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Sei ancora qui – I still see you, di Scott Speer

Sei ancora qui dimostra che una storia avvincente, filmicamente ben orchestrata, vale più di centinaia di minuti spesi per un prodotto in CGI con gli attori più in vista del momento a fare i fighi davanti ad un green screen.

Sei ancora qui è un thriller sovrannaturale basato sul romanzo young adult di Daniel Waters Break my heart 1000 times, finora inedito qui da noi; ma niente panico: dal 2 ottobre 2018 il libro sarà disponibile per l’acquisto con lo stesso titolo italiano del film di Scott Speer [Step Up Revolution, Il sole a mezzanotte – Midnight Sun], edito da Sperling & Kupfer, ormai la storica casa editrice di Stephen King e Dean Koontz, per citarne due a tema.

In seguito ad un incidente catastrofico, avvenuto in un laboratorio di ricerche di Chicago, gran parte della popolazione è morta ma non ha abbandonato definitivamente il suo posto.

«Una parte di loro è rimasta. Li chiamiamo “i redivivi”».

Non si tratta dei soliti zombie e nemmeno di ectoplasmi più o meno appiccicosi, né tantomeno di poltergeist che possano infestare i luoghi a cui sono in qualche modo legati. Si tratta invece di presenze, che sono state rese un po’ più materiche di un ologramma dalle particelle sprigionate dall’esplosione nell’atmosfera terrestre, e che, però, si dissolvono come una nuvola di fumo condensato non appena un vivo le sfiora.

«Quando muoriamo lasciamo dietro di noi come una scia. Queste scie sono delle tracce che ci possono condurre indietro per interagire con i vivi».

Una situazione paradossale in cui il bambino protagonista de Il sesto senso di Shayamalan non si sentirebbe di certo più a disagio: è un mondo in cui i morti camminano, mangiano, dormono – in una parola “vivono” – con i vivi.

In questo mondo distopico in cui le barriere tra vita terrena e aldilà hanno subito in qualche modo un cambiamento radicale, le anime sono bloccate in un piccolo loop: appaiono ai vivi in un episodio di routine quotidiana, come il residuo che rimaneva a volte sugli schermi tv catodici quando si spegneva, ma non interagiscono in alcun modo con loro.

Ognuno può continuare a vedere, perciò, i propri cari, ma non solo… Senza interagire, senza poter comunicare e senza che essi possano in alcun modo interferire con i sopravvissuti. Queste sembrano le regole non scritte che valgono per tutti. Tutti tranne uno, che sembra voler a tutti i costi comunicare qualcosa ad una ragazza: Veronica Calder, soprannominata Ronnie, diciassettenne inquieta che non ha mai elaborato il lutto che l’ha colpita, che ogni mattina fa colazione con il padre perso nel famoso Incidente e che tutti i giorni saluta la madre e passa oltre un vicino di casa anch’esso morto oppure, in sella alla sua bicicletta, passa letteralmente attraverso un’anziana che tutti i giorni alla stessa ora cammina in mezzo alla strada nello stesso punto.

Ma Ronnie oltre al compianto papà, e ai vicini, ora vede un’altra presenza in casa. Si tratta di un ragazzo a lei sconosciuto. Lo spirito che vuol comunicare con lei sembra avere uno scopo, una volontà che lo rende diverso dagli altri fantasmi; la segue ovunque, le appare ovunque, non solo nella sua routine residuale. Cosa le vorrà comunicare? Le sue intenzioni saranno meramente platoniche o terribilmente malvagie?

«Ho paura che voglia farmi del male».

Per scoprirlo Ronnie si farà aiutare da un ragazzo asociale ed emarginato come lei, Kirk – interpretato da Richard Harmon [Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo – Il ladro di fulmini, Judas Kiss, Adaline – L’eterna giovinezza], e dal suo insegnante di liceo, il professor Bittner – un convincente Dermot Mulroney [Il matrimonio del mio migliore amico, Insidious 3 – L’inizio, Truth – Il prezzo della verità].

 «Sai che qualcosa sta per accadere, vero?».

