teatro eliseo

Il costruttore Solness di Henrik Ibsen, regia di Alessandro Serra

Il costruttore Solness è l’architetto della sua vita e di di quella di tutti coloro che lo circondano. Li plasma secondo il suo volere, li porta in alto fino a fargli sfiorare il paradiso e poi la trascina giù, nell’inferno più nero. Ma nessuno può muoversi, cambiare la sua condizione senza una sua parola, senza che la sua matita disegni i contorni del suo destino, come la bacchetta del Prospero shakespeariano. Solness è il mago, il dio, il depositario unico del potere e da lì, dall’alto della torre d’avorio che si è costruito guarda coloro che lo circondano, che brulicano nel suo mondo piccoli come formiche.

Schiacciati dal suo potere così come dalle case che costruisce, alte come torri medievali e impenetrabili come fortezze, i personaggi della messinscena di Alessandro Serra sono letteralmente sovrastati da una scenografia in costante mutamento, che li avvolge, li stringe, li comprime in stanze asettiche, da cui la vita sembra essere stata risucchiata. E nel suo movimento, nel suo montarsi e smontarsi, stringersi e allargarsi, la scena fa da perfetto contrappunto allo scorrere della storia, non solo incorniciando le parole e i movimenti degli attori, ma agendo da protagonista, presente e viva sul palcoscenico.

Anche la moglie di Solness si aggira in questi spazi incolore come un’ombra, viva solo all’apparenza ma morta nell’anima, uccisa proprio dal deus ex machina che domina la sua storia. Perfetta antitesi della giovane Hilde, che esplode di vita e travolge Solness con il suo ardore e il suo entusiasmo e con la sua fantasia spinge l’anziano costruttore a raggiungere altezze che non aveva mai raggiunto, se non in gioventù, a costruire castelli in aria invece che case ben piantate a terra.

Giovani contro vecchi, vita contro morte, anche se talvolta è proprio lo slancio verso la vita a condurre verso la morte, per chi troppo osa salire in altro, oltre le nuvole, là dove nessuno era mai arrivato. Solness mira al paradiso, ma per raggiungerlo condanna architetti brillanti quanto e più di lui sono a rimanere nell’ombra, in un purgatorio senza uscita, ordinato e intriso di solitudine come una tela di Hopper in scala di grigi. Ed è così che precipita all’inferno.

Questa è la rappresentazione dell’inferno borghese di Ibsen, la casa-fortezza che imprigiona e uccide chi osa volare via e Alessandro Serra, supportato dalla solida interpretazione di Umberto Orsini, è il perfetto architetto di questa narrazione cupa, soffocante, punitiva oltre misura.
Ogni scena è costruita con un’occhio cinematografico in cui ogni fotogramma è perfettamente bilanciato nella sua composizione e nessun movimento è casuale, tutto è calibrato al millesimo, dai personaggi alla scena che li ospita come una scatola, come una casa per le bambole,
fino al testo scenico, che nella sua palpabile complessità, si incastra perfettamente in questo magico ingranaggio di corpi, scenografia e suoni taglienti, restituendo tutta l’oppressione e il male di vivere che affligge Solness e il mondo che lo contiene.

Liberi tutti, di Elda Alvigini e Natascia Di Vito

Quante cose si possono scrivere sulla separazione? Tutti almeno una volta nella vita l’hanno sperimentata, a cominciare dalla nascita, quando si lascia il tepore del ventre materno per affacciarsi alla vita. E quello è solo l’inizio di una serie infinita di separazioni, sempre traumatiche, sempre dolorose. Sembra quasi che l’uomo non sia in grado di lasciar andare, di mollare l’ancora per salpare verso una nuova vita, libera dal passato per far spazio al futuro. Così si finisce per restare giornate intere appesi ad un messaggio che non arriva mai,  e a piangere per mesi e mesi devastandoci e devastando chi ci sta intorno per un amore perduto, per poi tornare a sorridere di quello che ci ha fatto soffrire così tanto.

Valerio e Marius foto di scena di barbara ledda
Il copione è sempre lo stesso e vale per gli uomini come per le donne. L’unica cosa che cambia è la reazione al dolore, che varia dall’annegamento nel divano in un mare di pizza e serie tv, allo shopping compulsivo, dalle urla al pianto, dalla vendetta all’autocommiserazione. La sofferenza da separazione può essere declinata all’infinito e Liberi tutti, di Elda Alvigini e Natascia Di Vito prova a esplorare l’essere umano proprio nell’istante in cui è costretto a lasciare andare una parte di sé per iniziare una nuova vita. A cominciare dalla più banale delle separazioni, ovvero la fine di una storia d’amore, lo spettacolo si sposta su un piano più profondo, mettendo in scena la perdita di un amico, di un ideale politico in cui sperare, e della propria terra, che subisce chi scappa dalla guerra o dalla fame.

