Pacific Rim 2 – La Rivolta, di Steven S. DeKnight

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Dopo cinque anni di attesa, esce nelle sale il secondo capitolo della saga cinematografica dedicata agli Jaeger, giganteschi robot-arma costruiti dall’uomo per difendersi dalla minaccia di mostruose creature aliene fuoriuscite da una misteriosa breccia posizionata nelle profondità dell’Oceano Pacifico, i Kaijū.
È  Pacific Rim – La rivolta, nelle sale dal 22 marzo, la sfida cinematografica con cui Steven S. DeKnight tenta di riaccendere l’entusiasmo dei fan per una saga inaugurata nel 2013 dal premio Oscar Guillermo del Toro.
L’operazione ‘sequel’ è stata più difficoltosa del previsto: il risultato del primo capito della saga infatti, nonostante un autentico entusiasmo da parte del regista e dei fan del genere, aveva deluso la Warner Bros e aveva messo in stand by la possibilità di realizzare un seguito della pellicola.
Il contraccolpo maggiore del cambio di regia è stato un abbassamento dello stile narrativo: l’atmosfera dark sapientemente costruita da un gigante come del Toro non era facilmente replicabile e infatti risulta del tutto smarrita in questo secondo capitolo, diretto da un regista di serie televisive (Buffy, Smallville, Spartacus e Daredevil) al suo esordio con il grande schermo.
Niente più tempeste tropicali, niente più scenari cupi e fulmini da cui spuntano le gigantesche creature aliene, al massimo polveroni alzate dalle macerie dei grattacieli distrutti dai combattimenti. La potenza della natura in tutta la sua spaventosa brutalità, contro immense nuvole di polvere, tanto per capirci.

Ma facciamo un passo alla volta: la scena si apre sulla periferia di una grande metropoli, ci troviamo 10 anni dopo la battaglia decisiva, quando i piloti Raleigh e Mako all’interno di Gipsy Danger, riescono a sconfiggere i Kaijū., penetrando il portale che collega la dimensione aliena con la Terra e salvando l’intera umanità. Si è dunque conclusa un’epoca di combattimenti, di eroi, di sacrifici e di pace tra le nazioni, unite da un nemico comune e un decennio dopo lo scenario è di corruzione e degrado. Le uniche tracce degli scontri micidiali che hanno devastato il pianeta sono rappresentate dalle gigantesche carcasse dei mostri alieni abbandonati fuori delle città.
Jake Pentecost (John Boyega) afferma fin da subito di essere molto diverso dal padre, l’eroico comandate Pentecost conosciuto nel primo capitolo della saga, e lo conferma conducendo un esistenza fatta di festini e illegalità, pienamente soddisfatto della sua attività di furto e reciclaggio dei pezzi degli Jaeger ormai dismesso.
In questo contesto malavitoso e dissoluto, Jake si imbatte in Amara Namani (Cailee Spaeny), giovanissima e tosta orfana capace da sola di assemblare e pilotare un piccolo Jaeger monoposto (per chi non lo ricordasse i Jaeger si pilotano con una connessione neurale alle menti di due piloti, ognuno dei quali è predisposto al controllo di un area celebrare del mecha).
Entrambi si ritroveranno costretti a risolvere i propri guai con la giustizia, prestando servizio nella nuova unità di piloti, il Pacific Defence Corps, comandati da Mako Mori (Rinko Kikuchi), che già abbiamo conosciuto nel precedente film come figlia adottiva del comandate Pentecost e che ritroviamo ora con il conseguente ruolo di sorellastra del protagonista.
Completa il quadro la nuova concorrenziale generazione di Jaeger, con sistema di pilotaggio in remoto, ideata e brevettata dalla cinese Liwen Shao (Jing Tian), una tecnologia che di fatto renderebbe inutili i piloti e il loro faticoso addestramento.
Naturalmente un nuovo terribile attacco alieno arriva tempestivo a far saltare tutti i piani.

Basta una breve sinossi a far risaltare la mancanza di quel pathòs che fin dai primissimi minuti del capitolo introduttivo della saga aveva fiondato lo spettatore nel bel mezzo di una battaglia tra titani durante una devastante tempesta oceanica.
Stavolta la partenza è quanto meno didascalica: conosciamo i personaggi, una parte della loro storia, i loro progetti (o la mancanza di essi) e i motivi che producono un cambio di rotta nella loro vita, tutto con un prevedibile concatenamento causa-effetto. Qualche botta di adrenalina nella prima parte del film non manca, tra la scena di una fuga dalle forze dell’ordine a bordo del piccolo Jaeger assemblato da Amara e naturalmente con il ritorno di un nuovo e spettacolare attacco alieno.
Non manca di certo un calcolato indugiare sull’estetica dei mecha e sulla mastodontica presenza fisica dei mostri alieni, una doppia formula garantita che entusiasma il pubblico nerd e strizza l’occhio a tanta cultura pop giapponese da Godzilla ai robot di Go Nagai, da Evangelion a Gundam.
La mitologia del Sol Levante è omaggiata non solo dal un immaginario visivo che è diretto discendente del cinema e degli anime giapponesi ma anche dalla presenza fisica di Tokyo e da una simbolica scalata al monte Fuji nella sequenza finale del film.
Agli ingredienti salienti e assolutamente immancabili per non scontentare i fan del genere, il team degli sceneggiatori, tra cui compare anche lo stesso John Boyega, ha provato a introdurre nuovi espedienti narrativi, alcuni dei quali molto interessanti come ad esempio una strategia più articolata e invasiva da parte della nuova generazione di Kaijū.


