Colori opachi e ritmo compassato sono diventati inevitabili marchi di fabbrica per le trasposizioni cinematografiche dei romanzi di John LeCarré, e La Spia – A Most Wanted Man di Anton Corbijn segue infatti le orme de La Talpa di Tomas Alfredson raccontando una storia di spionaggio che mette al centro di tutto l’umanità dei suoi protagonisti. Nessun inseguimento rocambolesco e neanche un colpo di pistola sparato, il focus del racconto è tutt’altro. L’obiettivo di Corbijn è vicino ai suoi attori, decisamente ad altezza uomo, e non alza mai gli occhi su una Amburgo post 11/9 che fa da teatro alle vicende del film senza essere mai mostrata in campo lungo. Lo scenario si riduce ad una serie di quartieri non particolarmente caratteristici, con i palazzoni del potere che troneggiano sul porto ed un breve albeggiare sui tetti come uniche concessioni ad una città altrimenti ignorata a favore di un più interessante lavoro di caratterizzazione.
Mentre lo spettro dell’attentato alle torri gemelle incombe sul mondo intero, la lotta al terrorismo è una priorità e lo sbarco clandestino nel porto fluviale di Amburgo di Issa Karpov (interpretato da Grigory Dobrygin), un ragazzo per metà russo e per metà ceceno, non riesce a passare inosservato. Il suo arrivo è motivo di interesse e fermento per i servizi segreti non solo tedeschi ma anche americani, eternamente in lotta tra di loro per ottenere il prima possibile risultati tangibili da sbandierare al mondo. Ma tra le diverse sezioni di intelligence, quella guidata da Günther Bachmann (Philip Seymour Hoffman) si caratterizza per un approccio diametralmente opposto. Per quanto possa apparire brusco e trasandato in superficie, il personaggio interpretato da Hoffman è guidato da un indole più compassionevole. La sua strategia è quella di “usare un pesce piccolo per prendere un barracuda, e un barracuda per prendere uno squalo”, sfruttando le sue pedine umane come strumenti per raggiungere un obiettivo più lungimirante, che non si accontenta di schiacciare i pesci piccoli negli ingranaggi della legge.
Bachmann non dà la caccia alle persone, ma fa in modo di attirarle a lui con astuzia, mettendole di fronte ad una scelta obbligata e ad una collaborazione redditizia per entrambe le parti. Le sue buone intenzioni però rischiano, spesso e volentieri, di trasformare chiunque sia utile ad i suoi piani nella pedina inconsapevole di una complessa partita a scacchi, completamente priva di libertà di azione e di movimento. La vita di Issa, il clandestino senza patria sospettato dai servizi segreti di atti terroristici, dipende da Annabel Richter (Rachel McAdams), la giovane avvocatessa che si batte per i diritti degli immigrati, ed entrambi hanno affidato le loro sorti al banchiere Tommy Brue (Willem Dafoe), per riscuotere l’eredità del padre defunto e utilizzarla, secondo i piani che gli sono stati imposti, come trappola per topi per incastrare un accademico musulmano che sovvenziona il terrorismo attraverso donazioni fittizie ad una compagnia di navigazione con sede a Cipro. Ma in questo intricato gioco, le vittime degli eventi sono il vero e proprio fulcro del particolare tipo di tensione che cova questo film in cui l’interrogativo principale è cosa ne rimarrà delle loro vite ad esperienza conclusa. Esemplare il finale con un Hoffman in stato di grazia che suggella la sua performance con una sfuriata da brividi, viva, spontanea e catartica anche per lo spettatore
M.N.