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Ready Player One, di Steven Spielberg

Ready Player One di Steven Spielberg è un concentrato di avventure e prove svolte su due piani narrativi differenti, il reale-filmico e il virtuale-filmico che dialoga in continuazione con la realtà spettatoriale con citazioni metamediali, che spaziano dal linguaggio verbale a quello cinematografico, dal musicale al letterario, dalle allusioni a videogiochi moderni fino al rispolvero di retro arcade da sala giochi anni ’80, il tutto mantenendo altissimo il ritmo adrenalico. Il cuore di ogni nerd, geek, cinefilo o gamer può battere all’impazzata, si sconsiglia l’assunzione di troppi zuccheri e sostanze eccitanti prima o durante la fruizione del film.
La visione di Ready Player One è caldamente raccomandata ad un pubblico che sappia ancora cosa vuol dire sognare, che abbia voglia di ritrovare il proprio passato proiettando se stesso in un futuro fantasticamente verosimile. Quindi che cosa state aspettando? Non leggete tutta la recensione! Andate a vederlo subito! Diventate anche voi gunter alla ricerca di tutti gli easter egg sparsi nelle inquadrature. Mettetevi alla prova, lasciatevi coinvolgere. Giocate e non ne rimarrete delusi. È questo lo spirito del film, nonché il messaggio che Ernest Cline trasmette con il suo bestseller da record. Se non ci sono chicche negli end credit immaginate quanto ogni fotogramma sia zeppo di materiale di omaggio alla cultura pop! Se non mi credete continuate a leggere, ma non farò spoiler, al massimo qualche esempio di questi riferimenti.

Iniziamo dalla storia, fondamento imprescindibile di qualsiasi produzione artistica:

Ready Player One è la storia di Wade, un ragazzo che, come tanti altri utenti, in un futuro distopico, “vive” una realtà virtuale attraverso il suo avatar. Il creatore del mondo immaginario a cui si connette, idolatrato da lui come da tutti, è deceduto e ha invitato tutti ad intraprendere una ricerca che ha come premio la sua eredità: chi supererà le tre prove otterrà tre chiavi, le tre chiavi permettono di conoscere altrettanti indizi per raggiungere l’obiettivo finale che consiste in un easter egg che, nella realtà live action, si traduce in quote azionarie della società sviluppatrice del software e rendono chi ne è in possesso il suo proprietario assoluto. Per raggiungere l’obiettivo non basta essere dei bravi giocatori, occorre conoscere anche il più piccolo dettaglio della biografia dell’autore, condividere il suo amore per la cultura popolare e avere a cuore, forse più di lui, i migliori sentimenti che governano il mondo reale.

Ci sono tutti gli ingredienti del racconto immortale: nella trama di Ready Player One si annodano in maniera perfetta e indissolubile gli elementi del viaggio dell’eroe di Vogler, lo studio dei miti di Campbell e molte delle funzioni della fiaba analizzate da Propp, shakerate con le esigenze della narrativa cinematografica contemporanea. L’eroe riluttante che risponde al richiamo dell’avventura da cavaliere solitario, ma sotto mentite spoglie, per intraprendere una quest in una dimensione altra in cui ognuno è un mutaforma grazie agli ultimi ritrovati della hi-tech. Dovrà superare prove che hanno il retrogusto del rito d’iniziazione e imparare lezioni di vita: imparare a distinguere gli amici dai nemici e capire se si cerca nei sogni ciò che non si può avere nella realtà o se è la realtà a generare la materia di cui sono fatti i sogni.

È il 2044, il mondo è stato colpito da una grave crisi energetica e, l’economia, di conseguenza, è giunta al collasso. Il divario tra indigenti e classi agiate è diventato sempre più evidente. Ma una via d’uscita, seppur illusoria e temporanea, c’è: si tratta di Oasis, una simulazione virtuale in cui le persone possono fuggire dalla vita quotidiana ed essere, durante l’arco di tempo della connessione, tutto quello che hanno sempre voluto essere: un supereroe, un mostro divoratore di uomini, un cavaliere senza macchia e senza paura, una modella supersexy, Freddy Krueger, Michael Jackson, Batman. Ognuno può scegliere di rivivere potenzialmente all’infinito ricordi e avventure del proprio passato o prendere parte a qualche avvenimento della storia del cinema, esplorare galassie lontane. L’unico limite a tutto questo è l’ immaginazione.

«La gente viene su OASIS per tutto quello che si può fare. Ma ci rimane per tutto quello che si può essere.»

Ma nel mondo reale c’è chi vorrebbe porre un limite anche economico all’utilizzo di Oasis e sfruttare questa tecnologia per il proprio tornaconto personale, per arricchirsi e ottenere sempre più potere. Si tratta di Nolan Sorrento [Ben Mendelsohn, Rogue One: A Star Wars Story, L’ora più buia], passato da stagista porta caffè, con ambizioni di potere e brama di denaro, a villain multitasking che riesce nell’impresa di tramare su due realtà diverse anche se profondamente interconnesse. Con la sua società di hardware appositamente sviluppati per giocare, la Innovative Online Industries (IOI), inventa nuovi prodotti e tecniche di guerrilla marketing per aumentare il fatturato e puntare a diventare il proprietario assoluto di Oasis. Ovviamente ridurre sul lastrico gli utenti non intacca minimamente la sua immoralità. Il modo che Nolan propone per gestire Oasis sarebbe l’esatto opposto dell’idea primordiale. Oasis è stato concepito come una fuga dalla realtà decadente e l’accesso è stato sempre rivolto a tutti indistintamente.

