Festa del Cinema di Roma 2015 – These daughters of mine, di Kinga Debska

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Un buon racconto cinematografico dovrebbe essere realistico e contemporaneamente meraviglioso, cioè prendere qualcosa di ordinario e trasformarlo in qualcosa di narrativamente straordinario senza per questo perdere di vista la dose di realismo scelta. Ma una storia avvincente, per essere tale, non può far parte dell’ordinario, mai. Questo film tenta l’impossibile: raccontare l’ordinario in maniera ordinaria.

Dedicare ai propri genitori un’opera di spessore, un bel film, è meraviglioso, ma non è questo il caso: un racconto autobiografico lentissimo, straziante, di come la regista ha vissuto gli ultimi giorni di vita dei genitori malati terminali; montaggio e decoupage insignificanti, lontani anche dall’essere scolastici.
Un rivivere e far rivivere eventi di cui di solito non è bello parlare, non si vuol parlare, non si può parlare, di cui soprattutto non è giusto parlare in questi termini, senza un fine ben dichiarato, solo con l’intento di far leva su un dolore diffuso quale possa essere la dipartita dei propri genitori. Tutto questo, tra l’altro, senza averne il successo sperato: non domina nel pubblico la commozione bensì un senso di fastidio per una mancanza di delicatezza. Dicevamo che si può narrare l’ordinario e lo si può fare nel modo più realistico possibile ma non bisogna mai dimenticare il lato creativo che è insito nel cinema in quanto forma d’arte.

Quasi 90 minuti che scorrono quasi spinti a mano in salita, pesanti, densi di angosce e deliri, ma senza pathos, né ironia, giusto qualche sorriso strappato qua e là dalla figura paterna, una sorta di John Goodman polacco, simpatico, cardine della famiglia, ma purtroppo poco presente sullo schermo. E poi scene inutili al fine di portare avanti una storia avvincente. Ne deriva che, nonostante la buona volontà e le molte scene alla “prendiamola con filosofia”, tipiche di queste struggenti circostanze e che dovrebbero spingere verso l’immedesimazione, lo spettatore non rimane coinvolto, non si appassiona alle vicende, non si affeziona ai personaggi.
«Nessuno può salvarsi dalla morte quindi distogliamo la nostra attenzione dalla disperazione e concentriamoci sulla vita: si può vivere felici anche la malattia» sembra voler affermare il film, ma solo a parole: ogni azione dei personaggi e della macchina da presa sviluppa una forza centripeta che spinge verso il punto di vista di Marta, la sorella attrice, alter ego della regista e sceneggiatrice, madre assente ma figlia leggermente più responsabile della sorella Kasia.

Nessuno può salvarsi dalla morte se non per un miracolo e nessun film scritto in questa maniera può salvarsi dal fallimento degli obiettivi primari – riempire lo schermo e riempire la sala – nessun miracolo di computer grafica, se non grazie ad una augurabile riscrittura da parte di qualche grossa produzione hollywoodiana. Una storia autobiografica in fin dei conti poco suggestiva per poterla condividere con un vasto pubblico ed un’estetica discutibile che non si capisce come si possa pensare di presentarlo in concorso ad un festival che, secondo il direttore Monda, dovrebbe avere «solo film belli»?
Salvare qualcosa si può: la casa dei genitori, bellissima e, soprattutto, coerente con la professione del padre, architetto, e i titoli di coda, i filmini amatoriali delle sorelle da bambine ma girate dal padre della regista, apprezzatissimi forse perché finalmente sanciscono la fine dello strazio subito.

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