Steven Spielberg

Ready Player One, di Steven Spielberg

Ready Player One di Steven Spielberg è un concentrato di avventure e prove svolte su due piani narrativi differenti, il reale-filmico e il virtuale-filmico che dialoga in continuazione con la realtà spettatoriale con citazioni metamediali, che spaziano dal linguaggio verbale a quello cinematografico, dal musicale al letterario, dalle allusioni a videogiochi moderni fino al rispolvero di retro arcade da sala giochi anni ’80, il tutto mantenendo altissimo il ritmo adrenalico. Il cuore di ogni nerd, geek, cinefilo o gamer può battere all’impazzata, si sconsiglia l’assunzione di troppi zuccheri e sostanze eccitanti prima o durante la fruizione del film.
La visione di Ready Player One è caldamente raccomandata ad un pubblico che sappia ancora cosa vuol dire sognare, che abbia voglia di ritrovare il proprio passato proiettando se stesso in un futuro fantasticamente verosimile. Quindi che cosa state aspettando? Non leggete tutta la recensione! Andate a vederlo subito! Diventate anche voi gunter alla ricerca di tutti gli easter egg sparsi nelle inquadrature. Mettetevi alla prova, lasciatevi coinvolgere. Giocate e non ne rimarrete delusi. È questo lo spirito del film, nonché il messaggio che Ernest Cline trasmette con il suo bestseller da record. Se non ci sono chicche negli end credit immaginate quanto ogni fotogramma sia zeppo di materiale di omaggio alla cultura pop! Se non mi credete continuate a leggere, ma non farò spoiler, al massimo qualche esempio di questi riferimenti.

Iniziamo dalla storia, fondamento imprescindibile di qualsiasi produzione artistica:

Ready Player One è la storia di Wade, un ragazzo che, come tanti altri utenti, in un futuro distopico, “vive” una realtà virtuale attraverso il suo avatar. Il creatore del mondo immaginario a cui si connette, idolatrato da lui come da tutti, è deceduto e ha invitato tutti ad intraprendere una ricerca che ha come premio la sua eredità: chi supererà le tre prove otterrà tre chiavi, le tre chiavi permettono di conoscere altrettanti indizi per raggiungere l’obiettivo finale che consiste in un easter egg che, nella realtà live action, si traduce in quote azionarie della società sviluppatrice del software e rendono chi ne è in possesso il suo proprietario assoluto. Per raggiungere l’obiettivo non basta essere dei bravi giocatori, occorre conoscere anche il più piccolo dettaglio della biografia dell’autore, condividere il suo amore per la cultura popolare e avere a cuore, forse più di lui, i migliori sentimenti che governano il mondo reale.

Ci sono tutti gli ingredienti del racconto immortale: nella trama di Ready Player One si annodano in maniera perfetta e indissolubile gli elementi del viaggio dell’eroe di Vogler, lo studio dei miti di Campbell e molte delle funzioni della fiaba analizzate da Propp, shakerate con le esigenze della narrativa cinematografica contemporanea. L’eroe riluttante che risponde al richiamo dell’avventura da cavaliere solitario, ma sotto mentite spoglie, per intraprendere una quest in una dimensione altra in cui ognuno è un mutaforma grazie agli ultimi ritrovati della hi-tech. Dovrà superare prove che hanno il retrogusto del rito d’iniziazione e imparare lezioni di vita: imparare a distinguere gli amici dai nemici e capire se si cerca nei sogni ciò che non si può avere nella realtà o se è la realtà a generare la materia di cui sono fatti i sogni.

È il 2044, il mondo è stato colpito da una grave crisi energetica e, l’economia, di conseguenza, è giunta al collasso. Il divario tra indigenti e classi agiate è diventato sempre più evidente. Ma una via d’uscita, seppur illusoria e temporanea, c’è: si tratta di Oasis, una simulazione virtuale in cui le persone possono fuggire dalla vita quotidiana ed essere, durante l’arco di tempo della connessione, tutto quello che hanno sempre voluto essere: un supereroe, un mostro divoratore di uomini, un cavaliere senza macchia e senza paura, una modella supersexy, Freddy Krueger, Michael Jackson, Batman. Ognuno può scegliere di rivivere potenzialmente all’infinito ricordi e avventure del proprio passato o prendere parte a qualche avvenimento della storia del cinema, esplorare galassie lontane. L’unico limite a tutto questo è l’ immaginazione.