Il creatore di questo paradiso multisensoriale è James Donovan Halliday [Mark Rylance, Il GGG – Il grande gigante gentile, Dunkirk e Oscar® per migliore attore non protagonista 2016 per Il ponte delle spie], un genio tanto estroso nel piegare la tecnologia alle sue utopie quanto riservato, ai limiti dello schivo, nei rapporti interpersonali. Affiancato dal socio e migliore amico Ogden Morrow [Simon Pegg, A Fantastic Fear of Everything, L’alba dei morti dementi, Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno] si è sempre opposto a commercializzare in maniera selvaggia la sua creatura tecnologica. Quando Halliday, però, sente approssimarsi il giorno della sua morte, indice una gara In tutto questo, però, James Halliday ha deciso di lasciare degli easter egg, delle prove da superare per ereditare la sua immensa fortuna dopo la sua morte. A contenderselo ci sono, potenzialmente, tutte le persone di Oasis e la IOI. Segreti di certo non facili da scovare nell’immenso mondo virtuale. Tutti infatti brancolano nel buio, finché però, quasi per caso, il giovane Wade Owen Watts non trova un indizio…

«Prima la chiave! Poi l’easter egg!»

Curioso che a fornire linfa vitale, ventate di freschezza, a un cinema che rispolvera il glorioso passato con remake e reboot, sia un veterano a cui la nuova generazione avrebbe dovuto “fare le scarpe”, come si suol dire. Tre Oscar® vinti e 33 film diretti. Un novello Tolkien conierebbe per lui un nuovo epiteto, una delle sue formule mutuate dalla tradizione orale delle antiche leggende popolari. Il regista che da sempre sperimenta e continua a sperimentare in eterno, Steven Spielberg, Maestro di ogni genere. È passato quasi un secolo da quando i movie brats, “i ragazzacci del cinema”, hanno deciso di far fronte comune e spalleggiarsi per portare avanti la loro innovativa idea di cinema. Si tratta di Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Brian De Palma, George Lucas, Paul Schrader, Michael Cimino, John Milius, Robert Zemeckis e Stanley Kubrick. I visionari di allora, che hanno fatto e sono la storia del cinema mondiale, non hanno mai avuto degli eredi veri e propri e così eccone uno che è costretto agli straordinari. Non che ci dispiaccia. Spielberg, in un anno solare, presenta due film, il candidato all’Oscar 2018 The Post e Ready Player One, che non potrà non dire la sua alla cerimonia del prossimo anno. E quello che lascia sbalorditi è la sua continua voglia di rimettersi in gioco e sperimentare.

I movie brats, chi più chi meno, hanno omaggi disseminati per tutto il film. Eliminato, invece, ogni riferimento del romanzo allo stesso Spielberg: «nel libro c’erano molti riferimenti ai miei film come regista e produttore degli anni ’80, ma non volevo che il film mostrasse lo specchio di me stesso».

Ready Player One, pubblicato per la prima volta nell’agosto 2011, è, probabilmente, il romanzo di fantascienza più importante dal 2000 ad oggi, ed è forse destinato a diventare uno dei romanzi di fantascienza più rilevanti di sempre. Ernest Cline trasforma la fiaba moderna di Willy Wonka in una sci-fi quest adventure in cui tutti gli elementi classici della fantascienza si mescolano per trovare la forma accattivante di un romanzo brillante e innovativo. Storia, personaggi ed eventi si intrecciano in un modo unico, riuscendo contemporaneamente sia a riportare il lettore negli anni ’80, sia a dare nuova e meritata visibilità a serie e film ormai classici come Shining, Tron, Akira, Il gigante di ferro, Gundam, Wargames e i sempreverdi Star Wars, Mad Max, Ritorno al futuro e King Kong (solo per citarne un numero minimo).

L’ottimo materiale di partenza ha generato altissime aspettative intorno al film di Spielberg. Lui ha risposto surclassando se stesso. Ha guidato i maghi degli effetti della Industrial Light & Magic e della Digital Domain e la loro tecnologia all’avanguardia dimostrando che va utilizzata per coadiuvare un film e raccontare meglio una storia e non per prendere il centro della scena offuscandone personaggi e sceneggiatura. Tra motion capture, live action, animazione 2D e 3D, CGI, occhiali VR «sembrava davvero la realizzazione di quattro film in contemporanea», confessa il regista, ma deve essere stato fantastico per lui poter usufruire della tecnologia VR come strumento per pianificare le riprese, dirigere gli attori e i loro avatar, decidere i punti macchina in un ambiente virtuale indossando cuffia, occhiali e microfono. Un vero viaggio nel futuro, non più simulato. Possiamo solo immaginare quanto si sarà divertito a poter gestire rapidamente gli obiettivi o regolare le angolazioni con un sistema di mdp virtuali e una fotocamera palmare ergonomica appositamente costruita per monitorare tutto, inquadrare, ottenere inquadrature impossibili e panoramiche spettacolari che, su un tipico set, avrebbe richiesto un numero di riprese poco sostenibile.

«Volevo che questo film fosse proprio questo tipo di avventura… un film talmente veloce da far volare i capelli all’indietro mentre corri verso il futuro».

Spielberg ha lavorato a stretto contatto con ogni settore dalla fotografia, per la quale ha scelto Janusz Kaminski [Schindler’s list, Salvate il soldato Ryan] che ben conosce la sua sensibilità per l’illuminazione, il colore e il contrasto.

Per la musica, un po’ costretto per la non disponibilità dell’amico di sempre John Williams, il regista ha messo a contratto un certo Alan Silvestri e l’autore della colonna sonora di Ritorno al futuro e non delude di certo alla sua prima collaborazione con il maestro, innestando alla sua già emozionante partitura, intrisa di percussioni adrenaliniche, una coinvolgente playlist di successi degli anni ’80, pop, rock e dance. Si spazia dalla hit Jump di Van Halen ai Tears for fears, da Prince al tema di Godzilla composto da Akira Ifukube, dai Depeche Mode ai Twisted Sister per arrivare al progressive rock della Tom Sawyer dei Rush. Chicche per intenditori tra gli easter egg musicali.

Stupendo anche il lavoro di Kasia Walicka Maimone [Il ponte delle spie, A quiet place] per confezionare costumi che non siano dei copia-incolla degli 80s ma che siano reinventate in chiave postmoderna.