Ronnie è interpretata da Bella Thorne [La babysitter, Il sole a mezzanotte – Midnight Sun], che aveva già lavorato con il regista e la scelta di affidare a lei il ruolo della protagonista si è rivelata azzeccatissima: l’attrice sa essere convincente nella profonda tristezza che deve trasmettere al pubblico insieme alla frustrazione e al senso di colpa perché all’età di 9 anni ha perso davvero il padre e ha vissuto nascondendo nel profondo dell’animo gli stessi sentimenti del personaggio che è chiamata ad interpretare nel film. Il tocco in più quella parrucca nera che le conferisce un dark mood perenne, quasi voglia reprimere una evidente bellezza per autopunirsi.

I temi della perdita degli affetti e della pena autoinflitta, della presenza casuale a fronte di un’assenza forzata, dell’impossibilità di costruire legami terreni come di spezzare i vincoli con ciò che non c’è più assumono l’aspetto di una punizione estrema, potenzialmente infinita sia per i vivi sia per i morti. Come questo continuo trovarsi davanti il proprio oggetto dell’elaborazione del lutto non porti alla pazzia i personaggi lo sanno solo scrittore e sceneggiatore.

La reiterazione dell’episodio vitale dei cosiddetti “redivivi” congela una loro scena quotidiana come il cinema “immortala” una sequenza di fotogrammi. Un famoso critico dei Cahiers du cinéma, André Bazin, nel suo saggio Morte ogni pomeriggio, si scagliava contro chi spettacolarizzava la morte come fosse un atto superficiale e teorizzava un’origine psicanalitica di questa ossessione delle arti plastiche, e quindi anche del cinema, per la morte e la considerava legata ad un “complesso della mummia”: l’uomo avrebbe infatti il bisogno primordiale di difendersi dal tempo e il cinema assolve questa esigenza, perché “fissa artificialmente le apparenze carnali dell’essere” per “strapparlo al flusso della durata: ricondurlo alla vita”, realizzando il nostro inconscio desiderio di “rimpiazzare il mondo esterno con il suo doppio” e avere l’illusione di sconfiggere il tempo.

Oltre a tutte queste tematiche legate alla morte, in Sei ancora qui è presente un riferimento neanche troppo velato all’11 settembre. Forse anche più di uno, ma lascio che sia la sensibilità dello spettatore a cogliere questo genere di connessioni tra film e vita reale.

Al fine di ottenere il massimo impatto drammatico, in scene che dovevano esprimere anche epicità e mistero, sono stati adoperati gli obiettivi anamorfici Hawk, montati su una immancabile ARRI® Alexa, ed è stata fatta una scelta non si sa quanto dettata dall’economia, ma sicuramente ben giustificata dal regista: «non volevamo fare un film interamente in CGI – spiega Speer – volevamo un film drammatico portato avanti dalla recitazione dei protagonisti in cui ogni tanto potevano comparire degli effetti speciali» e per le sequenze in cui compaiono alcuni personaggi che poi spariscono nel nulla «giravamo l’intera sequenza e poi, con la mdp che ancora registrava, chiedevo all’attore che impersonava il fantasma di camminare fuori dall’inquadratura. La mdp così poteva riprendere tutto ciò che si trovava sullo sfondo. Dopodiché mandavamo tutto alla VFX Cloud di Vancouver. Quelle scene le abbiamo girate in digitale, ma avresti potuto farle anche 100 anni fa, perché fondamentalmente si tratta di una semplice doppia esposizione».

Curioso che dopo i passi in avanti delle tecniche CGI per avere effetti speciali strabilianti si torni indietro nel tempo alla sovraesposizione.  Ma non è il solo elemento vintage addicted molto evidente inserito dal regista, che ha reso palesi i suoi riferimenti cinematografici di genere: «Alfred Hitchcock è stato il mio punto di riferimento per quello che riguarda la messa in moto dei sentimenti di paura e per bilanciare al meglio la tensione tra le emozioni; c’è molto di Vertigo – La donna che visse due volte e alcune influenze di Psycho. Gli horror odierni sono ben fatti ma alla fine, per far spaventare davvero, mi sono dovuto ispirare alla vecchia scuola». Come dargli torto?

