Berlinale 65 – Love and Mercy, di Bill Pohlad

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La musica è ovunque, nel vento che accarezza le spiagge dorate della California come nelle pareti insonorizzate di uno studio di registrazione, e rimbalza tra i muri, tra le persone, dal basso verso l’altro, dal mare al cielo, per trasformarsi in una miriade di vibrazioni scomposte che, tra le mani di chi è in grado di riconoscerle, come per magia diventano un’armonia. Saper leggere la musica della natura è un dono e una maledizione allo stesso tempo, perché questa è una musica che non si ferma mai, che suona senza sosta e si mescola con le voci fino a diventare un suono assordante se non la si intrappola in una canzone. Per Brian Wilson il mondo è una giungla di vibrazioni e la sua sopravvivenza è legata alla necessità di convogliarle in un’unica armonia, ma il suo genio creativo profondamente introverso si trova in forte contrasto con lo spirito dei Beach Boys, la boy band più famosa degli anni Sessanta, che inneggia al surf sotto il sole della California. Il gruppo è formato interamente da ragazzi giovanissimi, che si godono il successo saltando da una festa all’altra e infrangendo i cuori delle ragazze di tutto il mondo. Droghe e alcol sono all’ordine del giorno e nessuno di loro si tira indietro da questo paradiso in terra, compreso Brian, che partecipa al divertimento estremo insieme a loro, ma che ha la mente è sempre altrove. Il suo desiderio di creare la sua musica è talmente bruciante che decide di non seguire più gli altri membri del gruppo nel loro sfavillante tour Hawaiano, e di ritirarsi nello studio di registrazione per focalizzarsi su un nuovo progetto: Pet Sounds. La realizzazione di questo straordinario album lo assorbe completamente e lo porta a sperimentare gli strumenti più insoliti, come l’abbaiare dei cani o i campanelli delle biciclette, aiutandolo finalmente a trasporre su un disco i suoi pensieri e le armonie informi che per anni si sono affastellate nella sua testa. Ma anche questo non basta per spegnere le voci che sente bisbigliare giorno e notte, i suoni amplificati che lo angosciano e la paura di essere una nullità che lo assale ogni qual volta si spengono le luci della scena. Brian Wilson è un genio, ma è anche un ragazzo fragile, profondamente in lotta tra l’immagine pubblica del gruppo e la musica che vorrebbe creare nella solitudine della sua casa, con i piedi immersi nella sabbia su cui si poggia il suo pianoforte.

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Bill Pohlad non si addentra nei meandri della malattia mentale di Brian Wilson, mostrando gli attacchi di panico e l’estrema sensibilità ai rumori come l’inevitabile conseguenza di un talento naturale verso la musicalità della natura e di una grande sensibilità verso l’essere umano. Brian è solo in tutte le stagioni della sua vita, da bambino, da ragazzo e da adulto, steso sul suo letto con lo sguardo fisso sul soffitto e la mente affollata di pensieri, e l’unica cosa al mondo in grado di svegliarlo da quest’agonia silenziosa, più che l’amore, è la musica. A Pohland interessa questo e nient’altro, raccontare la genesi dell’album più appassionato dei Beach Boys attraverso gli stati d’animo del suo creatore, con i colpi di genio e le inevitabili cadute in cui la musica è sempre stata la protagonista assoluta. Maledizione e balsamo consolatore, morte e vita, le note di Pet Sounds risuonano sulla scena per tutto il tempo e scandiscono i tempi della storia come un’immensa dichiarazione d’amore ad un artista imperfetto, che in ogni brano racconta il suo male di vivere e svela il segreto della vita eterna.

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