Un ultimo – breve – pensiero, prima di concludere, riguarda la scelta dei nomi, mai banali o casuali in questo genere di storie. Il protagonista interpretato da Tye Sheridan, che è stato Ciclope in X-Men: Apocalypse indossando goggles come quelli VR del film – sarà stato anche questa skill a far propendere per lui? – e protagonista di Scouts Guide to the Zombie Apocalypse, uno zombie teen movie goliardico divenuto e da poco tradotto in Manuale scout per l’apocalisse zombie si chiama Wade (Owen) Watts [ha un nome che suona in inglese come un invito all’azione “Cosa aspetti? Quando ti muovi?”, un’esortazione nascosta, il richiamo all’avventura dell’eroe riluttante e l’avatar che lo rappresenta in Oasis si chiama Parzival, una storpiatura del nome del cavaliere che trovò il Sacro Graal nel ciclo bretone. Art3mis, l’alter ego scelto da Samantha [Olivia Cooke, Quel fantastico peggior anno della mia vita, Ouija, la serie Bates Motel], è la dea della caccia, l’abbinamento perfetto con l’altro egg hunter (il termine gunter usato dal film è una crasi, appunto, di queste due parole). Per il migliore amico di Wade, che rappresenta la più grande disparità tra umano e avatar, il nome è Aech, un anagramma di “each” (“ogni”) quindi una sorta di uno, nessuno e centomila. Oasis ovviamente è l’oasi nel deserto, ma questo suo richiamo alla natura contrasta con la freddezza della IOI (la Innovative Online Industries di Nolan) che, secondo il codice binario, rappresenta il numero 6 da cui derivano i Sixers, gli scagnozzi del villain, riconoscibili solo dai loro numeri di matricola. E IOI non è forse il contrario della pronuncia di Ohio (OIO), lo Stato che fa da sfondo alle vicende del film? Una coincidenza? Impossibile!

Ready Player One coinvolge perché parla, neanche troppo fra le righe, del modo in cui viviamo le nostre vite, di come, con il passare del tempo, siamo sempre più disconnessi dalle interazioni personali nel mondo reale, di come affidiamo pigramente i nostri pensieri alle tastiere veloci, alle emoticons o alle gif animate, di come preferiamo messaggiare invece di massaggiare, di come ci mettiamo un secondo a condividere un contenuto multimediale e una vita ad aprirsi con il cuore a chi ci sta attorno. Un mondo come quello scritto da Cline e filmato da Spielberg non appare poi così tanto improbabile. Rimaniamo coinvolti da Ready Player One come spettatori, perché da utenti ne siamo affascinati e nello stesso momento terrorizzati, perché, in fondo, potrebbe rappresentare una previsione del nostro imminente futuro.

Ricordate: niente crazy credits o altre sorprese durante i titoli di coda. Avrebbero tradito lo spirito ludico degli easter egg e il messaggio stesso del film che è divertirsi!

It: Capitolo uno, di Andrés Muschietti

Feroce, crudele, macabro e violento nella misura richiesta dal pubblico, apprezzato in ogni suo aspetto formale, l’It: Capitolo uno di Andrés Muschietti si eleva a capolavoro indiscutibile del genere horror adolescenziale. Il Pennywise che Bill Skarsgård [Allegiant, Atomica bionda] si è cucito addosso, ammalia e terrorizza con i suoi occhi penetranti e taglienti, con le sue movenze scattose e una verve che fa quasi impallidire il generoso Tim Curry che da solo, letteralmente da solo, salvava la ormai dimenticabile produzione televisiva degli anni ‘90.

Il Male innominabile, nascosto nel profondo di ogni comunità, per quanto piccola, e nel profondo del subconscio di ogni essere umano, per quanto coraggioso, si manifesta principalmente nelle sembianze di un clown che indossa un costume dal design molto ricercato e studiato nei minimi particolari. Per riassumere in un unico capo d’abbigliamento tutte le generazioni in cui It ha portato a termine il suo bisogno di sangue, la costumista Janie Bryant ha ideato una tuta sagomata che include contemporaneamente reminescenze medievali, rinascimentali, elisabettiane e vittoriane, con tanto di plissettatura fortuny che contribuisce a rendere ancora più barocco, e quindi enigmatico, per anacronia, tutto l’insieme.

Una sorta di “lasciate che i bambini vengano a me”, ma con un epilogo contrario al messaggio evangelico-cristiano. Pennywise rappresenta il baratro della paura più profonda, il buio denso dove ogni cosa può perdersi per sempre, persino la più pura delle innocenze. Il Male nel suo stato più beffardo: orditore di inganni, come il Diavolo delle leggende popolari. Una creatura mutaforma che vive del dolore e delle sofferenze altrui e si nutre di sangue innocente, non prima di averlo annegato nella paura più soffocante.

«Galleggerai quaggiù! Tutti galleggiamo quaggiù! Sì! Galleggiamo!»

A sorprendere piacevolmente, se così si può dire anche in un horror, sono anche le molte trasformazioni di It, ben bilanciate tra citazioni letterali del romanzo e nuove idee che scavano nell’immaginario collettivo. L’essere senza forma che vive nelle acque nere e che, come l’acqua per mostrarsi in forma tangibile assume le sembianze di qualsiasi recipiente che possa scatenare sgomento, la bestia che sopravvive nei secoli dei secoli grazie ad un tacito tributo di carne fresca, fornito da vittime innocenti, non è che la naturale evoluzione di un archetipo che ha origine nella notte dei tempi: non c’è bisogno di scomodare trattati di antropologia per riconoscervi la paura allo stato puro, quella che i primi uomini esorcizzavano disegnando nelle grotte, protetti dal fuoco. È scritto nel nostro stesso DNA. Basta solo che ciascuno di noi ricordi. Stephen King ha solo dato voce a quello che abbiamo vissuto, per diretta esperienza, figurata o reale che sia, e che torna virtualmente negli incubi notturni, quando siamo più fragili e indifesi. O nel buio di una sala, come ha fatto egregiamente Muschietti.

L’opera più corposa di Stephen King (1986) è diventata negli anni il prototipo di tutta una sequenza di storie, nella sua stessa bibliografia come in quella di altri scrittori e sceneggiatori successivi. Da Stand by me a Cuori in Atlantide, se si vuole rimanere tra le pagine kinghiane, da I Goonies al più vicino, per ordine di tempo e per le sue molte affinità, Stranger things, tutti hanno raccolto spunti a piene mani, imparando la lezione che una ricetta perfetta è il risultato di una successione di ingredienti ben ponderati e pesati.


