Sceneggiatura

BlacKkKlansman, di Spike Lee

Vincitore del Grand Priz della Giuria a Cannes 2018, BlacKkKlansman di Spike Lee rappresenta una nuova maturazione della poetica del regista di Atlanta. Dopo le prove non certo idilliache degli ultimi anni – è sufficiente ricordare Red hook summer o Il sangue di Cristo, senza arrivare al povero remake di Old boy, mai perdonato dai veri fan del Maestro – con BlacKkKlansman, si ritorna alle tematiche sociali raccontate attraverso storie solo all’apparenza banali e ad un’estetica non più esasperata fino all’insopportabile eccesso, ma funzionale alla trama e, soprattutto, al messaggio che si vuole veicolare attraverso il film. Un messaggio che ha l’effetto di uno schiaffo ben assestato in un turbinio di risate: zittisce ogni superficiale commento populista e fa riflettere anche dopo i titoli di coda. Purché si abbia un cervello, logicamente.

La storia di un poliziotto che deve sgominare i complotti di un’organizzazione criminale è un plot come tanti, tantissimi film, forse migliaia.

Ma aggiungiamo che il poliziotto in questione sia afroamericano e che il Male da sconfiggere sia il famigerato Ku Klux Klan (KKK): ecco che il materiale che può far gola allo Spike Lee di capolavori come Fa’ la cosa giusta e Clockers inizia a prendere forma e a risvegliare quella coscienza forse sopita a causa di un’ispirazione non pervenuta.

Poniamo, poi, il caso che questo detective senta in sé una missione, frutto di un mix di inconscia ambizione e di assurda incoscienza:

Per combattere in prima linea la discriminazione razziale, Ron Stallworth [John David Washington] non è solo determinato ad essere il primo afroamericano ad entrare nel corpo di polizia di Colorado Springs. Vuole realizzare un’impresa mai neanche tentata prima di quel fatidico 1979: ottenere la possibilità di infiltrarsi tra le fila del KKK per smascherare le loro macchinazioni sotto traccia e la copertura politica di cui hanno sempre tacitamente goduto. Per uno come lui, dalla parlantina spigliata e dalla battuta pronta, basta una telefonata, ma una volta ottenuta telefonicamente la fiducia come può presentarsi di persona? Occorreva inventarsi qualcosa di valido ed il colpo di genio, in realtà vecchio come una commedia di Plauto o Terenzio, è la sostituzione, il classico scambio di persona. Così ad entrare in scena al posto suo sarà il collega Flip Zimmerman [Adam Driver], ebreo non praticante, innescando un crescendo di tensione man mano che si disinnescano gli equivoci e si scoprono i piani del nemico.

«Mi sento continuamente come fossi due persone».

Nel frattempo, su un fronte che più parallelo e in contrasto non si può, Ron è impegnato ad indagare sui piani di “rivoluzione” del comitato studentesco del Colorado College, dove una bella quanto forte presidentessa, Patrice Dumas [Laura Harrier], promuove attivamente il Black Power e i comizi di Stokely Carmichael [Corey Hawkins], il leader carismatico del gruppo. Un’organizzazione “alla luce del sole” per la rivendicazione dei diritti della popolazione afroamericana contrapposta ai fautori del White Power, della supremazia bianca, del nazionalismo bianco o come lo si voglia chiamare per dire “razzisti anacronistici e ignoranti”, con il loro cosiddetto “impero invisibile”, capeggiato da un David Duke che, nell’interpretazione di Topher Grace, risulta non meno misero, goffo e insignificante dell’originale dietro quella sua maschera da semplice e pacifico cittadino americano. Il David Duke di BlacKkKlansman è un personaggio che si fa portavoce di tutta quella retorica della politica di Donald Trump, criticata anche nelle immagini di repertorio presenti nell’inserto che conclude il film.

«L’America non eleggerebbe mai uno come David Duke».