C’è da dire però che purtroppo molte di queste scelte interessanti non vengono mai davvero approfondite.
Il mondo post bellico, per dirne una, ha delle enorme potenzialità per costruire un discorso legato ai traumi di un passato che ha sconvolto l’intera specie umana e invece resta relegato a semplice scenario, niente più che un contesto di avvio della scena, la cartolina di un paesaggio alterato.
Allo stesso trattamento è sottoposta la conflittualità tra il protagonista e l’amico Nathan (Scott Eastwood): lo schema tra protagonista e spalla è classico ma non per questo necessariamente scontato, purtroppo però non si va mai oltre il mero battibecco tra vecchi compagni e qualche superficiale rivendicazione del proprio ruolo di autorità all’interno della caserma in cui si allenano i giovani piloti.
Le stesse storie personali dei cadetti, i loro conflitti, la competizione e la solidarietà che caratterizza le loro interazioni, sono solo rapidamente accennati e si rivelano in definitiva esclusivamente funzionali a sottolineare una loro maturazione e il superamento di certe logiche egoistiche per rivestire il ruolo dell’eroe quando la battaglia impone uno sforzo e un sacrificio comune.
Anche la figura di Liwen Shao, promotrice di una nuova tecnologia Jaeger, da fredda calcolatrice e determinata donna in carriera subisce una mutazione tanto improvvisa quanto poco motivata, nonostante rappresenti una figura narrativamente molto interessante e sicuramente da sfruttare meglio.

Certo non si richiede chissà quale introspezione psicologica a un blockbuster di azione e botte tra robot giganti e mostri corazzati, è vero, sono però quantomeno graditi dei personaggi a tutto tondo, capaci di appassionare dalla prima occhiata e di convincere subito dopo.
Cosa che in effetti accade con la giovane Amara, incarnazione della ribelle cazzuta e geniale, dal tragico passato e dalla indomita volontà, intenzionata a “salvarsi il culo da sola” e capace di comprendere il valore della collaborazione e dell’altruismo, la quale però fino alla fine non esce mai dai limiti di un ruolo piuttosto prevedibile.
Convince poco anche Jake Pentecost, interpretato da un Boyega che in sostanza non si allontana tanto dalla figura dell’eroe antiautoritario e autoironico che ricopre anche nella saga di Star Wars, con la sola differenza che quando combatte per la Ribellione ha un’umiltà e un’umanità che coinvolge e dà spessore al suo personaggio, caratteristiche che perde totalmente nei panni del problematico pilota del mitico Jaeger ‘Gipsy’.

Mantengono una interessante funzione di collegamento al primo film ma con risvolti del tutto inaspettati le figure dei due scienziati, Newton Geizler (Charlie Day) e Hermann Gottlieb (Burn Gorman). I due avevano già collaborato nel precedente Pacific Rim, incarnando le due anime della ricerca scientifica: l’impulsività spesso sconsiderata del metodo induttivo da una parte, la prudenza di chi procede per deduzioni e non si lascia ammaliare da scelte affrettate e apparentemente troppo facili dall’altra.
In questo nuovo capitolo ritroviamo Newton schierato dalla parte dei nuovi robot di produzione cinese e perso totalmente nei suoi fantasmi tossici, mentre il geniale Hermann sempre alle prese con nuove idee per potenziare i vecchi Jeager. Ce n’è abbastanza per  generare un conflitto tra due generazioni di Jeager, di cui il nemico ovviamente intende approfittarsi. Ma anche questo conflitto si spegne rapidamente per seguire una linea narrativa diversa, più scontata. Il ruolo dei due scienziati è più strategico, quasi definitivo nel bene e nel male, e le conseguenze delle loro scelte, alcune delle quali appaiono direttamente collegate al primo film, mostrano implicazioni più drammatiche, sicuramente più oscure.

La spettacolarità delle scene di combattimento tra Jeager e  i Kaijū – addirittura tra Jaeger e Jaeger – non manca di sicuro e il ritmo narrativo della seconda parte recupera con gli interessi l’eccessivo mood dialogato e didascalico della prima metà, complice anche una nota piacevole di scene divertenti che non guastano e assicurano il giusto controcanto a un universo narrativo che rischia spesso di prendersi troppo sul serio.
Quello che nel film funziona rende però solo più evidente quello che invece non funziona: le scene di combattimento sono belle ma non epiche, i personaggi sono adeguati ma non appassionanti, le apparizioni dei mostri sono funzionali ma non sorprendenti.
Tutto questo dimostra non che l’operazione Pacific Rim sia sbagliata, perché i mecha che combattono contro giganteschi mostri alieni hanno sempre un loro pubblico desideroso di lasciarsi emozionare da una serie di elementi che conosce e che vuole ritrovare inalterato.
Quello che però non può mancare è una progettualità di fondo che sappia conferire spessore e carattere a elementi già noti.
Purtroppo da questo punto di vista Pacific Rim – La rivolta è un’operazione riuscita solo in parte.
Manca una continuità diretta tra i personaggi introdotti nel primo capitolo, manca la drammaticità generata dalle connessioni celebrali tra i piloti, manca la pesantezza possente nei gesti degli Jaeger, manca sopratutto la brutalità affascinante e primordiale che caratterizza i Kaijū, mostri che vantano una illustre discendenza nell’immaginario mitologico e fantascientifico mondiale. Pur essendo un film godibile, capace di convincere e divertire nelle scene di combattimento, la pellicola paga a caro prezzo la mancanza di quel carisma che del Toro aveva saputo imprimere al capitolo di esordio.

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