Berlinale 66 – Genius, di Michael Grandage

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I registi, gli attori, gli scrittori sono gli eroi del palcoscenico, delle piogge di flash, delle caccie agli autografi, sono coloro a cui è destinato il campo minato del red carpet e devono superare le recensioni spinose dei critici. Ma chi sono quelli che lavorano dietro le quinte, l’esercito di scenografi, sceneggiatori ed editor, senza dei quali nessuna opera potrebbe esistere né tanto meno raggiungere il grande pubblico? Max Perkins è uno di loro, è l’editor di Ernest Hemingway, Francis Scott Fizgerald e Thomas Wolfe, e senza di lui Addio alle armi, Il Grande Gatsby, e Angelo, guarda il passato non sarebbero mai esistiti. Eppure il suo nome si è perso tra le pieghe della storia, negli angoli delle quarte di copertina dei più grandi capolavori del ‘900, nascondendo al mondo uno dei più grandi geni dell’editoria.

Il rapporto di Perkins con gli scrittori che pubblicava era viscerale, più vicino all’amicizia che al rapporto professionale, perché nelle loro opere tormentate ritrovava non solo la loro arte, ma la loro vita e i loro segreti più nascosti, e il suo compito era quello di dipanare i nodi stilistici ed esistenziali, trasformando un fiume frastagliato di pensieri in un’opera d’arte. È incredibile quanto il lavoro di un editor possa essere creativo e, anche se molto spesso rimane in ombra rispetto allo scrittore, il suo ruolo non è meno importante nella gestazione di un capolavoro della letteratura.

Questo film celebra il genio creativo di Perkins, votato a rimanere dietro le quinte rispetto all’eccentrico Thomas Wolfe, e la loro amicizia travagliata in un’America in bilico tra le due guerre in cui la Beat Generation scalpitava per abbattere le impalcature del passato. Perkins è l’editor dei geni, ma Genius di Michael Grandage si concentra sul suo talento, sulla passione per la scrittura che gli infuocava l’anima, ma che non osava emergere in superficie. Perkins è impeccabile nell’aspetto come nel temperamento e qui non potrebbe trovare interprete migliore che Colin Firth, che nel suo completo grigio è l’essenza stessa dell’eleganza e dell’austerità british, mentre Wolfe, interpretato da un tormentato Jude Law, si lascia trascinare dalla vita, dall’alcol e dall’angoscia esistenziale, aprendo la strada a Kerouac. Le loro personalità antitetiche si compensano nell’opera di Grandage, si fondono in unico genio,  ma la sensazione costante è che il loro incontro resti inesploso, sotto la superficie, in perfetta armonia con il temperamento di Perkins ma non abbastanza potente da essere ricordato dal mondo intero.

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