Se a questo punto vi svelassero che il film è tratto da una storia vera, che la sceneggiatura è stata costruita a partire dal libro del detective Ron Stallworth, pubblicato nel 2014 proprio con il titolo Black Klansman? Da non credere? No. Ormai, dopo tante esperienze di biopic, mockumentary e meta cinema ci siamo desensibilizzati al punto da non lasciarci impressionare più di tanto. Ma questo, in fondo, più che alla trama giova al messaggio, veicolato ovviamente dall’intero film ma reso esplicito soprattutto da un inserto cinematografico, inteso come insieme d’immagini estraneo allo spazio e al tempo diegetico.

«This joint is based upon some fo’ real, fo’ real shit».

Questa trama, già di per sé estremamente pregna di significanti più o meno evidenti e spunti di riflessioni da trascorrerci ore, è infatti racchiusa in due inserti collegabili “solo” ideologicamente ad essa ed al messaggio insito in essa. Nell’incipit Spike Lee propone un cameo molto particolare: Alec Baldwin [The cooler, Zona d’ombra, Getaway], che ha già abbondantemente ridicolizzato Trump con la sua imitazione da antologia al Saturday Night Live, interpreta un senatore razzista ripreso in stile mockumentary nell’atto di registrare un discorso di propaganda elettorale: mentre esalta i presunti «valori dei bianchi protestanti» e demonizza parità, integrazione e matrimoni misti, viene proiettata sulla sua figura qualche scena del film Nascita di una nazione, di David Wark Griffith, una delle opere più importante della storia del cinema mondiale per aver introdotto e diffuso le regole del montaggio analitico con i suoi raccordi sull’asse, sullo sguardo, sugli oggetti e sui movimenti creando quello che poi è diventato un vero e proprio linguaggio tecnico. Il caso, o più probabilmente, un’assurda macchinazione alle spalle del regista, ha voluto che proprio quando le scene si facevano più dense sul piano tecnico-formale, la trama – si tratta, infatti, del primo film narrativo della storia – deviasse verso un risvolto nichilista, sottolineato dal primo montaggio alternato in parallelo, ponendo i membri incappucciati del KKK nella parte dei cavalieri salvatori della patria in contrapposizione ai neri visti come delle bestie senza regole e senza cultura. Sin dalle prime proiezioni il film ispirò proteste, disordini, persino omicidi. Si dice addirittura che da allora il KKK sia rinato a nuova vita. Profondamente turbato Griffith girerà subito Intolerance che condannava ogni forma di violenza e intolleranza, ma ormai il potere del medium di massa aveva avuto i suoi effetti devastanti.  In BlacKkKlansman, Spike Lee prende coraggiosamente posizione nei confronti di chi continua a strumentalizzare i media e diffonde un nuovo messaggio In questo senso potrebbe essere considerato il capolavoro assoluto del regista, il film della maturità acquisita, come avremo modo di analizzare tra poco. Tornando agli inserti, quello finale, invece, è un vero e proprio schiaffo che risveglia le coscienze: un montaggio giustapposto di immagini di repertorio in cui si documentano gli scontri di Charlottesville che hanno portato alla morte di Heather Heyes e i commenti imbarazzanti e fuoriluogo di Donald Trump e David Duke, quelli reali, ed è davvero il caso di aggiungere un “purtroppo”.

«Mi serve il fascicolo di un “ROSPO».

A parte il cameo del regista, l’ambientazione a Brooklyn e gli end credits evocatici, che stavolta si sarebbero rivelati fuoriposto, tutta la poetica, lo stile e le ossessioni di Spike Lee tornano in questo memorabile BlacKKKlansman. E la maturità sta nel fatto che ogni cifra stilistica o elemento poetico è funzionale alla trama o all’intreccio.

Per quanto riguarda la POETICA:

  • tematiche sociali, in questo caso alleggerite dai temi del doppio, dello scambio di identità e della loro negazione, il mimetismo (da attribuire forse più ai coproduttori Jordan Peele (regista di Scappa – Get out) e Jason Blum della Blumhouse Production (La notte del giudizio – Election year, The visit);
  • lotta al razzismo;
  • personaggi femminili forti;
  • attenzione ai dialoghi, mai banali, ma casomai referenziali o autoreferenziali;
  • attenzione nella scelta della musica, sempre ricercata e significativa (Too late to turn back now, per fare un esempio su tutti)
  • citazioni culturali, cinematografiche, metacinematografiche e riguardanti l’attualità.