Un pizzico di Goonies, una bella dose di Stand by me, tanto Nightmare on Elm Street e, per finire, una spolverata quanto basta di Stranger things e la ricetta per il successo del nuovo It è pronta, basta infornare in una grande sala buia, ben climatizzata e dall’audio avvolgente e aspettare solo che la storia faccia il suo corso. E che storia! Una rivisitazione della fiaba gotico-grottesca tipica dei Grimm con tanto di utilizzo del sottotesto allegorico: sono tantissime le allusioni ai rituali d’iniziazione, alla perdita dell’innocenza, alla crudeltà amorale dell’infanzia, ai patti di sangue e ai tributi e sacrifici ad una divinità latente. Ma se sono una presenza costante nel romanzo, non lo sono così tanto nel film, per non appesantirne troppo la fruizione, probabilmente. Alla luce di questo, per quanto sia entusiasta di It: Capitolo uno, rimango dell’opinione che, per mettere ben in evidenza questi interessanti aspetti nascosti del romanzo, la forma perfetta sia una serializzazione di più ampio respiro. Netflix, pensaci tu!

«Prenderò tutti voi e mi nutrirò della vostra carne come mi nutro delle vostre paure!»

Resta scritto negli annali, comunque, che il più famoso romanzo di King ha finalmente avuto il degnissimo adattamento che meritava, con buona pace dei fan più integralisti. La Warner Bros, dopo ben due defezioni che avrebbero potuto minarne alle fondamenta la progettazione, ha coraggiosamente affidato il film ad un regista emergente ed è stata ripagata davvero a peso d’oro. Andrés Muschietti, argentino di chiare origini italiane, aveva diretto in precedenza solo un altro film: La Madre, un horror-thriller ben giudicato dalla critica internazionale, che ha come protagonista la Jessica Chastain che, quasi sicuramente, interpreterà la Beverly adulta in It: Capitolo due.


Dopo l’enorme successo ottenuto da It: Capitolo uno, per Muschietti si vocifera già di un nuovo ambizioso progetto da tramutare in oro: la trasposizione live-action di Robotech, la risposta datata 1985 agli anime giapponesi della Tatsunoko, di genere sci-fi war, che ha per protagonista un’intera fanteria di giganteschi robot. Nell’attesa, analizziamo quello che è a tutti gli effetti da considerare il nuovo horror campione d’incassi della storia del cinema.

I sette “Perdenti” [“Losers” in originale, come si può notare dalla scritta sul gesso di Eddie] hanno ottimamente interpretato i loro ruoli coinvolgendo non poco un target molto ampio di spettatori. Jaeden Lieberher [Midnight special, St. Vincent] è BILL DENBROUGH, che non ha mai superato la scomparsa del fratellino Georgie, finita nelle fauci di It. Il chiacchierone dalle mille voci RICHIE TOZIER è interpretato da Finn Wolfhard [protagonista di Stranger Things], Jeremy Ray Taylor [42, Geostorm] è l’architetto in erba BEN HANSCOM; Jack Grazer [Tales of Halloween, e prossimamente Shazam!] invece è il cagionevole EDDIE KASPBRAK. A completare il cast Wyatt Oleff [Guardiani dellae Galassia] alias STANLEY URIS, Chosen Jacobs, ossia MIKE HANLON, e Sophia Lillis, attrice estremamente fotogenica che sembra già di un altro pianeta mentre interpreta il personaggio di BEVERLY MARSH, e ha ancora solo 15 anni.

Al momento non è stata annunciata ufficialmente la lista completa degli attori chiamati ad interpretare i teenager ormai divenuti adulti in It: Capitolo due. Vi terremo aggiornati!

Lady Bird, di Greta Gerwig

Arriva nelle sale italiane dal 1° marzo 2018 uno dei migliori film americani del 2017: Lady Bird!

Il film d’esordio di Greta Gerwig, attrice di media fama, conosciuta più per aver interpretato e/o scritto alcuni film di Noah BaumBach [Mistress America, Frances Ha, Lo stravagante mondo di Greenberg] piuttosto che per aver preso parte a film più o meno di successo come Jackie o To Rome with love. A quanto pare, però, è una regista di sensibilità e intelligenza notevoli, così la sua commedia introspettiva si posiziona al primo posto nella classifica annuale della rivista Variety, finisce al 19° posto nella classifica dei 25 migliori film dell’anno secondo Sight & Sound e guadagna un onorevole 5° posto sul sito Rotten Tomatoes, che per fama non è mai prodigo di voti, nemmeno con pellicole di indubbio successo.

Scritto e diretto dalla stessa Gerwig, Lady Bird ha aperto la sezione Special Presentations al TIFF [Toronto International Film Festival] del 2017, ricevendo una standing ovation dal pubblico estasiato. In tutto il mondo ha ricevuto e riceve tuttora ottimi riscontri da parte anche della critica, riscontri che si sono tradotti in parecchi riconoscimenti tra cui 2 Golden Globe su quattro candidature e le cinque nomination agli Oscar® 2018: miglior film; miglior regista per Greta Gerwig; miglior attrice per Saoirse Ronan; miglior attrice non protagonista per Laurie Metcalf; migliore sceneggiatura originale. Realisticamente a pochissime chance, ma le sorprese possono verificarsi.

«Chiunque parli dell’edonismo californiano non ha mai trascorso un Natale a Sacramento [Joan Didion]».

Ambientato nella città di Sacramento, città natale della regista, Lady Bird racconta un anno della vita di una teenager all’ultimo anno di high school (2002 – 2003), Christine MacPherson [Saoirse Ronan, Amabili resti, Brooklyn]. Christine vuole evadere dalla sua famiglia e dalle restrizioni della provincia americana in modo da avere la possibilità di costruire il proprio futuro in un college che sia lontano dall’asfissiante realtà in cui vive tutti i giorni. Ama farsi chiamare “Lady Bird”, proprio per una più o meno consapevole voglia di spiccare il volo e andarsene via per lasciarsi tutto alle spalle: la città, gli amici, l’amore, la famiglia. Christine vive un periodo di ribellione e contrasto nei confronti dell’autorità e di quanto la vita sembra offrirle e cambiare il nome è un primo atto di emancipazione. Lady Bird desidera l’avventura, vorrebbe «vivere qualcosa di memorabile», l’amore che cambia la vita, un’università di alto livello e frequentata da persone “strafighe”, persegue la raffinatezza o l’eccentricità, tutto pur di farsi notare, e pretende l’opportunità che l’America dovrebbe offrire a ognuno, ma non trova nulla di tutto questo né nel suo liceo cattolico né in tutta la città di Sacramento.

