Room, di Lenny Abrahamson

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C’era una volta il piccolo Jack, che insieme alla sua Ma viveva in ‘Stanza’… Nella Stanza la vita scorre attraverso giornate identiche scandite da azioni ripetitive e presenze costanti: ci sono i silenziosi e immobili amici ‘Lampada’, ‘Lavandino’ e ‘Sedia’; c’è la scatola magica ‘Tv’; c’è l’irraggiungibile ‘Lucernario’ che si affaccia sull’ indeterminabile spazio; ci sono le irruzioni notturne di ‘Old Nick’, misteriosa presenza che ogni sera si infila per qualche ora nel letto di Ma mentre Jack sta nascosto dentro ‘Armadio’, fino a quando, sparito l’ospite notturno e ritornata la luce, tutto ricomincia uguale. All’indomani del suo quinto compleanno Jack però sente che qualcosa è cambiato: nuove domande e nuovi bisogni iniziano ad emergere dentro di lui, manifestandosi in un’irrequietezza crescente e incontrollabile. Il riflesso di tutto ciò è la sua Ma, sempre meno sorridente, sempre più inquieta e pensierosa, fino a rivelare una sconvolgente verità: fuori c’è un mondo molto più grande e complesso, fatto di persone, animali e cose reali, e per loro due è arrivato il momento di uscire dalla Stanza e raggiungere l’unica vera casa.

Room, l’ultimo film di Lenny Abrahamson, tratto dall’omonimo romanzo di Emma Donoghue (che è anche la sceneggiatrice del film), si presenta fin dall’inizio allo spettatore come continuamente oscillante tra l’invito ad una sospensione dell’incredulità e il richiamo ad una presa di coscienza della realtà. Se il suo soggetto trae indubbiamente ispirazione dalla cronaca più amara e attuale, esso  è tuttavia rappresentato attraverso una doppia lente straniante: quella della favola raccontata da un bambino di appena cinque anni, ed è indubbiamente questo particolare il principale punto di forza del film. Di fronte ad una storia di reclusione, abuso e disagio due sembrerebbero infatti le strade: quella del thriller o quella del dramma; Room invece scardina qualsiasi regola formale imposta dalla tradizione cinematografica e, rifuggendo sia cupezza che patetismo, assume interamente l’ottica leggera sincera e spontanea del suo piccolo narratore protagonista, sì da cogliere e coniugare ricchezza e profondità.

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Non vi è traccia di retorica, né di pornografia emotiva nell’opera di Abrahamson, che sapientemente sceglie di lavorare in sottrazione, con uno sguardo mai invadente, ma al contrario delicato e sensibile in un distacco che preserva e anzi valorizza l’autenticità di abbracci, sguardi o di qualsiasi altro momento d’intimità, in cui alla fine a trionfare sono dolcezza e tenerezza. Uno sguardo e una sensibilità, quelli voluti dal regista, che  guidano lo spettatore anche quando la storia continua al di fuori della stanza, determinando una cesura e una divisione in due parti del film che rappresentano l’ennesima scelta forte e ‘rivoluzionaria’ del regista. Una scelta però ancora una volta vincente, poiché se in un primo momento lo spettatore risulta quasi disturbato dall’insolito invito ad andare oltre il rassicurante e liberatorio ‘happy ending’, alla fine è proprio nel prosieguo della storia che si nasconde una più completa catarsi, oltre che una completezza e un’onestà maggiori non solo dal punto di vista narrativo, ma soprattutto da quello psicologico e sociologico.

C’è tanto, tantissimo in  Room: ci sono, s’è già detto, l’abuso e la reclusione, c’è la difficile relazione tra genitori e figli, c’è il tema della crescita e quello della famiglia, c’è la denuncia dei meccanismi perversi e della violenza dei media; eppure tutto trova il suo posto e si armonizza in un film potente e leggero tanto quanto le magnifiche interpretazioni dei suoi due indiscussi protagonisti: Brie Larson (vincitrice, grazie a questa interpretazione, dell’Oscar 2016 come ‘Miglior attrice protagonista’) e lo sbalorditivo Jacob Tremblay, di appena dieci anni.

Se è vero che nel mondo d’oggi – e nelle manifestazioni artistiche da esso scaturite – qualsiasi utopia risulta ingannevole e lascia il posto a realtà distopiche, Room non nega ed anzi rispetta tale assunto, ma nel farlo mostra la rara virtù (dal sapore calviniano) di riuscire a trovare in mezzo all’inferno ciò che inferno non è, lasciando che bellezza e dolcezza ci salvino con sincerità.

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