Le SCELTE STILISTICHE prevedono:

  • fotografia caratterizzata da colori saturi, senza eccedere stavolta;
  • contrasti marcati, stavolta meno “rumorosi” rispetto al solito.

Fino ad arrivare alle cosiddette “CIFRE STILISTICHE” che diventano delle firme personali dell’autore:

  • attori che parlano verso la mdp e relativo sfondamento della parete “proibita”;
  • la famosa “wake-up-call”, la telefonata che sveglia, immancabile;
  • il “double-dolly-shot”, anch’essa immancabile: si tratta di una sequenza in cui il personaggio è inquadrato con un piano ravvicinato, mentre è immobile sul carrello in movimento. Il risultato è uno straniamento dello spettatore che percepisce l’immobilità del soggetto rispetto al cambiamento dello sfondo intorno.

John David Washington [The Old Man & the Gun, Love Beats Rhymes, Malcolm X], ex giocatore di football americano ma, soprattutto, figlio di quel Denzel Washington [Barriere, The equalizer, I magnifici 7] che è stato protagonista di parecchi Spike Lee’s Joint [Malcolm X, Inside man, He got game], ha conquistato pubblico e critica, donando al suo personaggio la spavalderia tipica della sua gente e il posato raziocinio dell’eroe senza macchia e senza paura che occorreva per rendere più evidente il contrasto tra tematica e messa in scena e tra i toni della commedia e la realtà drammatica dei fatti.

«Improvvisa! Come nel jazz!».

Oltre ai già nominati Adam Driver [L’uomo che uccise Don Chisciotte, Star Wars: Il risveglio della forza, Star Wars: Gli ultimi jedi], Topher Grace [Interstellar, Truth – Il prezzo della verità, Spider-Man 3], Laura Harrier [Spider-Man: Homecoming, Fahrenheit 451 serie tv], Corey Hawkins [Straight outta Compton, Iron Man 3, Kong: Skull Island], del cast, fra new entry e vecchi amici, fanno parte anche Ryan Eggold [La scomparsa di Eleanor Rigby, Padri e figlie, 90210 serie tv], Jasper Pääkkönen [Vikings serie tv], Robert John Burke [Miracolo a Sant’Anna, Person of interest serie tv], Ken Garito [S.O.S. – Summer of Sam], Paul Walter Hauser [Tonya], Ashlie Atkinson [The wolf of Wall Street, Inside man].

A completare il cast due fratelli d’arte. Uno è Michael Buscemi [Animal factory, Insieme per forza] il fratello del più famoso Steve Buscemi. L’altro è una vecchia conoscenza del regista e presente in Fa’ la cosa giusta, Mo’ better blues, Jungle fever e Malcolm X. Si tratta di Nicholas Turturro, fratello di John Turturro, che ha quel ruolo che sin dalla tragedia greca viene definito deus ex machina, ovvero un personaggio, il più delle volte una divinità, che compare improvvisamente sulla scena per dare una risoluzione ad una trama ormai irrisolvibile secondo i classici principi di causa ed effetto; tale espressione è ora, di fatto, assunta per indicare un evento o un personaggio che risolve inaspettatamente la trama di una narrazione, al punto di apparire altamente improbabile o come il risultato di un evento fortuito.

Cameo fondamentale inoltre quello affidato ad Harry Belafonte su un montaggio alternato che crea un parallelo tra il suo intervento all’incontro con gli studenti afroamericani ed il “battesimo” dei nuovi adepti suprematisti del KKK. Un montaggio alternato che può scolpirsi nella memoria come quello de Il padrino, sempre con un battesimo di mezzo, stavolta il rito cristiano è per un neonato, abbinato all’ascesa al potere del nuovo boss.

Dopo la standing ovation di sei minuti, e il premio ovviamente, a Cannes 2018, BlacKkKlansman ha ricevuto un’ottima accoglienza anche negli Stati Uniti, complice anche la scelta di farlo uscire il 10 agosto, anniversario di Charlottesville.