«Odio la California! Preferisco la East Coast»

Ad essere perennemente sotto esame per Christine è il suo rapporto con gli altri, sempre troppo patetici e problematici per una ragazza che sente di meritare di più. Si sente relegata «dal lato sbagliato della ferrovia» e sogna di abbandonare la sua bassa estrazione sociale guadagnandosi un posto migliore nei quartieri alti, poco importa se le sue azioni possono rovinare le sue più antiche amicizie o mortificare ogni dinamica familiare. In questo contesto di ribellione e ansia da prestazione, è soprattutto il rapporto di amore/odio con la madre, la sorprendente Laurie Metcalf [Io e zio Buck, Pappa e ciccia], a tessere la ragnatela di riflessioni psicologiche più fitta. Le due alternano momenti di amorevole tenerezza e gesti d’affetto a periodi di attriti continui e conversazioni asettiche da diplomatici internazionali in tempo di guerra fredda. L’incipit del film è proprio una loro discussione in macchina dopo aver ascoltato Furore di John Steinbeck e la conclusione del diverbio è a dir poco originale ed esilarante.

Questo tipo di spaccati sociali tipici del panorama indie sono da sempre amati dal pubblico americano e dalla critica autorevole delle kermesse cinematografiche, perché raccontano e riflettono una società più vicina alla realtà dello spettatore medio. Nel corso degli anni la differenza tra cinema mainstream e indie si è andata via via assottigliandosi e molte grosse case di produzione hanno investito nel settore con compagnie-satellite o hanno inglobato gli indipendenti originari, ma è bello vedere in Lady Bird quel coraggio di affrontare tematiche complesse come l’omosessualità, le angosce esistenziali, le droghe, la disoccupazione, le malattie, i rapporti difficili con la scuola o con la famiglia attraverso un registro drammatico-introspettivo che mal si abbina alla commerciabilità del prodotto film.

Lady Bird sembra continuare idealmente un viaggio psicanalitico a ritroso delle sceneggiature di Greta Gerwig: Frances Ha è la storia della fortuna altalenante di un’aspirante ballerina di 27 anni e Mistress America racconta l’esperienza poco emozionante di una matricola del college. Magari è presto per parlare di autorialità, ma la “ragazza” va tenuta d’occhio.

Nonostante una sceneggiatura spigliata, velatamente autobiografica, e una recitazione sentita, non si può dire che Lady Bird sia particolarmente curato dal punto di vista formale: non presenta un montaggio accattivante, originale o stilisticamente degno di nota; nemmeno la fotografia brilla e la musica si palesa quel tanto che occorre per alleggerire e commentare le scene. Ma allora, cosa di Lady Bird ha conquistato l’America e il resto del mondo, tanto da far inserire il film nella lista dei migliori film dell’anno o da renderlo meritevole di una statuetta o più agli Oscar® 2018? Pare che negli ultimi tempi sia molto in auge premiare chi segue il detto LESS IS MORE, da intendersi, ovviamente, non nell’interpretazione operata da Downsizing. Greta Gerwig scrive e dirige un’opera che fa dell’essenzialità il suo pregio più grande.


La trama scorre senza divagazioni sterili coinvolgendo gli spettatori, chi più chi meno, in una crisi esistenziale di fine adolescenza, nella quale risulta importante il percorso e non la meta finale, parafrasando la massima di Thomas Stearns Eliot. Il Nobel 1948 per la letteratura non è l’unico ad aver ispirato le riflessioni filosofiche della neoregista americana: l’intero viaggio esistenziale della protagonista richiama alla mente le riflessioni di Marcel Proust, “la scoperta non consiste nel cercare nuovi posti ma nel vedere con occhi diversi”, e di Seneca, per il quale “viaggiare e cambiare luogo infonde nuovo vigore alla mente”. Ma è citando Steinbeck nell’incipit che la regista fornisce la chiave per interpretare il film: L’uomo è un animale che vive d’abitudini. Si affeziona ai luoghi, detesta i cambiamenti. […] Ho finito per persuadermi che un uomo deve lasciarsi vivere. Prendere la vita come viene, e non cercare di modificarla.

«Alcuni non sono fatti per essere felici»

Nota a margine: il compositore di Se mi lasci ti cancello e Ubriaco d’amore, Jon Brion, ha curato la colonna sonora di Lady Bird inserendo anche brani tratti da musical di successo: Being alive [Company], Everybody says don’t [Anyone can whistle] e Giants in the sky [Into the Woods], tutte scritte da Stephen Sondheim, che ha anche composto il musical “Merrily we roll along” in cui si esibiscono Lady Bird e gli altri membri del corso di recitazione.

Fa parte del cast anche Timothée Chalamet, candidato all’Oscar® 2018 per il ruolo di Elio Perlman nel film Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino.

Tutti vogliono qualcosa, di Richard Linklater

Everybody wants some, ovvero Tutti vogliono qualcosa, è una commedia giovanile, un buddy movie, un film corale, una pellicola d’autore e una realistica ricostruzione del 1980, un film su una squadra di baseball del college, avvincente, esilarante, effervescente, emozionante senza che i personaggi giochino mai neanche una partita. Com’è possibile? Solo Richard Linklater, maestro del cinema indipendente americano, è capace di compiere questo tipo di imprese.

