Ci sono comunità negli Stati Uniti che praticano terapie di rieducazione per omosessuali, che mirano a riconvertire all’eterosessualità con metodi come la preghiera collettiva e il counseling pastorale e, nei casi più estremi, con l’elettroshock, la suggestione ipnotica o l’iniezione di farmaci inducenti nausea o vomito in associazione a stimoli omo-erotici. Queste terapie “riparative”, particolarmente gradite alle frange più conservatrici delle diverse fedi religiose, sono praticate ogni anno su centinaia di migliaia di omosessuali, anche minorenni, provocando traumi fisici e psicologici irreparabili. Da questa terribile statistica nasce il romanzo di culto di Emily M. Danforth The Miseducation of Cameron Post, da cui la regista newyorkese di origini iraniane Desiree Akhavan ha tratto l’omonimo film, vincitore dell’ultimo Sundance Film Festival e film manifesto del clima di intolleranza che si respira in tutto il mondo.
La vicenda è ambientata nel 1993 in una cittadina del Montana, apparentemente simile a qualunque altra del paese, in cui la vita scorre senza scosse e assecondando tutti i cliché del caso. Liceo, università, matrimonio e figli. Queste sono le tappe fondamentali che deve raggiungere una ragazza che si rispetti e, in questo cammino verso il riconoscimento sociale, il ballo della scuola è un punto di svolta imprescindibile. E Cameron Post, come tutte le sue compagne di classe, è pronta a partecipare all’evento dell’anno con vestito di raso e bouquet di fiori al seguito. Cameron sfoggia un sorriso e un trucco impeccabile, ma sotto la maschera di felicità nasconde un segreto. Il suo cuore infatti non batte per il ragazzo più bello della scuola, ma per la sua migliore amica e, quando viene scoperta a baciarla in una macchina parcheggiata nel cortile della scuola, Cameron viene spedita nel centro religioso God’s Promise.
Questo rifugio di peccatori non è altro che un centro di riabilitazione per giovani dalla sessualità confusa, che promette di guarire dall’omosessualità con una speciale terapia di riconversione, naturalmente a prezzo di dollari sonanti. La disciplina e i metodi del centro sono però alquanto dubbi e Cameron si rende immediatamente conto dei gravi danni psicologici che i gestori del centro infliggono agli altri ragazzi. Allo stesso tempo però riesce a creare un piccolo gruppo di outsider che, come lei, non credono nella terapia e non vedono l’ora di ribellarsi, per riaffermare con orgoglio la propria identità.
“To pray away the gay” è lo slogan delle comunità riabilitative disseminate per gli States. Un messaggio oscurantista e intollerante che stride con l’epoca apparentemente progressista in cui ci troviamo. Eppure tutto questo è reale, e fa male. Per questo è necessario rendere noto a quante più persone possibile quello che avviene in questi luoghi, e Desiree Akhavan in questo senso porta a termine la missione nel miglior modo possibile. Attraverso una messa in scena accattivante, racconta la sua storia senza ricadere nella colpevolizzazione di certe istituzioni o in facili patetismi, lasciando la parola unicamente ai suoi personaggi. Eterogenei, vivaci, e tratteggiati con cura, danno voce ai loro coetanei oppressi dall’ignoranza, azzerati nella loro individualità da chi non è in grado di riconoscerne il valore e nonostante tutto abbastanza forti da reagire. Proprio come loro, la Akhavan riesce a trovare l’ironia anche nelle situazioni più drammatiche, e la sua forza nell’armonia dei contrasti più che nell’omologazione, ribadendo in ogni scena la necessità di restare fedeli a sé stessi nella propria unicità.