«La gente viene su OASIS per tutto quello che si può fare. Ma ci rimane per tutto quello che si può essere.»

Ma nel mondo reale c’è chi vorrebbe porre un limite anche economico all’utilizzo di Oasis e sfruttare questa tecnologia per il proprio tornaconto personale, per arricchirsi e ottenere sempre più potere. Si tratta di Nolan Sorrento [Ben Mendelsohn, Rogue One: A Star Wars Story, L’ora più buia], passato da stagista porta caffè, con ambizioni di potere e brama di denaro, a villain multitasking che riesce nell’impresa di tramare su due realtà diverse anche se profondamente interconnesse. Con la sua società di hardware appositamente sviluppati per giocare, la Innovative Online Industries (IOI), inventa nuovi prodotti e tecniche di guerrilla marketing per aumentare il fatturato e puntare a diventare il proprietario assoluto di Oasis. Ovviamente ridurre sul lastrico gli utenti non intacca minimamente la sua immoralità. Il modo che Nolan propone per gestire Oasis sarebbe l’esatto opposto dell’idea primordiale. Oasis è stato concepito come una fuga dalla realtà decadente e l’accesso è stato sempre rivolto a tutti indistintamente.

Il creatore di questo paradiso multisensoriale è James Donovan Halliday [Mark Rylance, Il GGG – Il grande gigante gentile, Dunkirk e Oscar® per migliore attore non protagonista 2016 per Il ponte delle spie], un genio tanto estroso nel piegare la tecnologia alle sue utopie quanto riservato, ai limiti dello schivo, nei rapporti interpersonali. Affiancato dal socio e migliore amico Ogden Morrow [Simon Pegg, A Fantastic Fear of Everything, L’alba dei morti dementi, Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno] si è sempre opposto a commercializzare in maniera selvaggia la sua creatura tecnologica. Quando Halliday, però, sente approssimarsi il giorno della sua morte, indice una gara In tutto questo, però, James Halliday ha deciso di lasciare degli easter egg, delle prove da superare per ereditare la sua immensa fortuna dopo la sua morte. A contenderselo ci sono, potenzialmente, tutte le persone di Oasis e la IOI. Segreti di certo non facili da scovare nell’immenso mondo virtuale. Tutti infatti brancolano nel buio, finché però, quasi per caso, il giovane Wade Owen Watts non trova un indizio…

«Prima la chiave! Poi l’easter egg!»

Curioso che a fornire linfa vitale, ventate di freschezza, a un cinema che rispolvera il glorioso passato con remake e reboot, sia un veterano a cui la nuova generazione avrebbe dovuto “fare le scarpe”, come si suol dire. Tre Oscar® vinti e 33 film diretti. Un novello Tolkien conierebbe per lui un nuovo epiteto, una delle sue formule mutuate dalla tradizione orale delle antiche leggende popolari. Il regista che da sempre sperimenta e continua a sperimentare in eterno, Steven Spielberg, Maestro di ogni genere. È passato quasi un secolo da quando i movie brats, “i ragazzacci del cinema”, hanno deciso di far fronte comune e spalleggiarsi per portare avanti la loro innovativa idea di cinema. Si tratta di Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Brian De Palma, George Lucas, Paul Schrader, Michael Cimino, John Milius, Robert Zemeckis e Stanley Kubrick. I visionari di allora, che hanno fatto e sono la storia del cinema mondiale, non hanno mai avuto degli eredi veri e propri e così eccone uno che è costretto agli straordinari. Non che ci dispiaccia. Spielberg, in un anno solare, presenta due film, il candidato all’Oscar 2018 The Post e Ready Player One, che non potrà non dire la sua alla cerimonia del prossimo anno. E quello che lascia sbalorditi è la sua continua voglia di rimettersi in gioco e sperimentare.