Sull’onda del successo di Boyhood, il regista estrae dal cilindro un nuovo capolavoro che ricrea quei meccanismi ormai consolidati nel suo modo peculiare di far cinema: l’ottimizzazione del basso budget a disposizione; attori non famosi che hanno saputo calarsi nei panni di personaggi ben caratterizzati e collocati in un’epoca ben distante dalle loro vite; la supremazia dei personaggi, sempre ordinari in contesti ordinari, rispetto all’intreccio, subordinato, in questo specifico caso, anche alla ricostruzione scenografica che è maniacale, da candidatura agli Oscar®, probabilmente. Quello che sorprende è l’utilizzo per tutto il film della parola, dei dialoghi in una maniera che riecheggia Dazed and confused – La vita è un sogno, citato visivamente in molte inquadrature, e che sembra segnare una sorta di continuità concettuale con il sopracitato Boyhood, con digressioni filosofiche che spezzano la narrazione lineare, riuscendo a mescolare gli episodi di The twilight zone – Ai confini della realtà con i Maya, i druidi e la telepatia, capacità che, ovviamente, dopo una tirata di bong, i protagonisti sperimentano, per poi tornare agli argomenti più amati: «il baseball e la passera».

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«Quando giochiamo a baseball parliamo di passera e, invece, quando abbiamo davanti tutta questa passera parliamo di baseball!».

Se poi il coach esigente dà delle regole «niente alcool in casa» e «niente ragazze nelle camere da letto» perché non vuole «compromettere il programma per un po’ di pelo!» per le quali è lui stesso a trovare un escamotage in modo da trasgredire al piano di sotto, possiamo tranquillamente metterci comodi sulla poltrona ed aspettarci un paio d’ore di divertimento senza inibizioni.

Detta così può sembrare una commedia alla Animal house e invece ci troviamo davanti ad un vero spaccato di realtà, che è fatta di chiacchiere a volte senza senso, di turni davanti allo specchio per pettinarsi, di racconti inventati e spacconate, di deliri e cazzeggi. Tutti vogliono qualcosa è un’escursione nei meandri della mente di un ex-adolescente alle prime esperienze lontane dalla famiglia e fuori da qualsiasi controllo. Al contempo è un viaggio nei ricordi di Linklater, del periodo in cui ha iniziato a frequentare il college come fa il protagonista Jake Bradford [Blake Jenner] che arriva nelle case affidate alla squadra di baseball della Texas State University e subito viene coinvolto dai compagni più socievoli nelle attività preferite: «Tutti al “Fox”!» a bere, poi tutti insieme a ballare e divertirsi alla discoteca “Sound machine”, dove la confraternita di baseball è sempre gradita guest star con entrata libera e birra gratis. Infine, soprattutto, sempre e comunque, rimorchiare in ogni locale, in ogni occasione, a qualsiasi festa, che sia a tema country, punk, disco o del corso di teatro, grazie soprattutto alle tecniche sopraffine di Finnegan [Glen Powell], il vero trascinatore del gruppo.

«Studio da cunnilinguista!».

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Una squadra quanto mai reale – chi è stato membro di una squadra sa di cosa si parla – con personaggi che possono a primo avviso sembrare macchiette ma che rispecchiano le varie tipologie di giocatore. Ogni personaggio ha le sue fisime, la sua indole, le sue superstizioni e i suoi rituali, molto carina a tal proposito la dissertazione per spiegare la differenza tra queste ultime due caratteristiche.

«Bisogna avere due strambi in ogni squadra», perciò ecco il veterano scommessa-dipendente Nesbit e la matricola spaccona Nails, che ama definirsi un «cane da combattimento». Se Finnegan è espansivo e logorroico, gli fa da contraltare il burbero Roper che a Jake si presenta così: «Io odio i lanciatori. Saremo compagni di squadra ma non saremo mai amici» o il capitano McReynolds [Tyler Hoechlin], che assolutamente non prende bene le sconfitte e non tollera che la sua leadership sia messa in discussione. Tra giovani promesse sul campo di gioco e schiappe nella vita di tutti i giorni, veri fulminati e cazzeggio dipendenti, l’assortimento di tipi umani da manicomio è quanto di più vero possa esserci in una qualsiasi squadra, che ci crediate o no.

«Copriamo tutte e nove le posizioni».

Il colpo di genio di Linklater sta proprio nel divertire e coinvolgere nella reale vita di squadra senza che succeda un evento sportivo degno di nota. Nei tre giorni che lo separano dall’inizio delle lezioni, a partire dal “28 agosto 1980”, Jake assaggerà quel nuovo mondo tra sfide a schicchere sulle nocche, bevute in compagnia, discussioni e litigi, ragazze da una notte e via, magari alla ricerca di quella speciale che alle amiche «…dirà con orgoglio: è un giocatore di baseball!», l’unica per cui lui possa affermare «sono pazzo del baseball ma c’è qualcos’altro nella vita».

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Oltre alle gag esilaranti, non mancano due chicche da nerd: il personaggio di Willoughby e le sue azioni sono una citazione sottile dell’episodio “Una sosta a Willoughby” di The twilight zone – Ai confini della realtà, serie tv di cui lui stesso vanta una collezione completa in VHS; l’altra chicca è il titolo della tesina che Jake ha portato per il diploma, “Sisifo e il baseball”, che vede il dolore del personaggio mitologico nella Divina commedia non come supplizio eterno ma come scopo per combattere ogni giorno, perché lottare per un obiettivo è un dono, nella vita come nello sport, e che le cose assumono un significato quando siamo noi ad attribuirgliene uno. Una commedia giovanile abbiamo detto, ma che dialoghi!

Il clima di cazzeggio, la sceneggiatura priva di tempi morti e il coinvolgimento dei dialoghi fa dimenticare persino che nei primi fotogrammi sia stata inserita per errore una ripresa in cui il crane si riflette sulla macchina. Un errore che somiglia un po’ a quello di Kubrick in Shining, con l’ombra dell’elicottero che entra nelle inquadrature iniziali, per essere considerato tale.

La squadra di lavoro di Linklater, ormai consolidata e coesa dopo i tanti successi e i pochi fallimenti vissuti insieme, rispecchia l’affiatamento dei personaggi di Tutti vogliono qualcosa, tra veterani e matricole promettenti: il direttore della fotografia Shane F. Kelly [Boyhood, A scanner darkly], il film editor Sandra Adair [Boyhood, Prima del tramonto, School of Rock, Me and Orson Welles, Bad News Bears – Che botte se incontri gli orsi!, Prima dell’alba, Fast food nation, Tape, La vita è un sogno], lo scenografo Rodney Becker [Boyhood, Bernie, A scanner darkly] e la costumista Kari Perkins [Boyhood, Bernie, A scanner darkly, Fast food nation]. Ognuno ha contribuito a rendere questo film un gioiello del cinema indipendente d’autore.

