«Il bello è brutto e il brutto è bello» così inizia la tragedia di Macbeth, in cui la vita e la morte sono connesse l’una all’altra come il sole e la luna, e il futuro più radioso che si possa immaginare nasconde un segreto oscuro come l’inferno. Il cielo è infuocato dalle pire dei defunti e una nebbia fitta nasconde pietosa i corpi dei soldati rimasti uccisi in battaglia. Macbeth con il volto ancora imbrattato del sangue dei nemici sta tornando a casa con il suo fedele amico Banquo, quando la nebbia si dissolve sulla brughiera e lascia intravedere tre creature oscure con le sembianze di donne che lo salutano Barone di Glamis, poi Barone di Cawdor e infine gli annunciano che sarà re. Questa luminosa profezia nutre la sua ambizione, ma la speranza di diventare re avvelena i suoi pensieri come una pozione mortale, gli toglie il sonno e annebbia la veglia, fino al momento in cui non riabbraccia la sua amata. Lady Macbeth si ubriaca di vanità per le parole delle streghe dai suoi baci assorbe il suo veleno. Lo incita a comportarsi da uomo e a prendersi il futuro che gli è stato predetto con la forza, sfidando il cielo e assassinando nottetempo il buon re Duncan, che sarà presto loro ospite.
Il regno di Macbeth nasce dal sangue dei soldati straziati sul campo di battaglia, dai vecchi pugnalati nel sonno e dai fanciulli impiccati nel bosco, nasce dalle urla degli innocenti e dal fetore dei corpi martoriati, e in questo orrore senza fine continua a crescere, accumulando morte su morte. Ma il sangue versato fa ribollire la terra e fa tornare in vita i morti, uno dopo l’altro, per tormentare le ore di Macbeth e della sua sposa. I fantasmi sono ovunque, infestano la foresta, siedono al loro tavolo, e urlano il loro nome per chiedere giustizia. La mente dei nuovi sovrani è piena di queste creature infernali, che li allontanano sempre di più, annebbiando le percezioni, annullando i sentimenti e confondendo la notte con il giorno, e qualunque cosa facciano non possono fare a meno di sprofondare sempre di più nell’inferno che si sono costruito con le loro mani.
Questa è la triste storia di Macbeth, il soldato valoroso reso pazzo da un’ambizione sconfinata e della sua regina, prima strega sanguinaria, poi donna oppressa dal senso di colpa, e in molti l’hanno raccontata, osservandola ogni volta da un punto di vista diverso. Ora il regista australiano Justin Kurzel sfida i giganti del passato, Orson Welles, Akira Kurosawa e Roman Polanski, che questa storia l’hanno già raccontata, e cerca la sua chiave interpretativa nella sua personale estetica della morte, mostrando gli spettri degli uccisi come presenze tangibili e onnipresenti. In questo Macbeth nessuno muore davvero, neanche il figlio di Macbeth, ma si trasforma in una creatura antropomorfa che rispecchia i pensieri di chi gli ha strappato la vita, il senso di colpa e il tormento di un re e di una regina incapaci di essere attori della loro storia.
Come i loro alter ego scenici anche Michael Fassbender e Marion Cotillard sono intrappolati in questo labirinto di ombre, vincolati dal timore reverenziale verso il ruolo che gli è stato cucito addosso a forza, e stretti nella morsa del verso shakespeariano, che guida le loro azioni fino a prevaricarle. Kurzel infatti ha scelto di mantenere intatto il testo originale e la sequenza dei versi che guidano il destino funesto di Macbeth, per tornare al nucleo dell’opera, alla sua essenza più pura. Ma se l’impianto formale del Macbeth shakespeariano incontra la perfezione sulla scena teatrale, la sua trasposizione fedele nel film risulta legnosa, tanto composta da sembrare artefatta, e costringe gli attori ad assecondare il ritmo lento dei versi, senza cedere alla follia scomposta che appartiene ai loro personaggi. Nella sua estetica impeccabile il Macbeth di Kurzel implode e la brutalità di quest’opera, che gronda sangue e morte da ogni verso, si trasforma in un orrore più intimo, che corrode la mente dall’interno con le sue visioni spettrali e conduce a una morte lenta ma non meno dolorosa.