Wes Anderson

Berlinale 68 – Isle of Dogs, di Wes Anderson

Riuscireste a immaginare un futuro in cui il miglior amico dell’uomo è il suo nemico più odiato? Wes Anderson ha proiettato questo oscuro disegno nella sua ultima pellicola Isle of dogs, in cui l’essere umano affonda gli artigli nella natura per distruggerla, a partire dall’ambiente, saturo di scarichi industriali e rifiuti tossici, fino ad arrivare agli animali domestici, che in questo panorama apocalittico diventano gli untori di un morbo sconosciuto e per questo destinati a una tragica fine lontano dagli occhi della città. Trasportati su un’isola di rifiuti come scarti della civilissima Megasaki per ordine del sindaco Kobayashi, tutti i cani della città si trovano senza padrone, senza cibo e senza casa, mentre coloro che fino a pochi istanti prima vivevano al loro fianco godendo del loro affetto incondizionato continuano la loro vita come se nulla fosse.


Questo è il 2037 per Wes Anderson, la sua umanità crudele giunta al punto più basso della sua evoluzione, che però intravede un barlume di speranza nelle nuove generazioni, incarnate nel coraggioso dodicenne Atari, che si invola verso l’isola dei cani per ritrovare il suo amato Spots e si mette a capo dei suoi amici a quattro zampe in una rivolta epocale contro la città che li ha esiliati e condannati a una morte orribile.

Sembra che l’oscurità abbia inghiottito i colori pastello di Wes Anderson, e che le sue architetture impeccabili siano state sommerse offuscate da fitta nebbia di pessimismo sul futuro dell’umanità. Un panorama completamente diverso dal suo primo film d’animazione in stop motion, Fantastic Mr. Fox, che vede sempre gli animali come protagonisti, ma può vantare una messa in scena molto più vivace. Isle of dogs invece declina il mondo nei toni del grigio, escludendo dalla vita il colore nella stessa quantità dei buoni sentimenti, e in questa operazione, così lontana dai suoi lavori precedenti, Wes Anderson si assume un grosso rischio, ma allo stesso tempo si carica addosso la responsabilità di raccontare una fiaba meno lieve di quelle a cui ha abituato il suo pubblico. Ma è proprio sprofondando nell’oscurità dell’essere umano e indagandone la crudeltà come mai prima d’ora, che Anderson trova una chiave narrativa efficace per mettere in guardia da un futuro che è già presente e proprio per questo fa tanta paura.