I movie brats, chi più chi meno, hanno omaggi disseminati per tutto il film. Eliminato, invece, ogni riferimento del romanzo allo stesso Spielberg: «nel libro c’erano molti riferimenti ai miei film come regista e produttore degli anni ’80, ma non volevo che il film mostrasse lo specchio di me stesso».

Ready Player One, pubblicato per la prima volta nell’agosto 2011, è, probabilmente, il romanzo di fantascienza più importante dal 2000 ad oggi, ed è forse destinato a diventare uno dei romanzi di fantascienza più rilevanti di sempre. Ernest Cline trasforma la fiaba moderna di Willy Wonka in una sci-fi quest adventure in cui tutti gli elementi classici della fantascienza si mescolano per trovare la forma accattivante di un romanzo brillante e innovativo. Storia, personaggi ed eventi si intrecciano in un modo unico, riuscendo contemporaneamente sia a riportare il lettore negli anni ’80, sia a dare nuova e meritata visibilità a serie e film ormai classici come Shining, Tron, Akira, Il gigante di ferro, Gundam, Wargames e i sempreverdi Star Wars, Mad Max, Ritorno al futuro e King Kong (solo per citarne un numero minimo).

L’ottimo materiale di partenza ha generato altissime aspettative intorno al film di Spielberg. Lui ha risposto surclassando se stesso. Ha guidato i maghi degli effetti della Industrial Light & Magic e della Digital Domain e la loro tecnologia all’avanguardia dimostrando che va utilizzata per coadiuvare un film e raccontare meglio una storia e non per prendere il centro della scena offuscandone personaggi e sceneggiatura. Tra motion capture, live action, animazione 2D e 3D, CGI, occhiali VR «sembrava davvero la realizzazione di quattro film in contemporanea», confessa il regista, ma deve essere stato fantastico per lui poter usufruire della tecnologia VR come strumento per pianificare le riprese, dirigere gli attori e i loro avatar, decidere i punti macchina in un ambiente virtuale indossando cuffia, occhiali e microfono. Un vero viaggio nel futuro, non più simulato. Possiamo solo immaginare quanto si sarà divertito a poter gestire rapidamente gli obiettivi o regolare le angolazioni con un sistema di mdp virtuali e una fotocamera palmare ergonomica appositamente costruita per monitorare tutto, inquadrare, ottenere inquadrature impossibili e panoramiche spettacolari che, su un tipico set, avrebbe richiesto un numero di riprese poco sostenibile.

«Volevo che questo film fosse proprio questo tipo di avventura… un film talmente veloce da far volare i capelli all’indietro mentre corri verso il futuro».

Spielberg ha lavorato a stretto contatto con ogni settore dalla fotografia, per la quale ha scelto Janusz Kaminski [Schindler’s list, Salvate il soldato Ryan] che ben conosce la sua sensibilità per l’illuminazione, il colore e il contrasto.

Per la musica, un po’ costretto per la non disponibilità dell’amico di sempre John Williams, il regista ha messo a contratto un certo Alan Silvestri e l’autore della colonna sonora di Ritorno al futuro e non delude di certo alla sua prima collaborazione con il maestro, innestando alla sua già emozionante partitura, intrisa di percussioni adrenaliniche, una coinvolgente playlist di successi degli anni ’80, pop, rock e dance. Si spazia dalla hit Jump di Van Halen ai Tears for fears, da Prince al tema di Godzilla composto da Akira Ifukube, dai Depeche Mode ai Twisted Sister per arrivare al progressive rock della Tom Sawyer dei Rush. Chicche per intenditori tra gli easter egg musicali.

Stupendo anche il lavoro di Kasia Walicka Maimone [Il ponte delle spie, A quiet place] per confezionare costumi che non siano dei copia-incolla degli 80s ma che siano reinventate in chiave postmoderna.

