Fluid, di Ilaria Migliaccio

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Costruiamo la nostra identità a partire dagli altri. Siamo mosaici fatti degli sguardi altrui, composti di tasselli liquidi che mutano, si deformano, si assestano sotto la spinta degli occhi che incrociamo. E su ogni tessera c’è una scritta, un’etichetta, un marchio lasciato da chi ha incrociato la nostra vita. Belli, brutti, simpatici, antipatici, machi, checche, femme fatale, frigide, normali, anormali.

A queste etichette si ribella “Fluid”, lo spettacolo nato da un progetto di Franca Battaglia Teatro per la regia di Ilaria Migliaccio, che ha debuttato al Teatro Studio Uno. Nel cuore di Torpignattara sette frammenti di vita impazzita orbitano l’uno attorno all’altro, alla ricerca di un equilibrio che è difficile strappare dagli occhi che ci fissano, che ci spiano, che ci giudicano incessantemente.

Fluid è il palazzo in cui i sette protagonisti vivono, un regno avulso dal mondo esterno, una gabbia al contrario, che cerca di tenere fuori le zampate della vita, i graffi dei pregiudizi, gli artigli degli stereotipi. Sofferenza, stupore, rabbia, ironia sono i mattoni di un edificio che protegge sette vite già ferite, già etichettate: la donna resiliente, il gay, il travestito, l’omosessuale bipolare, la cyborg, l’uomo etero deviante, il transessuale. Un palazzo che raccoglie e accoglie, che profuma di Özpetek e di storie già viste, già sentite, eppure che abbiamo bisogno di riascoltare, di rivivere, perché la targhetta con il giudizio altrui penzola attaccata al loro polso come al nostro e sentiamo il dovere di fregarcene, di non leggerla almeno per un’ora.

A minacciare Fluid, la sua vita esplosiva e liquida, è un meteorite staccatosi da Marte, così vicino da non lasciare scampo. E mentre Roma fugge in cerca di salvezza, i sette protagonisti (Monica Bandella, Giulio Bruno, Monica L’Erario, Luigi Milone, Martha Mirabelli, Laura Radduso, Valentina Santucci) si barricano nel palazzo e si preparano alla lotta, perché sono consapevoli che l’ammasso di roccia che gli sta precipitando addosso è un coagulo di stereotipi, una pallottola di odio sputata dalla bocca di un’umanità che si agita, si dimena, si indigna ogni volta che una sua creatura esce dalla norma, trova la propria strada lontano dai sentieri già tracciati, dai binari già percorsi. Non si può sfuggire al pregiudizio, non si può correre più veloce di lui, si può solo affrontare.

La piece corre veloce come il meteorite in rotta di collisione, il testo sa rimanere leggero senza banalità, cercando di scandagliare un micromondo accantonato e per portare a galla riflessioni sepolte sotto una melma che vuole appiattire tutto, standardizzare nel colore e nella forma. Il carro del collettivo F.B.T. si muove meglio nelle scene corali, più armoniche e fluide, che sanno dare ai personaggi tratti più definiti, sfaccettature più levigate, che sorreggono chi è in difficoltà. Del resto, anche fuori dal palco creiamo noi stessi attraverso l’incontro-scontro con gli altri. Siamo esseri fluidi per natura, liquidi che si adattano per sopravvivere, che scivolano oltre le sbarre di una gabbia, che perdono un pezzo nell’urto con gli altri ma sanno ricomporsi. L’importante è non rimanere congelati nella forma che altri hanno scelto per noi.

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