june e marius foto di scena di barbara ledda

In una scenografia essenziale, l’essere umano è al centro dell’attenzione con tutto il suo bagaglio emotivo, in un contesto universale disegnato apposta per accogliere chiunque e in ogni luogo. Brillante nei colori e nei testi, Liberi tutti vuole ridere delle ossessioni umane, ma allo stesso tempo far emergere la leggerezza dei piccoli malesseri quotidiani rispetto a situazioni storico-politiche molto più complesse in cui il dolore diventa motore di cambiamento, di libertà. L’unico modo per essere liberi davvero è trasformare lo strappo, la rottura e la perdita nella possibilità unica di trasformare il male in bene, e di costruire una nuova identità sulle macerie della vecchia, così come fanno quei piccoli grandi eroi che ogni giorno attraversano il mare per morire e rinascere in una nuova terra.

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Romeo e Giulietta, di Andrea Baracco

È difficile dire qualcosa di nuovo quando si parla di Shakespeare. Se poi oggetto del discorso è la tragedia dei giovani innamorati di Verona, evitare il già detto è quasi impossibile.
Tuttavia Andrea Baracco, regista del più recente adattamento teatrale del testo shaspeariano, restituito nella illustre traduzione di Salvatore Quasimodo, trova una chiave di lettura nuova, riesce a interpretare senza azzardare troppo. La sua versione teatrale di Romeo e Giulietta sceglie di percorrere la strada vecchia, accostandovi dei sentieri nuovi, che quella strada non la modificano ma la interpretano e la moltiplicano per tornare ad essa. Una strada maestra del genere non si abbandona, perché porta ieri come oggi esattamente dove si deve andare: all’epilogo che tutti conosciamo. Ma quel tragico finale è solo una scusa, un’invenzione escogitata per esplorare la proteiforme anima umana e le sue emozioni. La rappresentazione messa in scena al teatro Eliseo di Roma, è riuscita proprio in questo difficile compito: emozionare lo spettatore con un materiale narrativo ben noto e talmente universale da adattarsi a qualsiasi epoca.

La scena si apre mostrando i due blocchi ideologici che fanno da sfondo alla vicenda: la casa dei Montecchi e quella dei Capuleti. La visualizzazione metaforica è immediata e incontestabile: due edifici identici, perché identico era il tenore di vita delle due famiglie, rappresentanti della più laboriosa e testarda borghesia rinascimentale, doppio covo di rancori inspiegabili. Unico elemento di disuguaglianza: il famoso balcone che suggella l’incontro fatale.
Marta Crisolini Malatesta, responsabile delle scene, sceglie un allestimento ridotto all’osso in cui trionfano due edifici dalle mura trasparenti, espediente scenico che esprime perfettamente e immediatamente la fusione tra sfera privata e pubblica. Quando l’apparenza è tutto, la vita diventa una vetrina. Parecchio effetto fa ad esempio vedere i coniugi Montecchi muoversi taciti tra le stanze della propria residenza, mentre la tragedia si compie appena fuori dal recinto del loro cieco e sordo egoismo. Dopotutto nulla è più corale e pubblico del teatro. E Shakespeare lo sapeva bene, per cui elegge un’intera città al ruolo di assistente silenzioso e giudice implacabile cui nessuno può sottrarsi. Era, ed è la platea a emettere la sentenza definitiva.

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All’interno del contenitore trasparente che corrisponde alla sua stanza, appare per la prima volta Giulietta, dolce e eterea che il pubblico osserva ascendere silenziosa alle sue stanze e disegnare la sua fanciullezza su quella vetrina in cui la famiglia la protegge ma al tempo stesso la espone, come merce di scambio preziosa. Sempre presente accanto a lei la cinica e scaltra balia, portata in scena da una splendida e versatile Elisa Di Eusanio.

Al centro del palco il punto di fuga si agita e si sconvolge, si mescola nel movimento contorto e vorticoso dei personaggi. Ognuno di essi ha la sua storia e ognuno di essi È la storia. I versi immortali di Shakespeare risuonano sulla scena con il giusto pathos, reso credibile dall’incarnazione di ciascun personaggio. Su tutti emerge Mercuzio, interpretato da Alessandro Preziosi, gigante immenso, paroliere equilibrista, che sembra correre incosciente verso il suo destino, travolto dalle sue stesse parole. È questo personaggio che Shakespeare elegge a fulcro fondamentale della tragedia, è la sua presenza, anzi la sua assenza, a ribaltare i termini della vicenda e l’interpretazione di Preziosi ribadisce una potenza scenica e una brillantezza delle battute proprie di un vero leader. Lui è la voce di Shakespeare, e il monologo della regina Mab, il momento poeticamente più alto della tragedia, è affrontato con una tale labirintica emozione da travolgere non solo Romeo e Benvolio che con lui condividono il palco, ma la platea intera.

