“Ciò che offriamo qui è un semplice processo di purificazione lontano dal logorio del mondo moderno”
Manca l’aria, l’acqua riempie i polmoni e spezza il respiro, fino a che il cuore non si ferma. È questa La cura del benessere immaginata da Gore Verbinski, che risponde allo stress della quotidianità con la fuga su una montagna incantata stretta tra le Alpi, che promette trattamenti miracolosi e il segreto della felicità. Non è un caso che nessuno faccia mai ritorno dalla clinica del benessere più popolare tra i colossi di Wall Street. Pembroke (Harry Groener) è uno di loro, l’amministratore delegato di una grande azienda che, stanco di dibattersi tra riunioni e grattacapi, ha deciso di rifugiarsi in un luogo idilliaco, che cura il corpo e la mente. Sta a Lockhart (Dane DeHaan), un ambizioso giovane broker, partire alla volta della clinica per riportare Pembroke alla realtà.
Sin dalla prima occhiata la clinica sembra un luogo sospeso in una dimensione in cui il tempo si è fermato, talmente lontana dal mondo reale da sconfinare nel sogno. Quando il ragazzo giunge all’istituto scopre con sua grande sorpresa che i pazienti in cura sono tutti felici del luogo in cui si trovano, ma stranamente i trattamenti miracolosi a cui si stanno sottoponendo li fanno stare sempre peggio. I pazienti, rinchiusi in un isolamento volontario, sembrano inconsapevoli di quello che sta accadendo, così spetta a Lockhart far luce sulla vera natura della clinica, accompagnato dall’eterea Hannah (Mia Goth), una creatura a metà tra donna e bambina, che vaga per la clinica come un’ombra impalpabile, ignara anche lei del destino che la aspetta e della terribile verità che si cela tra quelle mura.
La prima cosa che colpisce nel film di Verbinski è la luce fredda che ricopre tutta la pellicola, e che tanto ricorda il suo The Ring, ma qui l’orrore viene portato su un piano altro, surreale più che tangibile. Al punto che tutto il film sembra girato sott’acqua, in una dimensione in cui l’orrore è generato dall’inquietudine, più che dal sangue, dalla sensazione costante di dover trattenere il respiro più a lungo possibile per poter sopravvivere. Uno stato di ansia perenne serpeggia nella mente come un mostro marino, stringe il cervello e annebbia i pensieri in attesa del disvelamento finale. Ed è proprio nella capacità di trasmettere l’inquietudine con collage di immagini apparentemente slegate, ma fortemente connesse, che Verbinski trova il codice narrativo che gli permette di esprimersi al meglio delle sue possibilità.
Bilanciando il bianco e il nero in una tavolozza torbida in cui la paura striscia lenta e inesorabile fino all’epifania finale, Verbinski riesce a oggettivare questa sensazione nell’immagine al suo stato puro, in cui la realtà si mescola alle visioni in maniera così preponderante che è impossibile scindere ciò che è vero da ciò che non lo è. Ma per quanto il suo esperimento cinematografico possa sembrare sconcertante, nasconde una potenza espressiva che raramente si incontra e che vale la pena di essere goduta fino all’ultimo istante, trattenendo sempre il respiro.