Stuprate, umiliate, assassinate, vendute al miglior offerente come bestie da macello e alla fine condannate a morte. Queste sono le donne che attraversano il corpo di Federica Bern come anime inquiete, che in vita non hanno potuto urlare al mondo la loro storia perché la loro voce è stata spezzata anzitempo, ma che ora sono qui, schierate su un palco in cui la censura non è ammessa e il giudizio è sospeso. Ora che non hanno più nulla da perdere, perché la vita l’hanno già persa, queste donne straordinarie prendono finalmente la parola per raccontare il dramma universale di cui sono state vittime, e di cui sono vittime tutte le donne, ciascuna a suo modo, dagli abusi sul lavoro, alla violenza domestica, fino al cyberbullismo e a tutte quelle sottili forme di tortura che non lasciano segni sul corpo, ma sulla mente.
La prima ad entrare in scena è Lucrezia, con il volto coperto da un velo rosso di sangue, casta come una vergine all’altare in attesa del suo sposo. Lei è la moglie fedele di Collatino, colpevole solo per la sua bellezza senza pari, ma ugualmente condannata ad un destino di morte dal figlio lussurioso di Tarquinio il Superbo, che penetra nottetempo nelle sue stanze per possederla contro la sua volontà. Lucrezia minacciata di morte si abbandona al suo carnefice ma, dopo aver confessato al marito lo stupro subito, chiede vendetta e si toglie la vita. I versi di Shakespeare la accompagnano per tutto il tempo, sublimando il suo dolore in poesia e il coraggio della denuncia in un monito per tutte le donne che, nonostante il passare dei secoli, continuano a cadere sotto i colpi della violenza. Il suo stupro fisico e morale è la storia di tutte le donne, che ogni giorno continua a scorrere sui titoli dei telegiornali come un film dell’orrore in loop, e non importa che si tratti di un’attivista famosa in tutto il mondo o di un’anonima contadina del Mezzogiorno, la storia è sempre la stessa.
Lucrezia apre la strada ad una processione di confessioni, brutali, impietose, che attraversano lo spettatore come una lama affilata, per risvegliare la sua coscienza addormentata. La prima è Berta Caceres, l’attivista honduregna che ha dato la vita in nome della natura e dei popoli indigeni schiacciati sotto le ruspe del capitalismo, poi c’è una bambina yemenita di 11 anni, che avvolta stretta nel suo velo colorato racconta di essere fuggita di casa perché i suoi genitori volevano obbligarla a sposare un uomo più grande, e ancora Fatma, che invece non è stata così fortunata ed è morta di parto dopo essere stata venduta per poche migliaia di euro a un vecchio zoppo e senza un occhio. Le seguono Kiana Firouz, un’attrice iraniana omosessuale che nel suo paese era destinata alla forca, ma che a Londra ha trovato asilo politico e la possibilità di girare un film sulla sua vita, e Paola Clemente, una bracciante agricola morta di stanchezza con la faccia nella terra che le dava la vita, sotto il celo terso della nostra bella Puglia.
Se la funzione dell’arte è quella di cambiare le cose, di chiamare all’azione, Lo stupro di Lucrezia di Luca De Bei è arte allo stato puro, e Federica Bern la sua portavoce più accorata. Sul palco del Teatro dei Conciatori di Roma si denuncia una realtà che non è più possibile ignorare, un dolore a cui bisogna iniziare a tendere l’orecchio, affinché l’ingiustizia diventi l’eccezione invece che la regola. Nessuno è innocente se non fa nulla per cambiare le cose. E nessuno è assolto per tutte le volte in cui si è reso complice silenzioso di questa carneficina, neanche a teatro.