Tratto da una storia vera, quella di un gangster, James Bulger, e di un’alleanza tra malavita, politica e ordine pubblico. A leggere queste parole si può provare una sensazione di déjà vu, di aver già visto molti film simili. Si entra in sala con questo dubbio ma con la consapevolezza che Johnny Depp valga sempre almeno il prezzo del biglietto. Poi inizia il film e il piano ravvicinatissimo di uno dei sottoposti di Bulger fa entrare emotivamente lo spettatore nel vivo della narrazione. Prestissimo il personaggio che Depp ha scelto di portare sullo schermo inizia ad emergere dal buio, i suoi occhi osservano la situazione e fanno rabbrividire, trasudano una rabbia silente ma pronta ad esplodere in tutta la sua ferocia, una determinazione a perseguire gli obiettivi previsti, non importa quanto immorali, tipica dei gangster di spicco.
È il 1975 quando John Connolly [Joel Edgerton] e James Bulger [Johnny Depp], amici d’infanzia cresciuti insieme per le strade dell’indigente periferia di South Boston, si ritrovano dopo aver percorso carriere ben differenti: il primo è un agente dell’FBI, il secondo capo della Winter Hill Gang, potente clan della mafia irlandese. In un clima dove si respira quasi esclusivamente violenza, all’apice della guerra per il controllo del territorio, con la complicità del fratello senatore William “Billy” [Benedict Cumberbatch], Bulger stringe con l’FBI un’alleanza che ha il comune obiettivo di eliminare la mafia italiana ma con finalità troppo divergenti perché la situazione non sfugga di mano, come in un classico patto con il diavolo.
Black mass racconta per immagini una graduale ascesa al potere, alla quale corrisponde una progressiva discesa negli inferi, di un’anima nera come non si vedeva da tempo. Un personaggio complesso che, inizialmente, sembra provare affetto e rispetto nei confronti di familiari e amici, ma che presto cambia faccia: quell’iperemotività è solo uno dei sintomi di un evidente disturbo sociale e il segno innegabile dello studio dell’attore Johnny Depp sulla stratificazione di un carattere instabile. Il risultato è un concentrato di malvagità, uno psicopatico senza morale, un demone dallo sguardo agghiacciante.
Come fosse un film horror in cui il mostro viene svelato poco per volta, attraverso dei particolari, per poi fornirne la visione totale, il film di Scott Cooper [poco noto come attore ma apprezzato regista di Crazy Heart e di Out of the Furnace], dopo una prima parte del film a tratti anche ironica, è strutturato in modo tale da suggerire la presenza di un male oscuro, che prende sempre più forma e dimensione in Bulger, una massa nera, la “black mass” del titolo che, come un tumore, contamina quel poco di umanità che dimostrava agli affetti a lui più cari. È un nero profondo che assorbe la luce e i colori, da sempre rappresentazione grafica dei sentimenti, fino a lasciarne solo un barlume di ricordo nell’abbigliamento incoerentemente candido e nel colore bianco dei capelli che gli è valso il soprannome “Whitey” da parte degli inquirenti.
Un contrasto cromatico che ha il suo perfetto parallelismo nella fotografia del giapponese Masanobu “Masa” Takayanagi [The Grey, Warrior, Il lato positivo, True story], alla sua seconda collaborazione con Cooper: una fotografia desaturata, cupa ma ben definita, grazie anche all’impiego di lenti Panasonic Serie G che permettono un notevole contrasto, immagini ad alta risoluzione, un ben equilibrato controllo dell’aberrazione e soprattutto un’eccellente resistenza all’abbagliamento. La luce, così catturata, diventa elemento significante fondamentale per narrare quello che le parole non esprimono e per sostenere emotivamente la composizione di inquadrature sontuose, monumentali, memorabili che sfruttano magistralmente regola dei terzi e sezione aurea.
A conferma di una regia ben studiata, di un progetto sofisticato e ben realizzato, l’editing del film inanella tecnicismi esemplari come raccordi sull’oggetto (es. luci stroboscopiche e flash della scientifica) e impiego di montaggio parallelo (es. la sequenza di inquadrature con struttura simile a prospettiva centrale ma che mostrano personaggi e luoghi diversi: Jim Bulger nella navata di una chiesa; Connolly nella piazza rettangolare del condominio; Stevie su un attraversamento pedonale; Billy Bulger a casa della madre in attesa della telefonata del fratello) e montaggio alternato (es. il simile rientro a casa del poliziotto dalla moglie e del gangster dalla madre), tutti a vantaggio della narrazione e non per soddisfare un narcisismo fine a sé stesso.
Infine, concepiti con il materiale fotografico originale delle indagini, i titoli di coda, – che molti si perderanno, con la brutta abitudine che c’è di lasciare la sala repentinamente come se questa fosse in preda alle fiamme! – riportano il pubblico alla realtà dei ben noti fatti di cronaca e chiudono un film intelligente, un progetto ben strutturato che sa trarre il massimo dal materiale tecnico a disposizione (Arriflex 235 e Panavision Panaflex Millennium XL2).
E a chi si chiede se alla sua terza prova come gangster, dopo il John Dillinger di Nemico pubblico e il George Jung di Blow, Johnny Depp riuscirà finalmente a sollevare una statuetta che non gli si può continuare a negare ancora a lungo, si dovrebbe rispondere con questa curiosità: è la seconda volta che un personaggio magistralmente interpretato in passato da Jack Nicholson è audacemente riportato sullo schermo ottenendo risultati di gran lunga superiori! Il resto sarà storia, sempre e comunque.