Romeo-e-Giulietta-foto-prove-Federico-Zaza-A.-Preziosi

I costumi, curati da Irene Monti, danno il giusto contributo all’allestimento: sono moderni ma evocano nei dettagli il gusto rinascimentale di un’eleganza rigida, preziosa, dalle linee semplici ma dal valore ostentato. Tra tutti emergono i coniugi Capuleti,  incarnati per questa versione da Roberta Zanardo e Daniele Paoloni, i cui costumi indicano non solo il ruolo sociale ma il portamento superbo e arrogante della famiglia.
Il primo magico incontro tra i due protagonisti della tragedia vede una magnifica Giulietta letteralmente ingabbiata in un costume splendido, in cui la leggerezza del tulle bianco si accompagna alla rigidità del corpetto; il volto pallido è nascosto da una rete metallica, eccellente metafora visiva della vita di finzioni e maschere che attanagliano la sua purezza. Entra nel campo visivo del giovane Romeo con l’immobilità di un idolo. Antonio Folletto, giovane Romeo, rende benissimo la vitalità del protagonista, sempre alla ricerca di un altrove inafferrabile, sempre di corsa dietro ai suoi sogni, in continuo movimento, affamato di amore e di grandezza.

Come tutti gli eroi e le eroine shakespeariane, Giulietta e Romeo sono sostenuti nei momenti supremi da una forza ultraterrena, ciò che c’è di immanente nella loro vicenda umana improvvisamente è come sospeso, invece che in Dio essi confidano nelle propria forza interiore ed ecco che, quando il meccanismo del destino si è già messo in moto per condurre i due giovani amanti verso il baratro, vediamo una diversa e immensa eroina: Lucia Lavia, interprete di Giulietta, emerge con una forza che lascia senza parole. Energica, forte, tutt’altro che indifesa e eterea fanciulla, grida il suo odio verso il mondo, maledice la sua famiglia e il suo destino con una tale potenza da far vibrare ogni muscolo. Furiosa mentre chiede a Frate Lorenzo una soluzione alle sue pene, ricorda Medea, donna forte, totalmente priva di paura, non stoica ma appassionata.

Su tutti i personaggi aleggia la figura del Principe, interpretato da Giacomo Vezzani, colui che regge le fila della vicenda da dietro le quinte. In questa versione il suo posto sul palco è alla consolle e come un moderno dj ha il compito di suggellare alcuni tra i momenti più significativi con brani musicali, che vanno da De Andrè a David Bowie. La sua presenza silenziosa e mediatrice rassicura i personaggi che trovano in lui un referente disponibile e silenzioso durante i monologhi più cinicamente retorici o dubbiosi.

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Dopo la morte di Mercuzio tutto corre più veloce, la storia si sgretola, come se prima della sua morte la forza del logos, per quanto delirante, rappresentasse un argine alla follia omicida, al monologo della spada.
È lui la vittima. La morte davvero tragica è la sua, non quella dei due amanti che scelgono da soli di correre verso il proprio fatale destino. Il regista infatti sceglie per loro un morte che sa di farsa, di gag comica dalla risata amara. I due amanti si scambiano un’ultima sigaretta, quasi pigri di fronte al fato in effetti più beffardo che tragico.
E di nuovo metaforicamente, le spade sullo sfondo che hanno contribuito al dramma della morte di Mercuzio prima e di Tebaldo poi, si trasformano in croci e decorano la finta morte di Giulietta, nella lugubre e allucinante messa in scena di Frate Lorenzo, interpretato da un convincente Gabriele Portoghese.
Il finale si consuma veloce come una battuta di spirito dal macabro gusto ironico, come una spada di Damocle che tagliente precipita sul palco, mentre il corpo di Mercuzio penzola straziante senza vita.

Una messa in scena moderna ma fedele che coglie tutto il clima stilistico del teatro elisabettiano di cui Shakespeare è inarrivabile portavoce. Rivive in questo adattamento di Romeo e Giulietta una narrazione vivace, una credibilità vibrante dei personaggi e una ricerca della perfezione morale tipicamente shakespeariana.
Senso della gerarchia sociale, fortezza di spirito e costanza, sete di magnificenza, esaltazione della lealtà e dell’amicizia, pubblica ignominia, brama di potere e danza di morte sono nient’altro che vuoti ingredienti di spettacolo se non si riesce a rendere reale la profonda solitudine che accomuna i personaggi della tragedia: dai più fragili adolescenti innamorati, a Mercuzio il più immenso e tragico dei buffoni shakespeariani; dalla balia attenta conoscitrice dell’egoismo del mondo, al caro Benvolio unico sopravvissuto della sua folle generazione.
La versione di Baracco è tutto questo. E non viene meno la drammatica ambiguità di una storia d’amore che ha sospeso per sempre ogni giudizio etico al servizio dell’immortalità.