James Cleveland Owens (Stephan James) parte a 21 anni per l’università, lasciando una figlia piccola, una ragazza ancora da sposare e una famiglia d’origine in precarie condizioni economiche. La nuova vita sembra già una conquista, ma qualche mese dopo, grazie al coach dell’Ohio University Larry Snyder (Jason Sudeikis), Jesse ottiene la convocazione per le Olimpiadi di Berlino dopo un esordio clamoroso. Stabilisce quattro record del mondo in quattro specialità differenti nel corso di un’unica manifestazione sportiva: le 100 yards (in 9”3), le 220 yards piane (in 20”3), le 220 yards ad ostacoli (in 22”6) e il salto in lungo (con 8.13 m).
È il 1936 e la politica di epurazione razziale di Hitler divide il Comitato Olimpico Americano: partecipare o boicottare? La comunità afroamericana si pone lo stesso problema. Jesse, dal canto suo, sa una cosa: se andrà, non potrà permettersi di non vincere. Del resto, lui è uno sportivo e come tale deve ignorare qualunque influenza esterna alla pista di atletica. L’agonismo è l’unica condizione al mondo che non ammette discriminazioni di sorta.
Il regista Stephen Hopkins non è nuovo alla biografia: quella di Peter Sellers (Tu chiamami Peter) aveva fatto infuriare chi la trovava esageratamente critica tanto quanto chi la giudicava non abbastanza mostruosa. Con Race, titolo dal doppio significato, sembra evitare il rischio in partenza, rinunciando alle sfumature e optando risolutamente per un ritratto eroico di Owens, dall’inizio alla fine, nello sport e nella vita.
D’altronde – sembra dire Hopkins – i conflitti esterni al personaggio sono tali e tanti che lo mantengono comunque e perennemente sotto pressione. E così è: la scelta di raccontare i giochi olimpici più controversi della storia porta con sé una quantità di materiale narrativo ingente, e il regista lo gestisce aspirando ad un modello di racconto classico, che in qualche momento gli riesce bene e in altri meno. Basato sui racconti della figlia Marlene, il lungometraggio promette di smentire alcune “bugie” sulla sua vita: ad esempio, non è vero che il Führer non volle stringergli la mano. L’atleta sarebbe, invece, stato evitato dall’allora presidente USA Franklin Delano Roosevelt.
In realtà, mio padre non si è mai sentito snobbato da Hitler. In retrospettiva, mio padre fu profondamente ferito dal fatto che Franklin Delano Roosevelt, il presidente americano dell’epoca, non l’avesse ricevuto alla Casa Bianca
ha affermato la figlia. Owens, infatti, si vide cancellare – e mai più riprogrammare – un appuntamento da Roosevelt, impegnato nelle elezioni presidenziali del ‘36 e preoccupato della reazione che avrebbero avuto gli Stati del Sud.
La volontà di mantenersi sul politically correct riduce, però, il tasso di tensione, così come l’impressione che il battere ogni record non costi a Owens fatica alcuna, e l’immagine del suo reiterato primato, nello stadio bianco che doveva magnificare agli occhi del mondo il Terzo Reich, resta la sola a tentare di ristabilire un equilibrio. Race corre alla meta ma, dal punto di vista filmico, è una vittoria poco sudata: senza le sfumature, la foto-ricordo è piatta.