«– Test della verità? Colpi di pistola? Volete coglionarmi? è un dannatissimo bordello! Aaah… teste di cazzo! Mi prendete per il culo? Tu mi stai intortando, tu mi stai intortando, il capo me lo sta mettendo in quel posto: è una grande inculata collettiva! Vi fa ridere? perché se Bridges lo viene a sapere, tutta questa cazzo di operazione verrà chiusa. Sì, fa ridere… E io verrò mandato davanti a una scuola del cazzo nel fottuto ghetto di Five points!
– Ma lo verrà a sapere, Sergente?
– Verrà a sapere che cosa? (buttando il fascicolo in un cassetto)».

BlacKkKlansman è una black comedy dove il riso diventa amarissimo con lo schiaffo della realtà dei fatti di Charlottesville. Per l’intero film si può ridere con le lacrime agli occhi ma sui titoli di testa, viceversa, non ci è permesso piangere con il sorriso: è un pianto di rabbia.

«Non volevo certo che la gente uscisse dal cinema ridendo».

Quello che per altri film di genere costituirebbe l’obiettivo finale, in BlacKkKlansman si trasforma in pochi secondi nel setting di un’altra storia ben più profonda (il riferimento è all’accettazione senza precedenti di un afroamericano nella polizia di Colorado Springs). Il tema del razzismo, tanto caro a Lee, si unisce a quello dell’emancipazione, creando una fitta rete di rimandi. Così il discorso non si limita all’accettazione di un nero nella polizia, ma diventa lotta contro quell’impero invisibile che, celato dietro una maschera da rispettabili membri di una società in giacca e cravatta che non ammette intrusioni esterne, estranee – nemiche, ostili come si tramanda nel termine latino hostes – al loro circolo chiuso, che reputano virtuoso così com’è. Nemmeno le donne vi sono ammesse. Le loro donne. La critica di Spike Lee alla società attuale passa attraverso quest’ambientazione anni ’70, prende come pretesto la storia di Ron Stallworth e poi la trascende, spingendosi a sovrapporre parallelismi forti: l’ebreo non praticante che si trova a dover difendere le proprie origini in un ambiente ostile; l’afroamericano che viene emarginato dai suoi stessi fratelli in quanto poliziotto; il poliziotto nero che deve sentirsi bullizzato nel suo ambiente di lavoro dai suoi stessi colleghi; la donna che non risulta mai abbastanza credibile come sesso forte o che non avere pari opportunità reali sulla scena politica – o terroristica, per giunta! – se non in ruoli secondari, da gregario.

«Sono abbastanza rispettoso per te, agente “ROSPO”?».

BlacKkKlansman è una black comedy dove l’aggettivo non indica il colore della pelle: dietro la farsa, dietro le risate, seppur spesso amare, si fa largo una riflessione profonda sul senso di appartenenza ad una comunità e ad una nazione che finalmente siano unite ed emancipate da ogni forma di intolleranza, sul confine che deve esistere tra rivendicazione dei diritti e terrorismo e su tanti elementi che sembrano insignificanti se non si guarda il quadro generale: la blaxploitation operata dal cinema negli anni ‘70/’80 [si citano Cleopatra Jones, Coffy, Superfly e Shaft, complici, come Tarzan e Via col vento, nella diffusione di dinamiche sociali sbagliate o distorte] o i luoghi comuni che stentano a scomparire sono additati da Lee alla stessa stregua dei discorsi assurdi dei suprematisti bianchi, perché contribuiscono a diffondere immagini che danneggiano il popolo afroamericano. La critica non si limita, quindi, a demonizzare il succitato Nascita di una nazione di Griffith, ma si allarga a puntare il dito sul potere che i media esercitano sulla massa, sulla politica, che è troppo spesso un ulteriore modo di vendere odio, sull’irrazionalità che c’è dietro certi discorsi, certe spiegazioni, sulla giustizia che non esiste senza la verità e su una verità soggettiva che non può generare una giustizia violenta e sommaria. Mai.

Curioso che Adam Driver sia contemporaneamente nelle sale cinematografiche italiane con L’uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam, che tocca alcune tematiche simili: la ricerca di una reale verità e il forte condizionamento – un rumore, un disturbo sarebbe meglio dire – dei mass media sull’opinione del pubblico e sui suoi desideri di felicità.

