La prima sequenza del quarto film degli Hunger Games, Il canto della rivolta parte 2, si apre sul collo tumefatto della Ghiandaia imitatrice dopo il tentativo di strangolamento da parte Peeta, reso folle dalle torture di Capitol City. Le corde vocali sono gonfie, la voce quasi assente, ma la mente di Katniss inizia a reagire, lo stimolo a riappropriarsi della propria vita, del proprio corpo le percorre i nervi, le striscia sottopelle, la infiamma ad ogni fotogramma. La guerra, dunque, non è più solo quella contro il presidente Snow, ma contro tutti gli abusi che le sono stati rivolti negli anni, non ultimi quelli di Alma Coin, presidente del distretto 13.
Da innamorata sfortunata a eroina dei 74esimi Hunger Games, da ribelle a leader, Katniss ha prestato il suo volto, il suo corpo e la sua voce per le cause che le venivano sottoposte, senza mai crederci veramente, fino a non appartenere più a se stessa ma alla folla acclamante della capitale o quella in rivolta dei distretti. L’insofferenza verso questo abuso la conduce a prendere in mano, lentamente ma con sempre più vigore, le redini della propria esistenza e a sfidare l’ordine prestabilito, le regole del gioco. Partita alla volta della capitale con un gruppo di ribelli guidati da Boggs e scortata da Gale e da Finnik, Katniss si accorge che anche per il distretto 13 vale più da morta che da viva, più da martire che da ribelle. E così raggiungere il palazzo di Snow rappresenta una doppia impresa, una doppia sfida. Non si tratta solo di sfuggire ai “baccelli”, devastanti trappole disseminate in tutta la città, ma anche ai tentativi di Peeta, inviato dalla presidente Coin, di ucciderla.
Il finale non è fatto di esplosioni, che di certo non mancano nel film, ma di giochi sottili e psicologici, di evoluzioni personali e drammi umani che ci schiantano contro la realtà, non così distante come si potrebbe ritenere. Del resto le parole di Snow: “Ciò che i ribelli odiano è il nostro stile di vita, ed è proprio quello che intendono colpire” ci suona più che mai familiare, quasi premonitore in giorni come questi.
Se il processo di decostruzione del sé ha raggiunto l’apice nel terzo capitolo della saga, in questo quarto film la Ghiandaia imitatrice può finalmente mettere in atto la propria rinascita, l’edificazione del suo volere partendo dai frammenti di vita, di esperienze, di affetti che ha scelto autonomamente, non più imposti da un potere esterno e sovrano.
Hunger Games è una pellicola, ma prima di tutto una saga letteraria, di formazione non solo per ragazzi, ma per tutti coloro che affrontano per la prima volta se stessi, varcando i confini sicuri di una vita familiare e nota, scontata. L’eroina creata da Susan Collins non è una femme fatale, non è brillante o perfetta, piuttosto è testarda, brusca, in perenne lotta interiore, poco incline all’espansività e all’affetto. Non per questo, però, è incapace di affrontare pericoli mortali e sacrificare se stessa per salvare chi ama. Anzi, è forse la cosa che le riesce meglio. E per questo Katniss Everdeen piace. Piace alla folla di Capitol City, piace ai distretti di Panem, piace a Gale e Peeta ma, soprattutto, piace ai lettori e agli spettatori che ne seguono le gesta, che si appassionano pagina dopo pagina, scena dopo scena alla sua vita travagliata.
La saga della Collins, per concludere, ha un altro merito e va guardata con occhi attenti. È una critica ad una società dell’immagine che spettacolarizza tutto, non ultimo la morte e la sofferenza, è un monito a un mondo che sposta il limite sempre più in là, relegando l’etica a chi non può permettersi altro. Attenzione dunque a giudicare la società distopica degli Hunger Games irrealizzabile, la miopia dei propri errori porta sempre a prendere il bivio sbagliato e la Storia ha infinite biforcazioni.