All’inizio erano schiavi. Otto animali compressi in una fattoria, nutriti e picchiati dal fattore a cadenze regolari, che ha su di loro potere assoluto di vita e di morte. Ogni giorno il fattore fa l’appello a suon di bastonate, tranne il venerdì, il giorno in cui passa il camion del macellaio. Il giorno dopo risponde sempre un nome in meno e loro non sanno neanche perché. In questa realtà priva di coscienza e autodeterminazione anche la morte fa parte della normalità, di un destino ineluttabile al quale non si può sfuggire, perché fa parte dell’essere animali, schiavi dell’uomo, unico dio e padrone.
All’improvviso però la coscienza dei maiali si risveglia e, grazie alle loro doti oratorie, iniziano a piantare in tutti gli animali il seme della rivoluzione. L’unione fa la forza! Per la libertà! E insieme riescono ad annientare il padrone e a diventare padroni di loro stessi. Finalmente liberi dall’oppressore. La fattoria è nelle loro mani, ma ben presto il profumo di libertà inizia a confondersi con il tanfo del sudore, della terra da coltivare per procacciarsi il cibo e della polvere del muro di cinta, che si trovano a innalzare per proteggersi dalle aggressioni esterne. Finalmente liberi di lavorare.
L’evoluzione da bestie ad animali antropomorfi arriva in fretta, e così il linguaggio e la mente si affinano, mentre la schiena è ancora piegata sull’aratro. C’è chi impara a leggere, chi a scrivere, chi si autoelegge leader, chi stabilisce delle regole e chi le infrange. E mano a mano che l’umanità prende il posto dell’animalità, che i grugniti si trasformano in parole, e le parole in sentenze di morte, ecco che l’evoluzione crolla sotto il peso della democrazia e la schiavitù torna sotto la maschera di una libertà idealizzata.
George Orwell nel suo saggio Perché scrivo (1946), scrisse che La fattoria degli animali era il primo libro in cui aveva tentato «di fondere scopo politico e scopo artistico in un tutt’uno». Paolo Alessandri nella sua riscrittura dell’opera orwelliana fa lo stesso, riducendo al minimo il testo, prosciugandolo delle parole per focalizzare l’attenzione sulla sua essenza, ovvero sul fallimento della libertà in senso utopistico, e della tragica evoluzione della democrazia in dittatura.
Fattoria (Liberi di essere schiavi), a distanza di quasi ottant’anni dalla pubblicazione del testo originale, continua ad essere un’opera attuale, viva nel suo universalismo di metafora animale di una condizione umana, in cui la costante ricerca della libertà si infrange con modelli di schiavitù sempre diversi e sempre meno visibili, ma non meno opprimenti. Le catene non si vedono, ma se ne ode il rumore ogni qualvolta padroni sconosciuti e impalpabili ci richiamano a seguire il giogo di informazioni preconfezionate e comportamenti stereotipati, ma imprescindibili per far parte della società libera e democratica che governa le nostre vite. Eppure, non possiamo fare a meno di quelle catene, proprio come gli animali della Fattoria, e continuiamo ad avvilupparci in sistemi di controllo sempre più stretti, illudendoci di essere sempre più liberi.