Alì Abbasi

Berlinale 66 – Shelley, di Alì Abbasi

Nel ventre oscuro della foresta danese una giovane coppia vive seguendo il ritmo della natura, senza energia elettrica e acqua corrente, facendo il bagno nel lago e nutrendosi dei prodotti dell’orto. In questa piccola casa di legno il tempo sembra essersi fermato a un passato in cui si passavano le giornate lavorando nei campi, per poi scaldarsi accanto al fuoco con un buon libro, e gli sciamani curavano i mali allontanando le energie negative dal corpo. Sembra che nulla possa turbare la felicità di questo microcosmo bucolico, eccetto il fatto che Louise e Kasper desiderano ardentemente un bambino e non possono averlo.

Per realizzare il loro sogno, chiedono a una ragazza romena che li aiuta nei lavori di casa di utilizzare il suo corpo per partorire il bambino, in cambio potrà avere tutti i soldi che le servono per tornare a casa da sua madre e andare a vivere con suo figlio. Elena accetta volentieri, ma dal momento in cui questa nuova vita entra dentro di lei il suo corpo inizia a cambiare, la pelle del viso si spacca come terra al sole e l’acqua le brucia addosso come se fosse incandescente. Una creatura inumana sta crescendo dentro di lei, che le ruba il sonno per lasciarla in preda a visioni spaventose e che ogni notte la fa vagare per i boschi per soddisfare la sua sete di sangue.

L’eco di Rosmary’s Baby è forte ma la pellicola di Abbasi non vuole citare in alcun modo ciò che è stato già fatto magistralmente da altri, ma creare qualcosa di nuovo in una casa in riva al lago, nascosta dagli alberi e dal mondo. L’atmosfera oscura è tutto ciò di cui è fatto Shelley, il sangue, le visioni il rapporto ossessivo con il corpo femminile: questo è il suo orrore. Il male non si palesa, ma si respira. Non ci sono demoni, sette, o fantasmi sotto i letti, ma soltanto la percezione che un’energia malvagia sta divorando il corpo di Elena dall’interno, infestando i boschi e i pensieri di tutti coloro che le si avvicinano. Nel non detto Abbasi trova la sua espressività, nella straordinaria capacità di evocare l’orrore senza mostrarlo, portando anche lo spettatore a perdersi nell’oscurità di quei boschi in preda alle visioni, sentendo sul collo per tutto il tempo l’alito di una presenza malvagia.