«Metti insieme persone competitive e diventi vittoria dipendente»

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Tutto il film permette un nostalgico tuffo nel passato grazie ad un lavoro di ricerca minuzioso sotto ogni aspetto, dalla scenografia ai costumi, dal make up agli argomenti di discussione.

«Sento che gli Astros vinceranno il campionato».

Perfino la colonna sonora è estremamente curata con 45 top hits dell’epoca che esplorano ogni genere in voga in quegli anni. Non da ultimo una stupenda performance corale degli attori che si cimentano in un brano rap originale che racconta le vicende dei personaggi da loro interpretati. Il brano è una chicca posizionata nel bel mezzo degli end credits, perciò, se vogliamo dirla con un acronimo a tema: Rimanete Al Posto!

«Ehi, Coma! Almeno togliti gli occhiali! Sembri uno della narcotici!
E togli la camicia dai pantaloni! Sembri un venditore di bibbie!».

Per concludere, Tutti vogliono qualcosa è un film indimenticabile, per chi sa cosa significhi essere parte di una squadra vera, una marmaglia mal assortita di persone che si spalleggiano reciprocamente nel campo di gioco come nella vita, che condividono gioie e dolori non solo in quell’arco di tempo in cui gli è concesso di essere giocatori. Anche se le strade poi si separano, quelle scene, quei sapori, quegli odori, le vittorie, le discussioni, le incomprensioni, le imprese, le sconfitte, le conquiste di ogni duro allenamento, le dimostrazioni d’affetto, il senso di appartenenza, il gusto di sentirsi rispettato, stimato, a volte indispensabile, sono tutte emozioni forti che compongono preziosi ricordi, che possiamo portare incastonati nel cuore per sempre e che permettono di superare gli ostacoli della vita, quelle frontiere citate sulla lavagna il primo giorno di lezione: «“LE FRONTIERE SONO DOVE LE TROVI”».

Mai farsele imporre. Superarle sempre. E Linklater, più di ogni altro, sa come valicarle con stile e originalità.

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Microbo & Gasolina, di Michel Gondry

«Every great idea is on the verge of being stupid».

Microbe et Gasoil, il nuovo film di Michel Gondry, è stato presentato a Roma al Rendez-Vous Festival del cinema francese il 7 aprile e sarà nelle sale ufficialmente a partire dal 5 maggio con il titolo Microbo & Gasolina. Inizialmente, dopo Mood Indigo – La schiuma dei giorni, il regista avrebbe voluto adattare per il grande schermo un altro romanzo surreale, il famosissimo Ubik di Philip K. Dick, ma poi ha deciso di proporre un film molto più personale accettando il consiglio di Audrey Tautou che, nel nuovo film, è presente nella inedita veste di madre in crisi matrimoniale ed esistenziale.

Due ragazzi di Versailles, Daniel e Theo, viaggiano tra Île-de-France e il massiccio del Morvan, attraversando la Borgogna in un’avventura on the road che è anche percorso interiore di crescita, a bordo della loro casa su ruote. No, non una roulotte o un camper. Non è che non mi veniva in mente il termine appropriato: è che si tratta proprio di un capanno degli attrezzi in legno montato su quattro ruote, una rete matrimoniale e un motore a due tempi di un tosaerba.

Microbo & Gasolina è, di base, una commedia adolescenziale ma, com’era lecito aspettarsi da un genio del cinema come Gondry, fin dalle prime scene di setting, lo spettatore si trova di fronte ad un film comunque sui generis, che contamina road movie, buddy movie, romanzo di formazione, comicità ed espressionismo, senza trascendere mai una solidissima base realistica, uno dei capisaldi della poetica del regista insieme all’inserimento di elementi autobiografici disseminati ad arte.

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Protagonista e alter ego del regista è Daniel [Ange Dargent], soprannominato “Microbo”dai compagni di scuola per la sua costituzione fisica. L’incompletezza di Daniel è evidente fin da subito e non gli è di certo d’aiuto vedere i suoi genitori in crisi e doversi rapportare con un fratello maggiore musicista, anch’egli in crisi d’identità. Di conseguenza tende ad isolarsi e a perdersi in riflessioni esistenziali più grandi di lui, quando non è rapito dalla sua passione più grande, il disegno, per cui dimostra un talento innato: si dice che uno dei termini di paragone per misurare le effettive capacità di un disegnatore sia l’abilità nel disegnare tutte e cinque le dita della mano… beh, Daniel, se si distrae ne riesce ad aggiungere una addirittura! Inoltre, la sua straordinaria facilità di disegnare a mano libera gli permette di risparmiare sulle riviste “sporcellose”: può praticare l’autoerotismo con disegni creati di suo pugno, per un “fatto a mano” fino in fondo. Elementi goliardici a parte, attraverso Microbo, Gondry torna e fa tornare giovani, fa rivivere le emozioni delle prime cotte, dei disagi con il proprio corpo e nella comunicazione con gli altri, dai quali si vorrebbe essere accettati e compresi e non giudicati e condannati. In questo contesto di vulnerabilità dei quattordici anni riesce a far sognare, divertire e, infine, anche riflettere.

Nel momento di maggior sconforto, proprio quando riflette con la madre sul senso della vita, della morte e della presenza di un qualcosa di ultraterreno, nella classe di Daniel, nel bel mezzo dell’anno scolastico, giunge Theo, nome non scelto a caso probabilmente, come un deus ex machina e da allora Microbo avrà qualcuno su cui contare, con cui condividere disagi, ansie, paure e svaghi, con cui confidarsi senza essere giudicato, con cui costruire la propria identità indipendente.

«Non ti preoccupare! Tutti facciamo cose strane».