The founder, di John Lee Hancock

The Founder, di John Lee Hancock [Saving Mr. Banks, The Blind Side, The Rookie – Un sogno una vittoria], racconta la storia vera dell’imprenditore Ray Kroc e di come sia riuscito a far diventare McDonald’s la catena di fast food più famosa al mondo. Non solo, è lo scontro tra due imprenditori idealisti e uno senza scrupoli. Così, mentre il produttore Don Handfield [Touchback, Knightfall]romanza l’origine del film legandola all’ascolto della canzone “Boom, like that” scritta da Mark Knopfler, storica chitarra dei Dire Straits, proprio dopo aver letto l’autobiografia di Ray Kroc, un altro produttore, Aaron Ryder [Memento, The prestige, Donnie Darko, Arrival], spiega: «è un film sull’America e sul capitalismo. Parla della determinazione per il raggiungimento del successo, dell’integrità della ricerca e anche della sua perdita. Rappresenta il sogno americano: si può avere successo nonostante tutto grazie alla pura forza di volontà».

shakemoviesstandard01

Ray Kroc [Michael Keaton], semplice commesso viaggiatore di una ditta che vende multimixer per frullati, dall’Illinois si precipita ad incontrare i fratelli Dick e Mac McDonald [Nick Offerman e John Carroll Lynch], che stavano tirando su una catena di ristoranti specializzati nella somministrazione del classico menu da fast food: hamburger, patatine e bibita analcolica.

Quello che li contraddistingueva dalla massa durante il boom economico degli anni ’50, in California come nel mondo, era un sistema espresso per preparare e confezionare che avrebbe rivoluzionato il mercato. Kroc, visto il potenziale per un franchise, cerca con qualsiasi manovra di guadagnarsi una posizione nel loro business, sfidando la ritrosia e le regole ferree dei fratelli, inamovibili nel non voler snaturare la genuinità del loro prodotto e del loro brand.

shakemoviesstandard06

Ma allora come si è giunti all’attuale status quo? Chi l’ha spuntata lo si sa, senza neanche vedere il film, ma quello che la sceneggiatura avvincente, dinamica e senza sbavature o falsi moralismi riesce a realizzare è di tenere lo spettatore incollato alla poltrona ad aspettare lo svelamento delle macchinazioni.

E se in fondo al cuore l’umanità positiva dei McDonald lo emoziona e lo muove alla protesta, allo stesso tempo, lo spettatore è rapito dalla carismatica figura di Kroc/Keaton che dialoga direttamente in macchina colmando il vuoto che c’è oltre quella barriera invisibile che è la cosiddetta “quarta parete” con la sua determinazione. Interpellando direttamente il pubblico si erge a protagonista indiscusso e, come per incanto le sue azioni immorali diventano lecite e, anzi, desiderate in quanto fulcro della trama intera.

shakemoviesstandard02

La sceneggiatura di Robert Siegel [The Wrestler] è indiscutibilmente da Oscar, come lo è anche la ricostruzione storica operata dallo scenografo Michael Corenblith, dalla set decorator Susan Benjamin e dal costume designer Daniel Orlandi per la fotografia di John Schwartzman, ispirata ai dipinti di Edward Hopper e realizzata con macchine Arri Alexa XT equipaggiate con lenti anamorfiche Panavision ed uno spettacolare rapporto 2.39:1.

Oltre a Michael Keaton [Birdman, Il caso Spotlight], Nick Offerman [Knight of Cups] e John Carroll Lynch [The invitation, Zodiac], nel cast anche Linda Cardellini [Avengers: Age of Ultron], Patrick Wilson [Insidious, Oltre i confini del male: Insidious 2, L’evocazione – The Conjuring, The Conjuring – Il caso Enfield], B. J. Novak [Saving Mr. Banks, Reign over me, Bastardi senza gloria] e Laura Dern [Wild, Jurassic Park].

