Un prologo realizzato nel bel mezzo del folkloristico Día de los Muertos a Città del Messico con una frase d’apertura conturbante, «I morti sono vivi», promette emozioni che il film non mantiene lasciando lo spettatore nella sensazione che non solo Bond, ma l’intero progetto sia diventato «un aquilone che volteggia in un uragano», come afferma un Christoph Waltz sottotono, o «una sfinge senza enigmi» per dirla alla maniera di Oscar Wilde.
Trascorsi pochissimi secondi, senza dubbio alcuno riconosciamo all’istante le orecchie di Daniel Craig, malcelate sotto la maschera da scheletro, e così addio sorpresa! Una serie di improbabili soluzioni sceniche portano a ridere di gusto durante un crescendo di tensione, e così addio suspence! Non devo scomodare Hitchcock per dimostrare che non ci siamo proprio! Il personaggio di James Bond è difficile da gestire cinematograficamente, con quel suo saperne sempre una più del diavolo, il povero diavolo di turno, “un pittoresco megalomane che architetta un modo irragionevole e complicato per ucciderlo dopo avergli svelato l’intero piano malvagio”, come giustamente fa notare la concorrenza in Kingsman Secret Service. La struttura ripetitiva del nucleo della trama non necessariamente deve corrispondere ad un intreccio lineare, scontato e noncurante delle lezioni apprese attraverso 120 anni di cinema.
Fotografia ovviamente spettacolare e funzionale, ma lontana dall’essere d’autore o se non altro memorabile. Indimenticabile invece la theme song Writing’s on the wall di Sam Smith, particolarmente curata, un’esperienza onirica sensazionale. Una delle migliori mai realizzate, se non la migliore, di tutta la lunghissima saga dell’agente segreto più famoso al mondo. Lo stesso non si può affermare invece della sigla di apertura con un’andatura da Homo di Neanderthal, ingessato dalla cinta in su.
Apprezzabile ogni momento comico affidato a “Q” e l’interazione con Bond risulta sempre piacevole. Lo stesso non si può affermare per l’interazione con il cast femminile: Monica Bellucci, sempre sensuale e maggiormente apprezzabile, a quanto pare, quando recita in lingue che non siano l’italiano, non fa breccia sulla mimica facciale di Craig; con la bellissima Naomie Harris il corteggiamento viene addirittura messo in scena solo a parole senza una prossemica; la talentuosa Léa Seydoux, la bond girl che gode di maggior visibilità, riesce addirittura nell’intento di rubare la scena, tra l’altro di azione, al protagonista.
Per quanto riguarda, poi, le azioni, Il James Bond di Sam Mendes è molto poco gentleman inglese d’altri tempi e di gran lunga più vicino al modus operandi degli Expendables di Stallone. È praticamente invulnerabile a tutto, persino al traffico di Roma! Si prova una spettrale sensazione a vedere la Nomentana e il Lungotevere completamente privi di traffico, ci si sente quasi come il personaggio di Will Smith in Io sono leggenda.
Qualsiasi cosa accada, Bond non ha graffi, non gli si strappano i vestiti e non gli si sporca neanche la giacca bianca. È solo grazie ad un po’ di sudore sulla fronte che capiamo che il personaggio, che vediamo rimanere impassibile mentre automobili, aerei, elicotteri e interi palazzi finiscono in macerie, non è Mr. Magoo!
La fallibilità rende più umano il personaggio e quindi il pubblico riesce ad immedesimarsi più facilmente, stringe un legame indissolubile con il suo eroe, in stato di transfert cinematografico diventa egli stesso l’eroe, per l’intera durata del film e così trema per lui, suda con lui, teme per la sua e la propria vita contemporaneamente, attende con ansia la fine per un bisogno di conoscenza, per la curiosità di vedere come va a finire la storia e non perché è estenuato da un continuo utilizzo di trovate fin troppo rocambolesche anche per i canoni dell’agente 007. Non dovrebbe sembrare più realistico uno scontro tra supereroi o tra robot giganteschi!
Può darsi non sia obsoleto il programma DoppioZero. Non necessariamente lo si deve sopprimere per lasciar spazio ad altro. Semplicemente bisognerebbe essere più oculati ed affidare il progetto ad una regia più dinamica, alla Guy Ritchie per capirci, e trovare un attore protagonista che sappia differenziare una scena d’amore da un combattimento. Serve ritmo. Serve maggior attenzione al dettaglio e non parlo solo di un finestrino rotto che poi magicamente ritorna intanto in un’inquadratura successiva, cosa che comunque non si son fatti mancare! Parlo di scene d’amore soporifere, di inquadrature sempre troppo distanti e quindi troppo oggettive per appassionare. Parlo di traduzioni e/o pronunce sbagliate in maniera davvero grossolana che spero siano riusciti a sistemare in fase di doppiaggio. La molteplicità di location utilizzate, peraltro meravigliose (Città del Messico, Roma, Austria, Marocco e, naturalmente, Londra), e la presenza di attori di varia provenienza che hanno recitato nella propria lingua madre avrà anche reso quantomeno ostica la traduzione ma risulta un errore madornale non decidere la pronuncia del cognome di un personaggio: la sequenza di tentativi Sciarra-Schiara-Schiarra-Scarra, e il contemporaneo ritorno al cinema di Fantozzi in versione restaurata in 2k, richiamano alla memoria le risate per la famosa distorsione verbale Fantozzi-Fantocci-Bambocci-Pupazzi. La stessa situazione di disagio da Lost in translation la possiamo riscontrare per la confusione tra un “Topolino” pronunciato in italiano da Craig e un “Mickey Mouse” detto successivamente da una comparsa italiana. Altri errori di continuità danneggiano anche il finale. Una disfatta per la produzione associata di Metro-Goldwyn-Mayer e Columbia Pictures. E siamo davanti ad un altro cliché: la montagna che partorisce il topolino. O Mickey Mouse!