Un ultimo – breve – pensiero, prima di concludere, riguarda la scelta dei nomi, mai banali o casuali in questo genere di storie. Il protagonista interpretato da Tye Sheridan, che è stato Ciclope in X-Men: Apocalypse indossando goggles come quelli VR del film – sarà stato anche questa skill a far propendere per lui? – e protagonista di Scouts Guide to the Zombie Apocalypse, uno zombie teen movie goliardico divenuto e da poco tradotto in Manuale scout per l’apocalisse zombie si chiama Wade (Owen) Watts [ha un nome che suona in inglese come un invito all’azione “Cosa aspetti? Quando ti muovi?”, un’esortazione nascosta, il richiamo all’avventura dell’eroe riluttante e l’avatar che lo rappresenta in Oasis si chiama Parzival, una storpiatura del nome del cavaliere che trovò il Sacro Graal nel ciclo bretone. Art3mis, l’alter ego scelto da Samantha [Olivia Cooke, Quel fantastico peggior anno della mia vita, Ouija, la serie Bates Motel], è la dea della caccia, l’abbinamento perfetto con l’altro egg hunter (il termine gunter usato dal film è una crasi, appunto, di queste due parole). Per il migliore amico di Wade, che rappresenta la più grande disparità tra umano e avatar, il nome è Aech, un anagramma di “each” (“ogni”) quindi una sorta di uno, nessuno e centomila. Oasis ovviamente è l’oasi nel deserto, ma questo suo richiamo alla natura contrasta con la freddezza della IOI (la Innovative Online Industries di Nolan) che, secondo il codice binario, rappresenta il numero 6 da cui derivano i Sixers, gli scagnozzi del villain, riconoscibili solo dai loro numeri di matricola. E IOI non è forse il contrario della pronuncia di Ohio (OIO), lo Stato che fa da sfondo alle vicende del film? Una coincidenza? Impossibile!

Ready Player One coinvolge perché parla, neanche troppo fra le righe, del modo in cui viviamo le nostre vite, di come, con il passare del tempo, siamo sempre più disconnessi dalle interazioni personali nel mondo reale, di come affidiamo pigramente i nostri pensieri alle tastiere veloci, alle emoticons o alle gif animate, di come preferiamo messaggiare invece di massaggiare, di come ci mettiamo un secondo a condividere un contenuto multimediale e una vita ad aprirsi con il cuore a chi ci sta attorno. Un mondo come quello scritto da Cline e filmato da Spielberg non appare poi così tanto improbabile. Rimaniamo coinvolti da Ready Player One come spettatori, perché da utenti ne siamo affascinati e nello stesso momento terrorizzati, perché, in fondo, potrebbe rappresentare una previsione del nostro imminente futuro.

Ricordate: niente crazy credits o altre sorprese durante i titoli di coda. Avrebbero tradito lo spirito ludico degli easter egg e il messaggio stesso del film che è divertirsi!

Il GGG – Il grande gigante gentile, di Steven Spielberg

Cosa succede quando un gigante non è come tutti gli altri, ma è il Grande Gigante Gentile che si rifiuta di mangiare i bambini?

Il Grande Gigante Gentile (Mark Rylance) è un gigante molto diverso dagli altri abitanti del Paese dei Giganti, che come San-Guinario e Inghiotticicciaviva si nutrono di esseri umani, preferibilmente bambini: il GGG tiene un regime alimentare diverso e inusuale, dato che aborre l’alimentazione carnivora e cucina cetrionzoli in tutte le salse, meritando gli insulti e gli scherni di tutti i suoi vicini di caverna, che puntualmente lo scherniscono per la sua debolezza.  E così una notte il GGG rapisce Sophie (Ruby Barnhill), una bambina che vive in un orfanotrofio di Londra e che trascorre insonne la maggior parte delle notti, portandola nella sua caverna. Inizialmente spaventata dal misterioso gigante, Sophie ben presto si rende conto che il GGG è in realtà dolce, amichevole e può insegnarle cose meravigliose: come quando la porta nel Paese dei Sogni, dove il gigante cattura i sogni donandoli di notte ai bambini di tutto il mondo, o quando le spiega tutto sulla magia e il mistero dei sogni. L’affetto e la complicità tra i due cresce rapidamente, e quando gli altri giganti sono pronti a nuova strage, il GGG e Sophie decidono di avvisare nientemeno che la Regina d’Inghilterra dell’imminente minaccia, e tutti insieme concepiranno un piano per sbarazzarsi dei giganti una volta per tutte.