shakemoviesstandard08

Quel bravo ragazzo – Intervista esclusiva allo sceneggiatore Andrea Agnello

Il 17 novembre uscirà Quel bravo ragazzo, di Enrico Lando, e la Redazione di ShakeMovies ha colto l’occasione per un’intervista in esclusiva ad Andrea Agnello, uno degli sceneggiatori del film, uno dei fiori all’occhiello del cinema italiano, professionista della scrittura cinematografica, scaturito dalla fucina del Centro Sperimentale di Cinematografia (CSC) ed eccellente firma di molti successi cinematografici e televisivi di ultima generazione: tra i film ricordiamo Ma che ci faccio qui!, di Francesco Amato, premiato con David di Donatello e Globo d’Oro; Com’è bello far l’amore, regia di Fausto Brizzi, in testa al box office per due settimane; I più grandi di tutti, regia di Carlo Virzì; Italians, Genitori & figli – Agitare bene prima dell’uso, riconosciuto di interesse culturale dal Ministero dei Beni Culturali, Manuale d’amore 2 e Manuale d’amore 3, tutti di Giovanni Veronesi e tutti campioni d’incassi; tra le serie TV: I licealiPiper, Benvenuti a tavola – Nord vs Sud, Fuoriclasse.

L’intervista esclusiva diventa una stupenda occasione per parlare anche del cinema a tutto tondo e per immaginare un futuro per il cinema italiano, che porti al raggiungimento di uno stile inconfondibile, che sappia di nuovo lasciare un segno indelebile, non sporadico, nel panorama mondiale per far esprimere sempre di più le eccellenze e le professionalità come quella di Andrea Agnello. Una storia, la sua, che è quella di tanti scrittori, filmmaker, direttori della fotografia. Una storia che vive di abnegazione e fede in una passione, quella per il cinema, che vale sempre i “rischi” lavorativi e che sa dare soddisfazioni enormi, se alimentata costantemente.

ShakeMoviesStandard00

1 – Come nasce il soggetto di Quel bravo ragazzo? Qual è il nucleo da cui è partito tutto?

Il soggetto nasce da un’idea di Ciro Zecca, un giovane ex-allievo del corso di produzione al CSC, molto bravo nel fare i “pitch”, cioè nel raccontare uno spunto con poche parole ma molto efficaci. Gli do una mano a tirare giù una paginetta di numero. Scriviamo solo l’incidente scatenante, lo spunto da cui tutta la storia prende le mosse, dopodiché lui un giorno mi chiama e mi dice che l’ha mandata in lettura alla Lotus di Marco Belardi. In cuor mio, la prima cosa che penso è che non la leggeranno mai; e invece – caso unico più che raro – ci chiamano per farci un contratto!

2 – Da fonti certe (IMDB, wikipedia) risulta: soggetto scritto da 3 persone e sceneggiatura scritta da 5. Perché? Come vi siete divisi il lavoro? com’è stato il lavoro in team? Vi siete divisi i personaggi? Quali sono stati i vostri ruoli? Tu hai scritto soggetto e sceneggiatura, ma i dialoghi?

2) Allora, il soggetto lo firmiamo in tre perché sin da subito Belardi ci ha affiancato Gianluca Ansanelli, lo sceneggiatore di fiducia di Alessandro Siani. Lui e Herbert già stavano lavorando da un po’, credo su un’altra idea. Tiriamo giù in tre una scaletta abbastanza dettagliata del film, costruendolo bene sul personaggio di Herbert, anche se effettivamente già l’idea originaria sembrava davvero cucita a misura su di lui. A questo punto passiamo in sceneggiatura e si aggiungono i contributi di Herbert e Enrico: Herbert ha fatto diverse riunioni con noi, molte battute di dialogo sono sue e ci ha dato tanti spunti esilaranti per costruire scene; Enrico è invece entrato sul progetto un po’ dopo ma ha comunque suggerito diverse cose che si sono rivelate molto efficaci. A dire il vero non c’è stata una vera divisione del lavoro, abbiamo sempre lavorato insieme, a sei, poi otto e poi dieci mani, cosa non semplice ma per un film comico spesso vitale.

3 – Sei soddisfatto del processo realizzativo di Quel bravo ragazzo? Hai avuto modo di vedere almeno in parte il film o sarà una sorpresa anche per te?