Molto lontano dall’essere un capolavoro da rivedere spesso, il Sei ancora qui di Scott Speer, grazie a tutta questa attenzione nei confronti della storia, dei sentimenti e del mistero, si segue volentieri e riesce nell’intento di suscitare qualche riflessione, magari non sul senso della vita ma sicuramente sull’ossessione: che sia per la morte, per la conoscenza o per la verità è un’ossessione che probabilmente avrà un seguito…

In molti si sono chiesti perché far uscire film e libro a settembre e non in un periodo horror-friendly o sfruttando il clima invernale da neve, dato che il film cerca dichiaratamente «quella sensazione di inverno permanente» che c’è in Se7en di David Fincher.
La scelta di far uscire il film di 27 settembre non convince ma è spiegabile con dei ragionamenti di marketing basilari: Sei ancora qui si svolge più che altro in ambiente e periodo scolastico; a settembre il ritorno tra i banchi di scuola spinge il target giovanile di riferimento verso un luogo di evasione che può essere il cinema; pur non essendo ben marcata è presente una venatura horror, ma non tale da propendere per il periodo di Halloween quando in un film si cerca qualcosa di meno profondo e più goliardico; in più, uscendo in sala ora, può puntare a fare cassa a febbraio con il mercato homevideo.
Tutto ha una spiegazione tranne la morte.

It: Capitolo uno, di Andrés Muschietti

Feroce, crudele, macabro e violento nella misura richiesta dal pubblico, apprezzato in ogni suo aspetto formale, l’It: Capitolo uno di Andrés Muschietti si eleva a capolavoro indiscutibile del genere horror adolescenziale. Il Pennywise che Bill Skarsgård [Allegiant, Atomica bionda] si è cucito addosso, ammalia e terrorizza con i suoi occhi penetranti e taglienti, con le sue movenze scattose e una verve che fa quasi impallidire il generoso Tim Curry che da solo, letteralmente da solo, salvava la ormai dimenticabile produzione televisiva degli anni ‘90.

Il Male innominabile, nascosto nel profondo di ogni comunità, per quanto piccola, e nel profondo del subconscio di ogni essere umano, per quanto coraggioso, si manifesta principalmente nelle sembianze di un clown che indossa un costume dal design molto ricercato e studiato nei minimi particolari. Per riassumere in un unico capo d’abbigliamento tutte le generazioni in cui It ha portato a termine il suo bisogno di sangue, la costumista Janie Bryant ha ideato una tuta sagomata che include contemporaneamente reminescenze medievali, rinascimentali, elisabettiane e vittoriane, con tanto di plissettatura fortuny che contribuisce a rendere ancora più barocco, e quindi enigmatico, per anacronia, tutto l’insieme.

Una sorta di “lasciate che i bambini vengano a me”, ma con un epilogo contrario al messaggio evangelico-cristiano. Pennywise rappresenta il baratro della paura più profonda, il buio denso dove ogni cosa può perdersi per sempre, persino la più pura delle innocenze. Il Male nel suo stato più beffardo: orditore di inganni, come il Diavolo delle leggende popolari. Una creatura mutaforma che vive del dolore e delle sofferenze altrui e si nutre di sangue innocente, non prima di averlo annegato nella paura più soffocante.

«Galleggerai quaggiù! Tutti galleggiamo quaggiù! Sì! Galleggiamo!»

A sorprendere piacevolmente, se così si può dire anche in un horror, sono anche le molte trasformazioni di It, ben bilanciate tra citazioni letterali del romanzo e nuove idee che scavano nell’immaginario collettivo. L’essere senza forma che vive nelle acque nere e che, come l’acqua per mostrarsi in forma tangibile assume le sembianze di qualsiasi recipiente che possa scatenare sgomento, la bestia che sopravvive nei secoli dei secoli grazie ad un tacito tributo di carne fresca, fornito da vittime innocenti, non è che la naturale evoluzione di un archetipo che ha origine nella notte dei tempi: non c’è bisogno di scomodare trattati di antropologia per riconoscervi la paura allo stato puro, quella che i primi uomini esorcizzavano disegnando nelle grotte, protetti dal fuoco. È scritto nel nostro stesso DNA. Basta solo che ciascuno di noi ricordi. Stephen King ha solo dato voce a quello che abbiamo vissuto, per diretta esperienza, figurata o reale che sia, e che torna virtualmente negli incubi notturni, quando siamo più fragili e indifesi. O nel buio di una sala, come ha fatto egregiamente Muschietti.

L’opera più corposa di Stephen King (1986) è diventata negli anni il prototipo di tutta una sequenza di storie, nella sua stessa bibliografia come in quella di altri scrittori e sceneggiatori successivi. Da Stand by me a Cuori in Atlantide, se si vuole rimanere tra le pagine kinghiane, da I Goonies al più vicino, per ordine di tempo e per le sue molte affinità, Stranger things, tutti hanno raccolto spunti a piene mani, imparando la lezione che una ricetta perfetta è il risultato di una successione di ingredienti ben ponderati e pesati.