Il grande gigante gentile

Gentile non è solo l’aggettivo che qualifica il gigante amico di Sophie, diverso dai sanguinari e violenti dirimpettai di caverna che lui non esita, sprezzante, a definire “cannibali”. Gentile è l’approccio che Steven Spielberg ha scelto per il suo ultimo film, tornando finalmente (diremmo noi) all’altezza sguardo che gli permette di sfornare capolavori e non timidi tentativi di regie storiche e altisonanti (come nel fallimentare Lincoln) o banali e senza piglio scenico (come in War Horse). Steven Spielberg deve mettersi all’altezza dei bambini per risultare grande, c’è poco da fare. Scegliere il punto di vista dell’infanzia e dell’innocenza è la mossa giusta che il regista deve compiere per assicurarsi un risultato di successo, così come era stato con E.T. l’extra-terrestre, Hook – Capitan Uncino o, più recentemente, con Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno. Spielberg possiede quel dono particolare dell’immedesimazione nei bambini che, tuttavia, non si esaurisce in un racconto banale e senza approfondimento. Proprio perché l’infanzia è il momento della vita che inconsciamente rimane più impresso nella mente e nei ricordi di qualunque adulto, scegliendo quest’approccio il GGG riesce a parlare a chiunque vada in sala a goderne la visione (gli adulti DEVONO obbligatoriamente vedere il film in lingua originale; i dialoghi sono davvero ben fatti e solo con l’inflessione inglese originaria si riesce ad entrare profondamente non solo nella dimensione della storia ma, soprattutto, in quella letteraria di Roald Dahl da cui il film è tratto, n.d.r.).

Il grande gigante gentile

I bambini si perderanno in un mondo fantastico in cui anche i più deboli (una bambina orfana e un gigante mingherlino e vegetariano) ed emarginati possiedono la stessa possibilità di riscatto dei più forti, al punto di incontrare la donna più potente d’Inghilterra e riuscire a dialogare con lei. Il piano ideologico, poi, trova un perfetto equilibrio con la dimensione grafica e degli effetti speciali. La performance capture non rende artefatte le scene ma, anzi, le carica di una perfetta dimensione di sogno fantastico. I dialoghi tra il gigante e la bambina sono esilaranti e coinvolgenti, e il buffo vocabolario del GGG, che ha imparato a leggere e scrivere da adulto e che non ha mai smesso di voler apprendere, terrà i bambini incollati allo schermo, curiosi di scoprire quale strano neologismo tirerà fuori dal cilindro il gigante questa volta.

Gli adulti, dal canto loro, trascorreranno due ore in un viaggio nel tempo nella dimensione della proprio infanzia e della propria spensieratezza, apprezzando tutti gli aspetti caratteristici della pellicola, da quelli tecnici (in cui la combinazione di performance capture e simulcam rende l’insieme estremamente realistico) a quelli di sceneggiatura, in cui si registra addirittura un di più di caratterizzazione dei personaggi rispetto al precedente letterario: già pochi minuti dopo l’inizio si ha la sensazione di conoscere il GGG e Sophie da sempre. La fotografia, affidata Janusz Kaminski (collaudato direttore della fotografia di quasi tutti i film di Spielberg almeno da Schindler’s list), seppur digitale immerge perfettamente lo spettatore in un’atmosfera da sogno in cui l’amicizia torna a essere un sentimento vero e leale, così come è nell’infanzia e come dovrebbe tornare ad essere anche nell’età adulta.

