Il cattivo poeta, di Gianluca Jodice

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“Io ho quel che ho donato.”

È l’epigrafe che accoglie i visitatori al Vittoriale, la lussuosa dimora che D’Annunzio, dopo la sua morte, ha offerto agli italiani in un ultimo sensazionale gesto di quell’esibizionismo che ha contraddistinto la sua carriera e la sua intera vita.

E proprio la casa-museo sulle rive del Lago di Garda, già palcoscenico della vita di una delle celebrità più acclamate del XX secolo, per la prima volta diventa set cinematografico e ospita le riprese de Il cattivo poeta, film di Gianluca Jodice in cui un ispiratissimo Sergio Castellitto veste i panni di Gabriele D’Annunzio.

La pellicola affronta un arco narrativo che va dal 1936 al 1938 e si sofferma quindi sugli ultimi anni di vita del Vate.

Il valore letterario e storico della biografia dannunziana è delineato però solo nella misura in cui serve a illuminare un legame teso, a tratti apertamente conflittuale, con l’identità assunta dal fascismo sul finire degli anni 30, quando il Partito era ormai prossimo all’alleanza con la Germania nazista. Assistiamo quindi a una presa di distanza quanto mai tardiva e priva di efficacia da parte di una delle voci più autorevoli dell’epoca.

Quanto detto finora non chiarisce un aspetto importante del film: D’Annunzio non è il protagonista. O almeno non è il solo. Al centro dell’azione troviamo infatti Gianni Comini, un giovane federale fresco di promozione, a cui viene assegnato da Achille Starace in persona il compito di sorvegliare e relazionare al partito eventuali attività antifasciste del Vate.

La missione denota il peso culturale e politico di una figura talmente popolare in Italia da essere temuta dallo stesso Mussolini, D’Annunzio era infatti ritenuto un personaggio scomodo, il cui prestigio faceva comodo purché ne venisse arginata la capacità di azione sempre pericolosamente fuori controllo.

Tra soggezione e curiosità Comini, figura storica realmente esistita e interpretata da Francesco Patanè, impara a relazionarsi con un D’Annunzio molto diverso dall’immagine condivisa dall’opinione pubblica: non il vigoroso eroe di guerra, non il protagonista dell’impresa di Fiume, non l’intellettuale nel pieno della sua ispirazione ma l’uomo; un uomo fragile, stanco e disilluso.

Ormai vecchio e recluso nella sua maestosa dimora, il poeta appare quasi come una delle suppellettili che arredano le stanze e adornano le pareti del Vittoriano. Preda delle sue perversioni, romanticamente annebbiato dalla droga e dai ricordi, chiuso in una claustrofobia volontaria, D’Annunzio è schiacciato dal peso stesso del suo personaggio.

Eppure, nonostante si trovi davanti un uomo perseguitato dai fantasmi – reali e immaginari – di una vita intera, Comini non può fare a meno di percepirne la levatura morale e di restarne suo malgrado affascinato.

La convivenza forzata con D’Annunzio, con le sue stravaganze e con le esplicite invettive contro un Mussolini sempre più succube di Hitler, finisce per insinuare il dubbio nella mente del giovane camerata. La sua presa di coscienza è timorosa, quasi impercettibile ma implacabile e definitiva.

L’integrità del suo operare gli appare sempre più grottesca, quasi irreale. Il suo ruolo di funzionario del Partito lo relega in una posizione da macchietta umoristica mentre la lente del sospetto distorce ogni cosa, compresa l’intimità del focolare domestico.

Anche l’amore, fragile perché autentico, va protetto da una violenza cieca e micidiale di cui Comini diventa strumento inconsapevole. Quando comprende di non essere altro che l’ingranaggio di un sistema feroce che non ammette esitazioni, è troppo tardi.

Sarà proprio D’Annunzio, in uno slancio quasi paterno, a svelare al giovane che la bellezza non va sprecata e che la resistenza alla brutalità è l’unica via percorribile.

Il vecchio e il giovane, la morale e l’ideale, la poesia e l’efficienza, l’azione e la parola: sono tanti i temi sotterranei che si incontrano in questa pellicola.

E su tutto domina un’altra protagonista indiscussa: l’architettura.

Da una parte l’architettura di stampo fascista, solida, granitica: sono gli ambienti della burocrazia, del rigore, un susseguirsi di stanze fredde, grigie al cui interno gli uomini appaiono piccoli, pedine insignificanti circondate da un vuoto spaventoso.

Fa da contrasto un’architettura ridondante, piena di dettagli, incastonata nella natura lussureggiante del lago di Garda: è il Vittoriano, un labirinto di stanze traboccanti, piene di arte e oggetti raffinati ma al tempo stesso cupe, scricchiolanti proprio come il vecchio proprietario che le attraversa con passo incerto.

