Un salto indietro nel tempo, il teatro elisabettiano in tutto il suo fascino: al Silvano Toti Globe Theatre si concretizza la vera magia di Shakespeare. Sogno d’una notte di mezza estate non ha bisogno di presentazioni. È la commedia della magia, della dimensione onirica e del sogno a occhi aperti, del divertimento popolare e della beffa. È un merletto raffinato, cucito alla perfezione da uno Shakespeare a metà circa della sua carriera, un labirinto in cui la realtà si contrappone al sogno, l’indiscutibile si confronta con l’incertezza, il mondo della magia e della natura si mescolano al mondo degli uomini e ai loro terreni affanni. È sopratutto il gioco a incastri, tema caro al grande drammaturgo, del teatro nel teatro.
La magia che scaturisce da questa storia di amori, sortilegi, fughe e duelli rivive di fronte agli occhi dello spettatore romano in tutta la sua sublime unicità grazie a una location del tutto eccezionale: la ricostruzione esatta del Globe Theatre di Londra, quel mitico luogo che, tra il 1586 e il 1612 circa, vide susseguirsi sul suo palcoscenico la più straordinaria produzione drammaturgica di tutti i tempi, quella di tale Sir. Shakespeare.
Diretto da Gigi Proietti e situato nella piacevole cornice di Villa Borghese, il Silvano Toti è uno splendida struttura in legno che propone nella calda estate romana una selezione di opere del repertorio shakespeariano, tra commedie e tragedie in lingua originale o con originali riadattamenti.
Al di là del singolo titolo al botteghino dunque, l’atmosfera che si respira è pura magia. Il teatro è volutamente spartano (sedili in legno e posti in piedi sul parterre) per riproporre al pubblico in tutta la sua interezza l’esperienza del teatro elisabettiano, passatempo popolare accessibile anche alle classi meno abbienti.
Ideato e rappresentato in occasione di una celebrazione di nozze, il Sogno si snoda lungo un intricato guazzabuglio di situazioni e personaggi fino a formare un percorso ad anello che va dall’annuncio di un matrimonio tra il re di Atene e la sua consorte conquistata in guerra a una benedizione nuziale “multipla”, in un lieto fine che unisce a festa tutti i personaggi.
Le chiavi di lettura con cui è possibile analizzare questa commedia sono infinite come infinito è il gioco degli specchi che frantuma le prospettive e espande una storia in mille nodi narrativi.
Il testo shakespeariano, con la traduzione di Simonetta Traversetti, riprende vita per la regia di Riccardo Cavallo in un adattamento che conserva in modo lucido e intelligente il legame con la tradizione.
In primis nel far emergere benissimo gli intrecci psicologici e i movimenti di tensione che si nascondono nei diversi ruoli dei protagonisti: Ippolita non è una regina innamorata ma una preda, Elena non è solo una fanciulla preda delle pene d’amore ma una donna piena di insicurezze e lacerata tra la fedeltà all’amica d’infanzia Ermia e la gelosia che la bellezza dell’amica suscita in lei. Persino di Titania e Oberon, Re e Regina delle Fate, esemplari di un mondo incantato e irraggiungibile, sembra possibile comprendere le ragioni di comportamenti capricciosi e futili grazie alle puntuali interpretazioni degli attori.
Elemento forse ancora più importante e apprezzabile è la resa drammaturgica, fedele ma magistralmente attualizzata, delle gag comiche per eccellenza della rappresentazione: la compagnia di zotici artigiani che con improbabili manie di grandezza e con la scatenata bizzarria di assurde trovate sceniche tenta di mettere in scena uno spettacolo in vista delle nozze del Re di Atene.
Si tratta di Peter Quince, Francis Flute, Snug e Tom Snout – rispettivamente interpretati da Marco Simeoli, Roberto Stocchi, Andrea Pirolli e Claudio Pallottini – protagonisti loro malgrado degli intermezzi tra i più divertenti della storia della commedia.
La loro maldestra ignoranza è contestualizzata e resa attuale da una calata napoletana che conferisce alla loro esibizione, tutta focalizzata su iperboliche e disastrose prove teatrali, un aspetto di farsa partenopea a cui è impossibile restare indifferenti. Fanno divertire il pubblico con gestualità esagerate e tempi comici perfetti.
Lo studiato meccanismo del teatro nel teatro, costruito ad hoc dall’autore, acquista una credibilità e un’efficacia insolita e divertentissima.
Abbassa definitivamente ogni tono drammatico della storia la beffa per eccellenza: la Regina delle fate, costretta con un filtro d’amore a prostrarsi folle d’amore a Nick Bottom, tessitore con velleità artistiche, per di più mostruosamente trasfigurato in un essere antropomorfo con la testa d’asino.
Straordinaria emerge la figura di Titania, interpretata da Claudia Balboni, gigante tanto nel timbro vocale quanto nella presenza scenica. A Gerolamo Alchieri, splendidamente poliedrico nella sua interpretazione, spetta invece il difficile ruolo di Nick Bottom, forse il personaggio comico più riuscito di Shakespeare.
Tutt’altro che secondari alla riuscita della giusta ri-creazione dell’atmosfera festosa e fiabesca del Sogno sono i costumi, curati da Manola Romagnoli, capaci al tempo stesso di identificare la classe sociale d’appartenenza (elemento fondamentale nel gioco dei ruoli di Shakespeare) e di astrarre totalmente ogni ipotesi documentaristica di datazione epocale per innalzare tutto a un piano sospeso tra il mito e la leggenda.
Personaggio cerniera dell’intera vicenda è Puck: folletto scaltro, malandrino, tutt’altro che impavido con il suo padrone ma scanzonato e risolutivo, è lui a fare da ponte tra il mondo magico delle fate e il mondo degli uomini.
Gerolamo Alchieri da’ a questo personaggio una fisicità per nulla “follettosa” ma ancor di più stupisce la sua capacità di sembrare piccolo, invisibile nell’oscurità del bosco, indaffarato a rimediare ai suoi pasticci e, infine, immenso nel vibrante monologo finale che incarna e rivela le parole e il pensiero di Shakespeare in persona, il suo legame con il palcoscenico, con il pubblico e la sua intera concezione del teatro come “sogno a occhi aperti”.
La scenografia, a cura di Silvia Caringi e Omar Toni, è semplice, come nel teatro elisabettiano. Pochi elementi bastano a far vivere una molteplicità di situazioni che si susseguono nei due topoi della commedia classica: il palazzo e il bosco. Le luci, disegnate da Umile Vainieri, creano le atmosfere, scandiscono il passare delle ore e soprattutto demarcano quella sottile linea di confine tra il giorno e la notte, tra il regno della magia e la società degli uomini.
Potere evocativo di immagini, musica, trame che si sovrappongono e – non ultimo – il fascino della parola di Shakespeare: ogni elemento si ricompone in un grande quadro finale, tutto si salda in una compiuta unità. Tuttavia ogni cosa resta sospesa nel Sogno. Tutto è ricoperto da un aurea di magia e incanto.
Il pubblico, a fine rappresentazione, si chiede se abbia assistito a un sogno o a uno spettacolo reale. E puntale nel preciso istante in cui la magia del teatro ha compiuto la sua missione, dal palco riecheggiano le parole di Shakespeare, messe in bocca al folletto Puck: “Pensate, per rimediare al danno/che qui vi abbia colto il sonno/durante la visione del racconto/e questa vana e sciocca trama/non sia nulla più di un sogno.”