Il ponte delle spie – di Steven Spielberg

Siamo a Brooklyn nel 1957 e Rudolf Abel (Mark Rylance) viene arrestato con un’accusa infamante: essere una spia sovietica attiva sul suolo U.S.A.Gli emendamenti della carta costituente americana impongono che chiunque, anche se considerato colpevole senza ogni ragionevole dubbio da giudice, avvocato o persona comune che sia, ottenga un regolare processo. Un processo breve, quasi una farsa, ma pur sempre un processo. James B. Donovan (Tom Hanks), esperto illustre di cause amministrative e mai coinvolto in processi penali, viene scelto come avvocato difensore.

In virtù degli stessi principi che l’hanno chiamato in causa, Donovan non prende sottogamba il processo e tiene una difesa irreprensibile fino a giungere all’appello alla Corte Suprema. Nessuno capisce i suoi gesti e la sua tenacia; la sua famiglia, i suoi colleghi e tutta la popolazione lo arrivano a disprezzare. Proprio la sua condotta, però, lo fa balzare all’attenzione dei vertici diplomatici di URSS, Repubblica Democratica Tedesca (RDT) e Stati Uniti: il pilota americano Francis Gary Powers (Austin Stowell) viene abbattuto sui cieli sovietici durante un’operazione di spionaggio e immediatamente catturato. Chi coinvolgere in qualità di negoziatore civile per finalizzare lo scambio tra le due spie se non l’uomo “giusto” James. B. Donovan?

Il ponte delle spie tiene incollati sulla poltrona del cinema per una serie di diversi motivi, tra cui non spicca l’originalità del messaggio ideologico alla base: come nelle migliori pellicole Hollywoodiane che si rispettano, si vedono contrapposte una causa buona (e se macchiata da crimini, questi saranno sempre compiuti a fin di bene) e una causa un po’ meno buona, di avversari russi incapaci di adeguarsi alle norme più elementari di civiltà ed etica.
Dimenticando la manichea opposizione, è la sceneggiatura la carta vincente in The Bridge of spies. Non è un caso se a tessere la trama della storia ci siano i fratelli più pazzi e geniali dell’universo cinematografico mondiale: ai fratelli Ethan e Joel Coen (A proposito di Davis, Il grande Lebowski) si deve un racconto dai fili ben giostrati, che incuriosisce minuto dopo minuto, lasciando col fiato sospeso sulla sorte dei protagonisti, in un mix ben bilanciato tra azione e dialoghi, al punto che 140 minuti passano senza sforzo.

II ponte delle spie - Tom Hanks e Mark Rylance

Altro elemento prezioso è la performance di Tom Hanks, everyman onnipresente in tutta la pellicola, già alla sua quarta interpretazione (Salvate il soldato Ryan, Prova a prendermi e The Teminal) diretto dal il regista de Il colore Viola. L’attore incarna perfettamente l’immagine di chi fa dell’etica il suo chiodo fisso (non riesce a mentire alla moglie nemmeno sull’acquisto di un vasetto di marmellata!) e un attore di diversa statura e spessore recitativo non avrebbe retto il tiro di una tematica così densa di racconto e che vira velocemente verso la leggenda. Da ricordare anche la performance di Mark Rylance, che con i suoi occhi buoni ed espressivi stempera il dualismo USA-URSS altrimenti troppo forte.

Dopo il denso Lincoln, Steve Spielberg torna dietro la mdp con il piglio solito che lo contraddistingue. Inquadrature, giochi di rimandi speculari (che in questo caso hanno a che fare con un muro saltato da giovani ragazzi), ritmi di racconto, colori della fotografia (curata dal fido Janusz Kaminski, premio oscar per Schindler’s list e Salvate il soldato Ryan) e soggettive non possono che essere spielberghiani. Dopo Munich e Schindler’s list, tuttavia, innovare e sorprendere in film storico risulta difficile anche a un maestro come lui e, forse, l’onore più grande da aspettarsi è quello di risultare riconoscibile.