Un pizzico di Goonies, una bella dose di Stand by me, tanto Nightmare on Elm Street e, per finire, una spolverata quanto basta di Stranger things e la ricetta per il successo del nuovo It è pronta, basta infornare in una grande sala buia, ben climatizzata e dall’audio avvolgente e aspettare solo che la storia faccia il suo corso. E che storia! Una rivisitazione della fiaba gotico-grottesca tipica dei Grimm con tanto di utilizzo del sottotesto allegorico: sono tantissime le allusioni ai rituali d’iniziazione, alla perdita dell’innocenza, alla crudeltà amorale dell’infanzia, ai patti di sangue e ai tributi e sacrifici ad una divinità latente. Ma se sono una presenza costante nel romanzo, non lo sono così tanto nel film, per non appesantirne troppo la fruizione, probabilmente. Alla luce di questo, per quanto sia entusiasta di It: Capitolo uno, rimango dell’opinione che, per mettere ben in evidenza questi interessanti aspetti nascosti del romanzo, la forma perfetta sia una serializzazione di più ampio respiro. Netflix, pensaci tu!

«Prenderò tutti voi e mi nutrirò della vostra carne come mi nutro delle vostre paure!»

Resta scritto negli annali, comunque, che il più famoso romanzo di King ha finalmente avuto il degnissimo adattamento che meritava, con buona pace dei fan più integralisti. La Warner Bros, dopo ben due defezioni che avrebbero potuto minarne alle fondamenta la progettazione, ha coraggiosamente affidato il film ad un regista emergente ed è stata ripagata davvero a peso d’oro. Andrés Muschietti, argentino di chiare origini italiane, aveva diretto in precedenza solo un altro film: La Madre, un horror-thriller ben giudicato dalla critica internazionale, che ha come protagonista la Jessica Chastain che, quasi sicuramente, interpreterà la Beverly adulta in It: Capitolo due.


Dopo l’enorme successo ottenuto da It: Capitolo uno, per Muschietti si vocifera già di un nuovo ambizioso progetto da tramutare in oro: la trasposizione live-action di Robotech, la risposta datata 1985 agli anime giapponesi della Tatsunoko, di genere sci-fi war, che ha per protagonista un’intera fanteria di giganteschi robot. Nell’attesa, analizziamo quello che è a tutti gli effetti da considerare il nuovo horror campione d’incassi della storia del cinema.

I sette “Perdenti” [“Losers” in originale, come si può notare dalla scritta sul gesso di Eddie] hanno ottimamente interpretato i loro ruoli coinvolgendo non poco un target molto ampio di spettatori. Jaeden Lieberher [Midnight special, St. Vincent] è BILL DENBROUGH, che non ha mai superato la scomparsa del fratellino Georgie, finita nelle fauci di It. Il chiacchierone dalle mille voci RICHIE TOZIER è interpretato da Finn Wolfhard [protagonista di Stranger Things], Jeremy Ray Taylor [42, Geostorm] è l’architetto in erba BEN HANSCOM; Jack Grazer [Tales of Halloween, e prossimamente Shazam!] invece è il cagionevole EDDIE KASPBRAK. A completare il cast Wyatt Oleff [Guardiani dellae Galassia] alias STANLEY URIS, Chosen Jacobs, ossia MIKE HANLON, e Sophia Lillis, attrice estremamente fotogenica che sembra già di un altro pianeta mentre interpreta il personaggio di BEVERLY MARSH, e ha ancora solo 15 anni.

Al momento non è stata annunciata ufficialmente la lista completa degli attori chiamati ad interpretare i teenager ormai divenuti adulti in It: Capitolo due. Vi terremo aggiornati!

Microbo & Gasolina, di Michel Gondry

«Every great idea is on the verge of being stupid».

