La tartaruga rossa, di Michaël Dudok de Wit

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Porta la firma di un regista olandese l’ultimo capolavoro prodotto dal celebre studio Ghibli. Si tratta de La tartaruga rossa candidato all’Oscar come Miglior film d’animazione, titolo che si è visto portar via dallo sfavillante e coloratissimo mondo di Zootropolis della Disney.
Premiare un film dall’atmosfera senza dubbio più dimessa e alla ricerca di percorsi comunicativi meno scontati, come lo splendido ritorno al tradizionale 2D, sarebbe stata di sicuro una scelta per la giuria dell’Accademy più impopolare ma anche più coraggiosa e controcorrente (per quanto la Disney si porta a casa un successo tanto prevedibile quanto meritato).

La fatica di Michael Dudok de Wit, ideatore e regista del film in questione, vanta però un altro primato, di non meno importanza e di altrettanto prestigio: è il primo film non giapponese a essere interamente prodotto dallo studio del grande Hayao Miyazaki, da sempre massimo custode della più autentica tradizione dell’animazione nipponica.
Esiste però linguaggio universale così potente da sbriciolare le barriere culturali, una semantica che ha saputo creare un ponte tra la poesia dello studio Ghibli e l’animazione europea, fin’ora profondamente interconnessi per una serie di ispirazioni più o meno apertamente dichiarate ma che non si erano mai incontrati “ufficialmente”. Si tratta del linguaggio della fiaba, del sogno e dell’incontro con la natura.
La sorprendente purezza di una favola trasposta nel linguaggio dell’animazione è un po’ la cifra stilistica del regista, come si vede nella sua produzione precedente in modo particolare con il cortometraggio capolavoro che gli è valso un Oscar, Father and Daughter,  e che ha attirato l’attenzione di Isao Takahata, socio storico di Miyazaki e co-fondatore dello Studio Ghibli.

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Da un sorprendente invito a lavorare insieme, come racconta de Wit in una video intervista (che trovate qui http://www.imdb.com/title/tt3666024/trivia?ref_=tt_trv_trv) dopo 6 anni di lavorazione è nata La Tartaruga Rossa, una potente parabola primordiale che, come si diceva, parla un linguaggio tanto universale da non avere bisogno di parole. È infatti letteralmente un film privo di dialoghi e affronta il tema della sopravvivenza in maniera così metaforica e così primordiale da demolire ogni ostacolo dovuto al diverso modo di “sentire” il rapporto con il mondo circostante.
Takahata si è fatto mentore di questa produzione che ha definito totalmente giapponese e non si può in effetti negarlo almeno per quanto riguarda la resa del ritmo narrativo, nonostante il design e le animazioni appartengano all’europeissimo studio Prima Linea.

Il regista ha dichiarato che il film è “una sfida” all’osservatore, i suoi 80 minuti di assordante silenzio lasciano spazio solo al rumore del vento, delle foglie, al fragore della tempesta, dell’oceano, al misticismo dell’incontro, quello che, se si ha abbastanza coraggio da consentire di accogliere l’altro, ha la potenza di cambiare letteralmente la vita.

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La storia si basa su una potente struttura narrativa archetipica, quella del “buon selvaggio”, del naufrago trasportato su un isola deserta che può far affidamento solo sulle sue forze per sopravvivere in una dimensione estranea in cui domina una natura incontaminata, popolata solo da simpatici e dispettosi granchietti e da enormi tartarughe marine. Non è un caso che si scelga la tartaruga per simboleggiare l’unione con la natura: un animale centenario, emblema di un’essenza che sopravvive ai cambiamenti, che con lentezza e testardaggine segue il suo istinto e che appena venuta al mondo sfida ogni mistero per rituffarsi nell’infinito da cui proviene. Ed è proprio dall’incontro con una di queste creature che si sprigiona la magia e si svela il senso metaforico della storia che ripercorre le tappe fondamentali della vita di ciascun essere umano.

La tempesta che costringe a ripartire da un luogo diverso rispetto a quello previsto, la forza di volontà di chi accetta la propria disperata condizione e i propri limiti, il disfacimento dei propri progetti letteralmente fatti a pezzi da ostacoli incomprensibili, il pentimento che “rompe la corazza” con cui ci si protegge e apre alla conoscenza dell’altro, l’amore  disinteressato, la sfida nel lasciare libero chi amiamo di seguire la propria strada. Lo tsunami, cioè la potenza della natura – e della vita – che si abbatte su una serenità faticosamente costruita per lasciar spazio solo a uno scenario di distruzione e morte. E ancora la metafora della morte, quella vera e quella metaforica, che riapre un ciclo nuovo e pretende che si riparta per una nuova misteriosa avventura. È un nucleo familiare biblico quello che si muove in una sorta di Eden tropicale a guidarci in questo viaggio simbolico.

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Tutto questo si presenta allo spettatore con degli scenari acquerellati incantevoli, un’animazione pulita e meravigliosamente tradizionale che vede l’uso del CGI relegato al solo movimento sinuoso delle tartarughe in acqua, tutto il resto è disegno a mano libera. Il character dei personaggi rivela l’origine europea della pellicola, per la linea pulita e sintetica che richiama la tradizione franco belga, in modo particolare lo stile di disegno di Hergè che aumenta la dimensione fiabesca. Controbilancia il tutto una resa maggiormente dettagliata scelta per l’ambiente naturale che fa da sfondo alla vicenda.

Un sound design di grande impatto completa il quadro e rende efficacemente reale l’esperienza immersiva in una natura sovrana e incontaminata, lasciando spazio, quando l’esperienza emotiva e una narrazione meno didascalica prendono il sopravvento, a una musica orchestrale potente e coinvolgente.

La solita incomprensibile politica della distribuzione italiana ha nuovamente relegato il film al mini evento di tre giorni di proiezione, nonostante la grande schiera di appassionati in continua crescita. Questa scelta, insieme al costo aumentato del biglietto, rischiano purtroppo di bollare il film come prodotto di nicchia, impedendo una larga diffusione a una pellicola che non ha la pretesa di un clamore assordante ma che punta invece sull’autenticità dei sentimenti capace di suscitare.

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Nelle sale solo il 27, il 28 e il 29 marzo, La tartaruga rossa ha la forza di una fiaba  ricca di significato che dovrebbe essere ammirata da grandi e piccini.
Il film infatti evoca  una liricità assai lontana da quella a cui l’animazione degli ultimi anni ci ha abituati e che sarebbe invece utile recuperare. La narrazione punta alla ricerca di una purezza arcaica, in cui domina la dimensione sonora e visiva. La calibrata ambiguità tra la dimensione reale e quella fantastica appartiene a  un’oralità primordiale dimenticata, come le favole antiche da raccontare ai bambini che valorizzano il linguaggio emotivo più puro e autentico.
La formula del ritorno al racconto per un film di animazione appare una scelta davvero innovativa nell’epoca del cinema ipertecnologico e ancora una volta lo Studio Ghibli crea un mondo immaginario come sospeso, capace di conservare un’autenticità mai scontata.

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