Ma sai che non ho visto ancora nemmeno una scena? Anche questo è un caso finora unico, non mi era mai capitato con gli altri film che ho sceneggiato, e sinceramente sono anche contento così: vederlo in sala sarà una sorpresa.

4 – Quel bravo ragazzo è chiaramente una commedia divertente, ma di che tipo? Del genere one shot (stacchi, ridi ridi ridi e ti dimentichi della realtà e poi torni alla realtà e ti dimentichi del film) oppure è una commedia che vedi e rivedi e non ti stanchi mai di rivedere?

Diciamo che già se Quel bravo ragazzo appartenesse al primo genere di film sarei strafelice. E poi penso che in realtà se un film ti fa ridere a crepapelle non te lo dimentichi e magari ti viene anche voglia di rivederlo dopo poco tempo. A me spesso succede così.

5 – Il lavoro di scrittura nasce libero da vincoli e viene adattato quando Herbert Ballerina viene scelto per il ruolo di protagonista di Quel bravo ragazzo o il personaggio è costruito intorno a lui fin dal principio?

L’idea è nata sicuramente libera da vincoli, io e Ciro – al momento di mandare in giro la famosa paginetta – non avevamo in mente un attore preciso, ma già nel nostro primo incontro col produttore Belardi ci è stato detto che il film avrebbe avuto Herbert per protagonista, e da lì abbiamo iniziato a ragionare pensando a lui. Ma non è stato uno sforzo né una costrizione, anzi: Herbert è veramente perfetto per questo ruolo, ed ha un umorismo che non esito a definire geniale.

6 – Quando crei i tuoi personaggi li immagini interpretati da qualcuno in particolare, magari i tuoi attori preferiti?

Sì spesso sì, mi aiuta visualizzare un volto, focalizzo la scrittura su qualcosa di concreto. Anche se a dire il vero quasi sempre in fase di sceneggiatura si sa già con buona probabilità chi saranno gli attori del film.

7 – Film preferito in assoluto?

Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola: visto decine di volte, un film unico, irripetibile secondo me. Unisce tutto: alto e basso, autoriale e popolare, e con un Nino Manfredi veramente da applauso.

8 – Film preferito tra quelli scritti da te?

Sono affezionato a tutti allo stesso modo, difficile sceglierne uno. Forse Ma che ci faccio qui! di Francesco Amato, ma solo perché tutto è cominciato da lì.

9 – Regista preferito in assoluto?

Tra i viventi, David Lynch. Tra i defunti Mario Monicelli.

10 – Regista preferito, con il quale ti sei trovato meglio a lavorare?

Tutti, fortunatamente!

ShakeMoviesStandard01

11 – Leggi la Bibbia? La domanda, a trabocchetto, in realtà riguarda simpaticamente il processo creativo ed è “crei/create una bibbia dei personaggi che poi seguite nella stesura definitiva?”

Purtroppo no: è vero che sono ateo convinto, ma mi dicono che sia imprescindibile per uno sceneggiatore.

12 – La tua formazione professionale avviene al CSC. Avrai avuto modo di conoscere anche altri professionisti in erba in quell’occasione. Avremo mai in Italia un Tarantino o un Nolan? E qualora ciò avvenisse, abbiamo qualche produttore che ne riconoscerebbe il talento?

Io mi sono diplomato in sceneggiatura al CSC nel 2005, e nel mio triennio il corso di regia ha sfornato Edoardo De Angelis [Indivisibili], Matteo Oleotto [Zoran], Claudio Giovannesi [Fiore], Francesco Amato [Cosimo e Nicole], insomma direi una bella classe di regia. Io penso francamente che il cinema italiano sia pieno di professionisti di talento, il problema sta nel dar loro fiducia, ed è un problema per lo più produttivo. Solo così potranno emergere personalità davvero innovatrici, che ripeto non mancano.