Microbe et Gasoil, il nuovo film di Michel Gondry, è stato presentato a Roma al Rendez-Vous Festival del cinema francese il 7 aprile e sarà nelle sale ufficialmente a partire dal 5 maggio con il titolo Microbo & Gasolina. Inizialmente, dopo Mood Indigo – La schiuma dei giorni, il regista avrebbe voluto adattare per il grande schermo un altro romanzo surreale, il famosissimo Ubik di Philip K. Dick, ma poi ha deciso di proporre un film molto più personale accettando il consiglio di Audrey Tautou che, nel nuovo film, è presente nella inedita veste di madre in crisi matrimoniale ed esistenziale.

Due ragazzi di Versailles, Daniel e Theo, viaggiano tra Île-de-France e il massiccio del Morvan, attraversando la Borgogna in un’avventura on the road che è anche percorso interiore di crescita, a bordo della loro casa su ruote. No, non una roulotte o un camper. Non è che non mi veniva in mente il termine appropriato: è che si tratta proprio di un capanno degli attrezzi in legno montato su quattro ruote, una rete matrimoniale e un motore a due tempi di un tosaerba.

Microbo & Gasolina è, di base, una commedia adolescenziale ma, com’era lecito aspettarsi da un genio del cinema come Gondry, fin dalle prime scene di setting, lo spettatore si trova di fronte ad un film comunque sui generis, che contamina road movie, buddy movie, romanzo di formazione, comicità ed espressionismo, senza trascendere mai una solidissima base realistica, uno dei capisaldi della poetica del regista insieme all’inserimento di elementi autobiografici disseminati ad arte.

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Protagonista e alter ego del regista è Daniel [Ange Dargent], soprannominato “Microbo”dai compagni di scuola per la sua costituzione fisica. L’incompletezza di Daniel è evidente fin da subito e non gli è di certo d’aiuto vedere i suoi genitori in crisi e doversi rapportare con un fratello maggiore musicista, anch’egli in crisi d’identità. Di conseguenza tende ad isolarsi e a perdersi in riflessioni esistenziali più grandi di lui, quando non è rapito dalla sua passione più grande, il disegno, per cui dimostra un talento innato: si dice che uno dei termini di paragone per misurare le effettive capacità di un disegnatore sia l’abilità nel disegnare tutte e cinque le dita della mano… beh, Daniel, se si distrae ne riesce ad aggiungere una addirittura! Inoltre, la sua straordinaria facilità di disegnare a mano libera gli permette di risparmiare sulle riviste “sporcellose”: può praticare l’autoerotismo con disegni creati di suo pugno, per un “fatto a mano” fino in fondo. Elementi goliardici a parte, attraverso Microbo, Gondry torna e fa tornare giovani, fa rivivere le emozioni delle prime cotte, dei disagi con il proprio corpo e nella comunicazione con gli altri, dai quali si vorrebbe essere accettati e compresi e non giudicati e condannati. In questo contesto di vulnerabilità dei quattordici anni riesce a far sognare, divertire e, infine, anche riflettere.

Nel momento di maggior sconforto, proprio quando riflette con la madre sul senso della vita, della morte e della presenza di un qualcosa di ultraterreno, nella classe di Daniel, nel bel mezzo dell’anno scolastico, giunge Theo, nome non scelto a caso probabilmente, come un deus ex machina e da allora Microbo avrà qualcuno su cui contare, con cui condividere disagi, ansie, paure e svaghi, con cui confidarsi senza essere giudicato, con cui costruire la propria identità indipendente.

«Non ti preoccupare! Tutti facciamo cose strane».

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Theo [Théophile Baquet] è un ragazzo più scafato, dalla battuta sempre pronta e pieno di inventiva, la cui passione per la meccanica e i motori gli procura subito il nomignolo di “Gasolina”. Più saggio di Microbo, Theo reagisce con maturità ad ogni situazione, anche le più spiacevoli, inanellando tutta una serie di massime che possono assurgere ad insegnamenti di vita per un qualsiasi adolescente: «I bulli di oggi sono le vittime di domani!». Finalmente Daniel si sente incoraggiato, compreso e stimolato. Theo lo chiama anche con un nuovo soprannome di natura positiva: “gouache” (= guazzo), la tecnica di pittura adoperata dal ragazzo per la sua mostra personale. Insieme i due ragazzi si completano e possono affrontare un mondo all’apparenza ostile in modo sano, senza trascinarsi in un paese dei balocchi o nella perdizione come Pinocchio e Lucignolo, ma piuttosto avventurandosi in situazioni rocambolesche come una qualsiasi strana coppia del fumetto francese, primo fra tutti Spirou e Fantasio, forse richiamati anche nel titolo.