Infine la dimensione urbana, sintetizzata nella città di Brescia che fa da sfondo all’avventura di Comini: un reticolo di stradine, porte e finestre in cui la propaganda politica appare con un’ossessività inquietante, tra locandine e graffiti, i simboli del fascio littorio invadono le strade e quasi violentano la dimensione intima delle case, fatta di una quotidianità dimessa e timorosa.

Se il Duce, sotto forma di busti marmorei, effigi e toni trionfalistici, risulta essere una presenza quasi ingombrante, la figura di D’annunzio emerge attraverso gli sguardi di coloro che lo circondano: le fedeli donne di casa Luisa e Amèlie, interpretate rispettivamente da Elena Bucci e Clotilde Courau, il controverso architetto Giancarlo Maroni, di cui veste i panni Tommaso Ragno, e infine il popolo italiano che invade continuamente lo spazio dell’esilio per osannare la celebrità del personaggio.

Culmine narrativo del film è l’atteso incontro presso la Stazione di Verona Porta Nuova tra il poeta e Mussolini. Il disperato tentativo di compromettere l’alleanza con Hitler si infrange difronte al boato con cui la folla accoglie il Duce di ritorno dalla Germania. È il tracollo definitivo di un uomo che diventa emblema di un’epoca gloriosa giunta al capolinea.

Quello di Gianluca Jodice è un esordio alla regia di un lungometraggio, si cui ha curato anche soggetto e sceneggiatura, per nulla facile ma inaspettatamente riuscito (per il tema trattato, non per le sue capacità già ampiamente dimostrate con una serie di validissimi cortometraggi). Non ci troviamo di fronte a un biopic tradizionale, il film è piuttosto una poetica ricostruzione di una congiuntura storica cruciale per il nostro Paese, osservata attraverso l’esperienza straordinaria di una voce unica nel panorama letterario italiano.

“Perché D’Annunzio? – ha spiegato il regista – Mi ricordavo questo poeta recluso in questo castello di Dracula, negli ultimi 15 anni, tra perversioni, ossessioni, donne, cocaina, aveva anche perso la sua vena, era una specie di Nosferatu, che poi ha subito la damnatio memoriae nel Novecento, un personaggio storico complesso, che ha vissuto mille vite, e non è mai stato raccontato dal cinema.”

La pellicola dunque non cede mai a una ricostruzione documentaristica fine a sé stessa ma si propone piuttosto di gettare uno sguardo sul complesso rapporto tra uno dei più discussi e celebrati intellettuali del secolo scorso e un’Italia fascista all’indomani del secondo conflitto mondiale.

Lo stesso titolo, ripreso da una definizione che il Vate ha dato di sé stesso, non è che un omaggio a una figura letteraria che già in vita ha iniziato a costruire e alimentare la sua personale mitologia.

Sergio Castellitto incarna alla perfezione questo Vate oscuro, cupo ma al tempo stesso al centro della scena nell’ultimo atto della sua teatrale esistenza. L’attore romano ha così commentato il suo personaggio: “il poeta è stato adorato ed amato in vita, il suo mito è simile ad una rockstar di oggi, ma non c’è stato uomo più maledetto in morte, basti leggere cosa dicevano gli intellettuali del dopoguerra. Elsa Morante diceva che era un imbecille, Pasolini lo detestava. Invece il dono che ti fa il cinema, anche se lo avevo già capito prima che fosse un genio, è che se c’è un poeta assimilabile a D’annunzio è proprio Pasolini; entrambi sono stati poeti-soldati, i primi ad uscire dalla trincea, a prendere il colpo in fronte”.

Distribuito dalla 01Distribution e co-prodotto da Rai Cinema, il film è stato presentato in anteprima a settembre 2020 alla Festa della Rivoluzione di Pescara, città natale di Gabriele D’Annunzio.

L’uscita al cinema, prevista per novembre 2020, è stata posticipata a causa dell’emergenza sanitaria allo scorso 20 maggio 2021.

La critica è da sempre fortemente incerta sul posto da assegnare a all’esperienza dannunziana tanto nei libri di Storia quanto in quelli di Letteratura, proprio in virtù del suo coinvolgimento diretto con il fascismo.

Il merito di un film come Il cattiva poeta è proprio quello di restituirci un ritratto che trascende il giudizio morale e ci mostra la decadente figura di un intellettuale tradito dagli stessi ideali che ha contribuito a costruire.

Prima del suo stesso mito D’Annunzio è un uomo, calato nel suo tempo, dedito al vizio e all’abuso di sostanze stupefacenti e che, forse proprio in virtù della sua umanità, appare l’unico osservatore lucido mentre l’Italia, stordita da fanfare e lustrini, precipita verso il baratro.

Un’altra illustrissima voce della nostra tradizione letteraria chiese alla Storia “Fu vera gloria?”.

Il ruolo di posteri, chiamati a decretare l’ardua sentenza, spetta a noi.

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