della sua identità culturale nelle ellissi, nell’indefinito e nel mistero con  cui arricchisce le storie. Con buona pace dei puristi quindi, ricreare quella stessa narrazione era impossibile se non addirittura dannoso per un film che deve intrattenere lo spettatore per due ore.
Forse la pecca maggiore del film sta nell’aver modificato in modo consistente il senso del rapporto tra Motoko e la sua nemesi cibernetica, il nemico che le apre le porte a una conoscenza nuova della realtà circostante. Cambiano infatti i giochi di forza e i ruoli tra i due e questo modifica totalmente il senso del finale rispetto alla storia originaria.
Questa scelta di sceneggiatura aiuta forse a giustificare alcuni meccanismi narrativi che investono la sfera del libero arbitrio e del dissenso che portano Motoko a una profonda rivalutazione della sua esistenza, tuttavia ciò riduce l’adattamento in più di un caso a essere una mera ripresa superficiale di situazioni e dialoghi.
La stessa metropoli, New Port City, dal design retro-futuristico, estraniante e sudicia della versione animata diventa qui un’esplosione tecnologica di luci patinate, immensi messaggi pubblicitari olografici e cieli plumbei che poco conservano della freddezza originale.

Le critiche mosse in seguito alla scelta di Scarlett Johansson per il ruolo protagonista del Maggiore Kusanagi invece appaiono del tutto ingiustificate, sia perché le due fisicità sono davvero molto simili, sia per il curriculum dell’attrice già impegnata in ruoli che la vedono  in azione come spietata macchina da guerra o come intelligenza artificiale dalle capacità illimitate (non solo diretta da Besson in Lucy ma anche nella sua encomiabile interpretazione “invisibile” in Her).
La Motoko di Shirow di giapponese ha solo il nome e, ancor più nell’anime che nel fumetto, la sua fisionomia non evoca le fattezze di una donna orientale bensì quelle di una bambola, dai grandi e inespressivi occhi azzurri, proprio per rafforzare l’idea di artificiosità legata al personaggio.
Completano il cast Pilou Asbǽk, nel ruolo del compagno di squadra Batou, Juliette Binoche, che interpreta la dott.ssa Ouelet a capo del progetto di ricerche dell’agenzia governativa di cui il Maggiore è l’esito finale, e Michael Pitt, un inquietante e androgino cyborg che trama la sua vendetta contro la Hanka Robotics.
Guida la mitica Sezione 9 il leggendario Takeshi Kitano che, nel ruolo di Daisuke Aramaki, recita in giapponese con uno stile ineguagliabile.

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Distribuito in Italia dalla Universal Picture, Ghost in the Shell è nelle sale cinematografiche dal 30  marzo 2017 e riuscirà a non deludere le aspettative di quegli appassionati legati al film cult degli anni 90. Occorre loro solo una necessaria precisazione: non ritroveranno in sala la magia dell’anime, ma potranno recuperare di nuovo l’atmosfera unica di una fantascienza dalla complessità appassionante e morbosamente inquietante. Per tutti gli altri il film risulta un buon compromesso tra pellicola di genere e mirabili effetti tridimensionali, utile magari per intraprendere la conoscenza di un universo ben più profondo e complesso.

Tra l’accumulo di corpi cibernetici non umani, il tentativo di definizione di ciò che costituisce la coscienza umana, lo spettro di una bioetica e di una tecnoscienza che si impongono minacciando la stessa idea di umanità Ghost in the Shell ha saputo apportare il suo valido contributo a quell’universo narrativo che da William Gibson in poi ha tentato di immaginare gli angoscianti scenari che si aprono con le ibridazioni complesse fra corpo umano e macchine.
Ebbene, questo spirito non manca al film e va tenuto presente che la sequenza spettacolare di immagini, superfici e visioni, accusata di interferire con uno spirito originario ben diverso, è una cifra stilistica quanto mai necessaria al linguaggio espressivo del cinema. I nostalgici avranno di che contestare ma non dovrebbero dimenticare che il virtuosismo è uno strumento attraverso cui ogni live action drammatizza un’esperienza narrativa. Specie se si tratta di un universo così radicale come quello concepito da Shirow sul finire degli anni 90.

 

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