Sentimenti come amore, amicizia, rapporti familiari, conoscenze in Microbo & Gasolina hanno la rilevanza che può avere un tappeto musicale. La melodia dell’adolescenza è in continuo divenire, distratta da tutto ciò che può attirare la sua curiosità attiva. Ma, di fatto, è un assolo che si armonizzerà solo col tempo e con le esperienze brutte (Inside out docet!), belle o avventurose (L’estate di Kikujiro, La ricompensa del gatto, Tutti vogliono qualcosa) che siano.

Quella raccontata da Gondry è una sinfonia a due, divertente e spigliata, senza troppi fronzoli, con due personaggi che si completano e si aiutano a vicenda nel comune intento di superare un percorso impervio e faticoso da gestire in solitaria.

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Se la bici modificata, l’automobile e il taglio di capelli handmade possono esprimere il desiderio dei protagonisti di esprimersi e distinguersi, la casa viaggiante diventa metafora di libertà e di redenzione: gli elementi che la compongono sono riconducibili ai luoghi sociali dai quali i ragazzi si sentono distanti ed emarginati, famiglia in primis, e provengono dal posto in cui si sentono maggiormente a loro agio, la discarica. Ed ecco la redenzione: i due rifiuti della piccola società scolastica prendono ciò che la società dei consumi ha scartato e creano qualcosa che li faccia evadere da una realtà che sentono asfissiante, incomprensibile e allo stesso tempo ingiusta nei loro confronti al punto da non lasciare spazio per esprimersi nella propria diversità. Il tentativo di omologazione del veicolo creato rappresenta in parallelo il tentativo di omologazione sociale rincorsa da Daniel e sempre rifiutata da Theo, così i due protagonisti incarnano le caratteristiche di Gondry uomo, diviso tra le sue antiche passioni per il disegno, la scenografia, la fantascienza e la meccanica retro, e del Gondry regista, legato indissolubilmente al suo cinema, che stupisce con realtà tangibili farcite di surreali trovate che sanno dare «un calcio al futuro» attraverso un ritorno al passato. Non a caso i film preferiti del regista sono Ritorno al futuro e Le voyage en ballon.

Nell’estetica visionaria di Gondry sappiamo che la scenografia ha la supremazia sugli effetti digitali fin dai primi videoclip e spot pubblicitari fino alle opere più recenti. In questo nuovo film piacevole, divertente e colorato, il regista de L’arte del sogno torna alle origini e così compie un’opera di bricolage mettendo insieme due caratteri complementari in una sceneggiatura perfetta e mai scontata, dove il genio narrativo va di pari passo con quanto creato artigianalmente sul set con assi di legno, viti e cartone: dalla bicicletta-consolle di Gasolina, fino alla casa-automobile, ogni cosa è profondamente reale, concreta e tangibile così come il contesto della storia e i desideri dei protagonisti. Non vi è una macchina del tempo fisicamente nel racconto filmico, magari progettata con nuvole di cartone ed ingranaggi di orologi antichi, ma è la sceneggiatura, stavolta più che in altre occasioni, a riportare il nostro calendario interiore indietro fino a sentire sulla nostra stessa pelle il ribollire del sangue di quegli anni, ad ogni rospo ingoiato per colpa di bulli rimasti impuniti, di professori frustrati e genitori in crisi. Attingendo a piene da quella fonte dell’eterna giovinezza, che è il mondo dell’infanzia cinematografica, Gondry consegna allo spettatore dei personaggi timidi o disillusi, ma comunque chiusi in sé stessi, che insieme, gradualmente, come in una terapia, si esprimono attraverso lo schermo, con tutti i loro sogni e i loro desideri, fornendo contemporaneamente uno spaccato del nostro tempo e riproponendo una delle tematiche più care alla poetica di Gondry: la difficoltà nella comunicazione interpersonale.

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Anche la musica scelta, di Jean-Claude Vannier, contribuisce a fornire alla pellicola un’atmosfera retrò

«Ero alla ricerca di un compositore. Una notte, ho sognato Charlotte Gainsbourg. Quando mi sono svegliato, mi è venuta in mente una canzone di sua madre [Jane Birkin], “Di Doo Dah”, con quel semplice ritmo di basso, quel tremolo picking di chitarra… e sapevo che si trattava di Jean-Claude Vannier. Ha organizzato molte delle canzoni della Gainsbourg, tra cui l’album Melody Nelson. Ha anche fatto belle canzoni come Super Nana, Michel Jonasz. L’ho contattato, gli ho mostrato il film, ha immediatamente accettato».

