Santiago del Cile, 1973. Il presidente socialista Salvador Allende viene guardato dalla popolazione cilena come la speranza democratica per una vita migliore. Daniel (Daniel Brühl), fotografo tedesco, è nel paese da un paio di mesi e collabora con i sostenitori del governo socialista di Allende partecipando ai loro comizi e alle loro riunioni. L’11 settembre il paese ripiomba nel caos: il golpe del dittatore militare Augusto Pinochet semina uno stato di terrore e Daniel viene arrestato mentre scatta fotografie alle violenze perpetuate dagli squadroni militari; con lui si trova la fidanzata Lena (Emma Watson), assistente di volo della Lufthansa in sosta a Santiago. I due vengono trasferiti con migliaia di altri prigionieri all’interno dell’Estadio Nacional de Chile: da qui Daniel viene portato via in ambulanza, mentre Lena viene rilasciata. Come ritrovare l’amato fidanzato? Cos’è la Colonia Dignidad dove pare che Daniel sia stato condotto? Chi è il predicatore laico Paul Schäfer (Michael Nyqvist) che guida questa comunità solo apparentemente benefica e religiosa? Come farà Lena a farsi ammettere in quella che si scopre essere una setta violenta e fanatica, braccio destro nella strategia di terrore del generale Pinochet, per portare in salvo Daniel?
Lo sfondo è quello di un luogo che oggi è un villaggio turistico, Villa Baviera, ma che per quarant’anni (dal 1961) è stato guidato da Paul Schäfer, ex medico delle SS, che ha fatto del luogo il covo di una setta e ha circondato l’insediamento con filo spinato, impedendo a chiunque di uscire senza il suo permesso. Secondo rapporti della Cia e del Centro Simon Wiesenthal, il villaggio fu, inoltre, rifugio di esiliati e simpatizzanti nazisti. Negli anni della dittatura militare cilena (1973-1990), all’interno della colonia furono tenute prigionieri e violentati diversi uomini, donne e bambini e il luogo servì poi come campo di allenamento per gli agenti della la temuta polizia politica di Pinochet, rappresentò un “laboratorio” di sperimentazione per nuovi armi (come gas asfissianti) e un luogo tortura per gli oppositori al regime. L’orrore si poté dire concluso solo quando Schäfer entrò in clandestinità nel 1997, nascondendosi in Argentina; dopo il suo arresto venne processato e condannato a 33 anni di reclusione per abusi su bambini e altri gravi delitti.
Nonostante l’enorme peso che Florian Gallenberger avrebbe potuto portare su di sé con la storia che ha scelto di raccontare, il regista non è riuscito a dare alla sua pellicola una definizione precisa, con l’effetto finale di svilire un contenuto che avrebbe meritato un maggiore nitore e un maggiore approfondimento agli occhi degli spettatori, invece che essere relegato a sfondo di una storia dall’indefinibile statuto, visto che Colonia è uno, nessuno e centomila generi in uno solo.
Colonia non è un thriller, perché la tensione che ci si aspetterebbe da un film del genere si avverte solo nelle battute finali, senza alcuna originalità e con ritmi ed ambientazioni che sembrano un omaggio (e speriamo che lo sia) della pellicola premio Oscar del 2013, Argo. Nessuna dinamica al cardiopalma, nessuna scena portata all’estremo delle suspense. Solo 110 minuti di attesa, scanditi dal conteggio dei giorni di prigionia che non accentuano la drammaticità ma sembrano scandire i minuti in attesa di uscire dalla sala.
Colonia non è una storia d’amore perché, se la pretesa originale era quella di raccontare un’operazione di salvataggio alla rovescia rispetto alla tradizione, dove la principessa va a salvare il principe, il sentimento tra Lena e Daniel non assume la forza che ci aspetterebbe da una coppia separata dalla violenza, in una terra straniera e per ragioni inimmaginabili da menti razionali, eppure vere nella loro brutalità. Ciò che rimane sono solo sguardi languidi e tenere carezze, quando invece ci si sarebbe aspettata una maggiore resa della sofferenza.
Colonia non è un film documentario perché la strada imboccata dal regista sembra essere quella dei film post-apocalittici tanto in voga in questi ultimi anni, dove la lotta alla sopravvivenza e la fuga dalla condizione di vita imposta sembrano essere il chiodo fisso degli esseri (quasi) umani coinvolti nel processo. Peccato che Colonia Dignidad e la ferocia di Paul Schäfer siano realmente esistiti e siano stati una piaga immane nella società cilena: di fronte a fatti reali messi in scena su uno schermo in tutta la loro reale brutalità, la reazione degli spettatori sarebbe dovuta essere di massima commozione, pietà, fastidio e smarrimento: Colonia non riesce a suscitare nessuno di questi sentimenti, probabilmente perché all’ingresso in sala non viene fornita la bussola per orientarsi nelle mille strade prese dalla pellicola.
A salvarsi solo il camaleontico Daniel Brühl, già apprezzato in Rush e in Bastardi senza gloria, non a caso molto richiesto da registi per le parti più disparate; l’attore riesce a calarsi nella parte senza sentimentalismi e con il massimo della veridicità: a non rendergli giustizia è la sceneggiatura poco solida. Emma Watson, dalla sua, continua ad impegnarsi in parti dalla discutibile riuscita (come ad esempio in Noah e Bling ring, salvando Noi siamo infinito in calcio d’angolo): la sensazione è che il regista tedesco, premio Oscar per il cortometraggio Quiero Ser, abbia fortemente voluto la Goodwill Ambassador all’UN Women nel suo film per favorire strategie di comunicazione e marketing di colore femminista; il suo è un viso che buco lo schermo ma che in Colonia non fa altrettanto con i cuori.