Alice attraverso lo specchio è un turbine di immaginazione che terrà lo spettatore incollato alla poltrona.
Negli ultimi anni Alice Kingsleigh (Mia Wasikowska) ha seguito le orme paterne solcando mari lontani al timone della Wonderland. Al suo rientro a Londra, la dura realtà della vita sulla terraferma la costringe a fare i conti con questioni economiche e sentimentali: incontra di nuovo Hamish (Leo Bill) che in sua assenza ha incastrato la madre Helen (Lindsay Duncan) in improbabili accordi economici che la giovane Capitana non può di certo accettare. Proprio durante uno dei tanti odiati eventi mondani, Alice trova un magico specchio attraverso il quale ritorna nel fantastico regno di Sottomondo. Il luogo non è più come ricordava: il Bianconiglio, Absolem il Brucaliffo, lo Stregatto, la Regina Bianca (Anne Hathaway), Wilknis e Pincopanco e Pancopinco (Matt Lucas) hanno bisogno del suo aiuto, in uno stato di emergenza prima quasi inimmaginabile: il Cappellaio Matto (Johnny Depp) non è più lo stesso. Ha perduto la sua moltezza e solo Alice può farlo rinvenire, salvandogli al contempo la vita. Riuscirà a lottare contro il Tempo (Sacha Baron Cohen), rubargli la cronosfera e sfuggire ancora una volta dalle grinfie della Regina Rossa (Helena Bonham Carter)?
A 151 anni dalla pubblicazione del primo libro del matematico Charles Lutwidge Dodgson, conosciuto come Lewis Carroll, Alice torna nel regno più pazzo e strampalato mai inventato. Così come il primo film, anche Alice attraverso lo specchio vede il suo antecedente nel testo letterario di Carrol, pubblicato nel 1871 con il titolo di Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò. Il racconto è pieno di allusioni a personaggi, poemetti, proverbi e avvenimenti propri dell’epoca in cui l’autore viveva, ma mentre il primo libro gioca sul tema delle carte da gioco, il secondo è incentrato sul tema degli scacchi, per i quali l’autore fornisce uno schema di gioco all’inizio del libro. Eppure, se nella pellicola non si trovano evidenti rimandi a questo nuovo mondo allusivo che fa da scheletro al testo letterario, Alice attraverso lo specchio rimane comunque un film in linea con la tendenza di tutte le pellicole targate Disney che prendono dai testi letterari solo lo spunto, salvo poi costruire storie indipendenti e dotate di un loro autonomo filo conduttore ben preciso. In Alice in the Wonderland la delusione era stata grande nel non vedere una storia all’altezza delle capacità dell’uomo che stava dietro la m.d.p. da presa (altro ci saremmo aspettati dall’imprevedibilmente geniale Tim Burton). In questo caso, invece, tutta la struttura si regge su un unico tema che si svolge coerente dall’inizio alla fine. Tra l’altro, provare a rispettare il testo letterario avrebbe rappresentato una sua paradossale violazione, visto che la veste linguistica e contenutistica dello stesso è talmente complicata e radicata nell’epoca storica durante la quale era stato scritto che qualunque tentativo di trasposizione sarebbe stato, come minimo, sacrilego.
Si diceva del filo conduttore di tutta la storia: il tempo diventa un’entità fisica palpabile e tangibile (come del resto già la PIXAR aveva fatto con i sentimenti) e grandi e piccini riescono così a visualizzare la figura a cui tanti dolori della vita vengono attribuiti. Tempus fugit, scriveva Virgilio. Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus, affermava Seneca nel De brevitate vitae, nel quale tanto ha discusso sull’incapacità dell’uomo di dare valore al tempo. In Alice attraverso lo specchio si trova la medesima profondità di approccio nei confronti del tempo sapientemente mischiata a viaggi mirabolanti, ad avventure fantastiche e a personaggi immaginari. Senza alcuna pretesa filosofica, il valore del tempo e della sua relatività nei confronti dell’esistenza umana assume un ruolo preponderante in tutto la trama, adattandosi al target di pubblico che ama le storie impossibili e dense di immaginazione ma che vuole, parimenti, uscire dalla sala carico di spunti di riflessione.
Alice attraverso lo specchio si dimostra così un film ben fatto, godibile se si cancella dalla memoria la pessima esperienza del suo primo capitolo. La componente tecnica soddisfa le aspettative (dalla scenografia ai costumi, dal trucco agli effetti speciali non eccelsi ma sufficientemente adeguati a reggere il peso della storia) con il cast di attori ben amalgamato ed espressivo, per quanto lo si possa essere in un vortice di immaginazione che lascia, a tratti, senza fiato. Sacha Baron Cohen ben mitiga questa caleidoscopica atmosfera di little madness con il suo tocco di dark humour e oscurità. Sulla sua figura si fonda tutta la trama: nessuno avrebbe retto meglio una tale responsabilità.