Una curiosità per appassionati: Étienne Charry, che nel film interpreta l’organizzatore del concorso di disegno, ha invece composto la musica di Mood Indigo – La schiuma dei giorni.

Microbo & Gasolina è la dimostrazione che si può sopravvivere a quel difficile periodo della vita in cui i punti di riferimento iniziano a vacillare perché non si è più bambini ma non si è nemmeno ancora adulti, senza perdere una propria identità indipendente, non omologata alla massa, e senza dimenticarsi che ci si può divertire e crescere contemporaneamente.

«I ragazzi non sono responsabili della felicità degli adulti».

Dammi la mano, di Simona Binni

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Sentirò la tua mancanza Jonathan.
Che dici mai? Sully, vergogna!
Se la nostra amicizia dipendesse da cose come lo spazio e il tempo, allora, una volta superati spazio e tempo, noi avremmo anche distrutto questo nostro sodalizio! Non ti pare? Ma se superi il tempo e lo spazio, non vi sarà nient’altro che l’adesso e il qui, il qui e l’adesso.

L’incipit tratto dal famoso libro di Richard Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston lascia intendere che Dammi la mano, il ventideusimo numero della collana Tipitondi di Tunuè, disegnato da Simona Binni e colorato da Marcello Iozzoli, non è indirizzato esclusivamente al target di riferimento dei titoli presenti nella collana. In quarta di copertina troviamo, infatti, la dicitura 8-99 anni: una storia che ha da raccontare e da ispirare lettori di ogni età, facendo leva su diverse emozioni ma rimanendo analogamente colpiti dal racconto.

In Dammi la mano Jonathan e Maya sono due ragazzini che frequentano la stessa classe. Entrambi provengono da contesti familiari difficili e a scuola sono spesso soggetti a richiami disciplinari, tanto che dopo una lite particolarmente accesa vengono convocati in presidenza. Il professor Dante ha in serbo per loro una punizione a dir poco inconsueta: pulire e riverniciare un vecchio aereo donato dal sindaco alla scuola. Ogni giorno, dopo la scuola, dovranno incontrarsi fin quando il lavoro non sarà terminato. I ragazzi, costretti a lavorare insieme, inizieranno a conoscersi meglio. Sebbene all’inizio i due non riescano a trovare alcun punto di incontro e ogni pomeriggio si configuri come un’indicibile tiortura, pian piano capiranno di non essere poi così tanto diversi: la vita a cui il destino li ha costretti risuona della stessa musica dolorosa e insieme riescono a dar voce a una melodia armonica e, per la prima volta, gioiosa.

Attraverso il continuo progredire del rapporto, sempre più intimo, di intesa e amicizia tra la coppia di protagonisti, l’autrice esamina il difficile periodo di transizione preadolescenziale; periodo qui scandito dalle strofe di alcune canzoni di De André, dei Subsonica e degli Oasis. Un passaggio non sempre semplice, irto di difficoltà psicologiche e di evoluzioni fisiche. Un insieme di gioie e paure che Gianluca e Maya superano sostenendosi e incoraggiandosi, dandosi “letteralmente” la mano. L’incontro di queste due solitudini permette alla Binni di mostrare uno spaccato non sempre felice della famiglia italiana, dove il “mestiere” di genitore si scontra con la dura realtà quotidiana fatta di lavoro e crisi personali.

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Dammi la mano conferma la bravura di questa autrice, già uscita per i tipi Tunuè con lo splendido graphic novel “siculo” Amina e il vulcano, che riesce a creare un racconto dalla struttura semplice ma convincente, disegnato con il consueto stile grafico, in cui le teste enormi dei protagonisti fanno da contraltare alla fragilità dei loro corpi. Un racconto dall’inizio dolce e malinconico, che lascia poi il posto a un futuro di speranza e di sogni da provare a realizzare, come mostrato nel commovente finale. Di questa dolcezza tutti abbiamo bisogno: i giovani lettori per guardare al futuro con serenità; i lettori più adulti per ricordare, tra le difficoltà del quotidiano, che la vita ha sempre sorprese inaspettate e felici da riservare.