13 – In Italia si producono principalmente commedie e drammi esistenziali (“lacrime strappastoria” per dirlo alla Maccio Capatonda), trascurando generi come horror, fantascienza, western. Sono generi in cui abbiamo in passato ricevuto premi, di cui abbiamo fatto la storia, film che abbiamo insegnato a fare, a  realizzare a prescindere dal budget (spesso si dice che non se ne realizzano per gli alti costi, ma esiste The invitation che è solo il primo esempio che mi viene in mente di low budget di successo). La domanda è: nessuno scrive soggetti validi in chiave horror, sci-fi, western… o si fermano allo spoglio della sceneggiatura (si dice così, no?) da parte del settore produzione che investe solo in un prodotto che può vendere meglio alla televisione?

È vero, si producono solo commedie e drammi d’autore. Ciò è dovuto secondo me in parte a un doppio retaggio, della commedia all’italiana e del neorealismo, e – per quanto riguarda la commedia – anche e soprattutto per un dato di fatto: sarà banale dirlo, ma il pubblico al cinema ci va per ridere. Ieri sera ho visto un esordio italiano in una sala piena, storia drammaticissima eppure il pubblico come poteva rideva.

È vero anche che il cinema italiano ha anche un glorioso passato di spaghetti western e horror, ma forse non una vera tradizione, a parte Sergio Leone e Dario Argento non abbiamo sfornato maestri in nessuno dei due generi.

Di recente però qualche segnale incoraggiante verso altre strade c’è stato: il caso eclatante di Lo chiamavano Jeeg Robot, film riuscitissimo, potrebbe aprire un nuovo filone, essere un po’ l’inizio di un cinema più spettacolare ed esportabile, se vogliamo…

ShakeMoviesStandard003

14 – Scriveresti o hai scritto soggetti di generi come horror, sci-fi…?

Horror sicuramente, e credo che mi divertirei anche tantissimo, è un genere che adoro.

15 – C’è un soggetto, realizzato da altri, che avresti voluto scrivere tu?

Tra quelli recenti, trovo che Perfetti sconosciuti sia un soggetto fantastico, e la sceneggiatura un perfetto congegno a orologeria.

16 – Tra i tuoi lavori c’è qualcosa che senti avrebbe meritato più di quanto abbia ottenuto, che avresti voluto far fruttare meglio?

Come incassi sono andati tutti molto bene, quindi son più che soddisfatto!

17 – Il target di riferimento per i tuoi lavori liberi è diverso da quelli su commissione? Si scrive molto, quasi totalmente, per le “massaie”, come diceva Mike Bongiorno, che seguono la TV come fosse un’amica chiacchierona che parla del più e del meno con pathos da soap opera o alla Barbara D’urso, mentre il pubblico giovane, che dovrebbe essere il futuro dell’economia, emigra su Netflix, dove hai un’ampia varietà di generi, tra cui quelli bistrattati dai produttori cinematografici standard (De Laurentiis, Ferrero…). Che futuro si prospetta? È auspicabile un cambio di rotta? Si testa una scrittura che si avvicini al target degli “emigrati” su Netflix e Sky?

Secondo me sì, anche perché Netflix e Sky finanziano sempre più il cinema italiano, quindi credo che in breve questo gap qualitativo tra tv generalista da un lato e nuove piattaforme dall’altro si assottiglierà sempre più.

18 – Che anticipazioni puoi/vuoi fornirci riguardo i tuoi progetti cinematografici/televisivi futuri?

Sto scrivendo l’opera prima di un giovane regista appena diplomato al CSC: è una commedia on the road, che tocca però corde più intimistiche e malinconiche rispetto ai film che ho scritto di recente. Sto poi lavorando a due serie tv ma siamo ancora alle primissime battute, è presto per parlarne.

19 – Quale sceneggiatura ti ha colpito in questo anno solare. Chi pensi che vedremo lottare per l’oscar nel tuo settore?

Tra i film italiani, le sceneggiature più solide sono quelle di Perfetti sconosciuti e Lo chiamavano Jeeg Robot, film che non avrebbero affatto sfigurato nella cinquina come miglior film straniero.

20 – C’è una domanda che avresti voluto ti facessi ma non ti ho fatto?

Qual è il film che più di tutti ti ha fatto schifo tra quelli degli ultimi cinque anni? Scherzo, per fortuna non me l’hai fatta!

Grazie, Andrea!