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Theo [Théophile Baquet] è un ragazzo più scafato, dalla battuta sempre pronta e pieno di inventiva, la cui passione per la meccanica e i motori gli procura subito il nomignolo di “Gasolina”. Più saggio di Microbo, Theo reagisce con maturità ad ogni situazione, anche le più spiacevoli, inanellando tutta una serie di massime che possono assurgere ad insegnamenti di vita per un qualsiasi adolescente: «I bulli di oggi sono le vittime di domani!». Finalmente Daniel si sente incoraggiato, compreso e stimolato. Theo lo chiama anche con un nuovo soprannome di natura positiva: “gouache” (= guazzo), la tecnica di pittura adoperata dal ragazzo per la sua mostra personale. Insieme i due ragazzi si completano e possono affrontare un mondo all’apparenza ostile in modo sano, senza trascinarsi in un paese dei balocchi o nella perdizione come Pinocchio e Lucignolo, ma piuttosto avventurandosi in situazioni rocambolesche come una qualsiasi strana coppia del fumetto francese, primo fra tutti Spirou e Fantasio, forse richiamati anche nel titolo.

Sentimenti come amore, amicizia, rapporti familiari, conoscenze in Microbo & Gasolina hanno la rilevanza che può avere un tappeto musicale. La melodia dell’adolescenza è in continuo divenire, distratta da tutto ciò che può attirare la sua curiosità attiva. Ma, di fatto, è un assolo che si armonizzerà solo col tempo e con le esperienze brutte (Inside out docet!), belle o avventurose (L’estate di Kikujiro, La ricompensa del gatto, Tutti vogliono qualcosa) che siano.

Quella raccontata da Gondry è una sinfonia a due, divertente e spigliata, senza troppi fronzoli, con due personaggi che si completano e si aiutano a vicenda nel comune intento di superare un percorso impervio e faticoso da gestire in solitaria.

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Se la bici modificata, l’automobile e il taglio di capelli handmade possono esprimere il desiderio dei protagonisti di esprimersi e distinguersi, la casa viaggiante diventa metafora di libertà e di redenzione: gli elementi che la compongono sono riconducibili ai luoghi sociali dai quali i ragazzi si sentono distanti ed emarginati, famiglia in primis, e provengono dal posto in cui si sentono maggiormente a loro agio, la discarica. Ed ecco la redenzione: i due rifiuti della piccola società scolastica prendono ciò che la società dei consumi ha scartato e creano qualcosa che li faccia evadere da una realtà che sentono asfissiante, incomprensibile e allo stesso tempo ingiusta nei loro confronti al punto da non lasciare spazio per esprimersi nella propria diversità. Il tentativo di omologazione del veicolo creato rappresenta in parallelo il tentativo di omologazione sociale rincorsa da Daniel e sempre rifiutata da Theo, così i due protagonisti incarnano le caratteristiche di Gondry uomo, diviso tra le sue antiche passioni per il disegno, la scenografia, la fantascienza e la meccanica retro, e del Gondry regista, legato indissolubilmente al suo cinema, che stupisce con realtà tangibili farcite di surreali trovate che sanno dare «un calcio al futuro» attraverso un ritorno al passato. Non a caso i film preferiti del regista sono Ritorno al futuro e Le voyage en ballon.

Nell’estetica visionaria di Gondry sappiamo che la scenografia ha la supremazia sugli effetti digitali fin dai primi videoclip e spot pubblicitari fino alle opere più recenti. In questo nuovo film piacevole, divertente e colorato, il regista de L’arte del sogno torna alle origini e così compie un’opera di bricolage mettendo insieme due caratteri complementari in una sceneggiatura perfetta e mai scontata, dove il genio narrativo va di pari passo con quanto creato artigianalmente sul set con assi di legno, viti e cartone: dalla bicicletta-consolle di Gasolina, fino alla casa-automobile, ogni cosa è profondamente reale, concreta e tangibile così come il contesto della storia e i desideri dei protagonisti. Non vi è una macchina del tempo fisicamente nel racconto filmico, magari progettata con nuvole di cartone ed ingranaggi di orologi antichi, ma è la sceneggiatura, stavolta più che in altre occasioni, a riportare il nostro calendario interiore indietro fino a sentire sulla nostra stessa pelle il ribollire del sangue di quegli anni, ad ogni rospo ingoiato per colpa di bulli rimasti impuniti, di professori frustrati e genitori in crisi. Attingendo a piene da quella fonte dell’eterna giovinezza, che è il mondo dell’infanzia cinematografica, Gondry consegna allo spettatore dei personaggi timidi o disillusi, ma comunque chiusi in sé stessi, che insieme, gradualmente, come in una terapia, si esprimono attraverso lo schermo, con tutti i loro sogni e i loro desideri, fornendo contemporaneamente uno spaccato del nostro tempo e riproponendo una delle tematiche più care alla poetica di Gondry: la difficoltà nella comunicazione interpersonale.

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Anche la musica scelta, di Jean-Claude Vannier, contribuisce a fornire alla pellicola un’atmosfera retrò

«Ero alla ricerca di un compositore. Una notte, ho sognato Charlotte Gainsbourg. Quando mi sono svegliato, mi è venuta in mente una canzone di sua madre [Jane Birkin], “Di Doo Dah”, con quel semplice ritmo di basso, quel tremolo picking di chitarra… e sapevo che si trattava di Jean-Claude Vannier. Ha organizzato molte delle canzoni della Gainsbourg, tra cui l’album Melody Nelson. Ha anche fatto belle canzoni come Super Nana, Michel Jonasz. L’ho contattato, gli ho mostrato il film, ha immediatamente accettato».

Una curiosità per appassionati: Étienne Charry, che nel film interpreta l’organizzatore del concorso di disegno, ha invece composto la musica di Mood Indigo – La schiuma dei giorni.

Microbo & Gasolina è la dimostrazione che si può sopravvivere a quel difficile periodo della vita in cui i punti di riferimento iniziano a vacillare perché non si è più bambini ma non si è nemmeno ancora adulti, senza perdere una propria identità indipendente, non omologata alla massa, e senza dimenticarsi che ci si può divertire e crescere contemporaneamente.

«I ragazzi non sono responsabili della felicità degli adulti».