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A Quiet Place – Un posto tranquillo, di John Krasinski

Quando si dice “iniziare in media res”, ossia nel bel mezzo del racconto, senza introduzioni e preamboli-spiegoni noiosissimi, ma gettando subito lo spettatore nel vivo della suspense da slasher horror moderno, s’intende proprio questo tipo di film che ha un incipit giocato sulle inquadrature ravvicinate, e soprattutto di dettaglio, e sulle soggettive sonore che, dato il tema trattato, diventato un leit motiv indispensabile per creare quel clima di angoscia e terrore che un silenzio forzato, la cui pena sarebbe la morte certa.

Nel 2020, la popolazione della Terra è stata quasi completamente sterminata da una razza aliena giunta da non si sa dove, come e quando. I mostri – ibridi tra il Saturno dipinto da Francisco Goya, gli Xenomorfi parassiti di Alien e il collaudato Demogorgone di Stranger Things – sono completamente ciechi, ma dotati di un udito sensibilissimo e divorano qualsiasi cosa produca il seppur minimo rumore. Gli Abbott, una famiglia composta da madre, padre e tre figli, sembrano gli unici superstiti umani al mondo. Cercano di sopravvivere in una fattoria isolata, nel più completo silenzio, comunicando solo con il linguaggio dei segni.

Se questa loro competenza è giustificata dal fatto che la figlia maggiore è sorda, nulla spiega in maniera soddisfacente la presenza dei mostri e la loro fame incontrollata, irrispettosa delle regole di equilibrio biologico: si tratta di creature fameliche tanto veloci quanto spietate, che non hanno nessuna intenzione di lasciare in giro qualche essere vivente per non rischiare di morire di inedia. Sopravvivere dignitosamente si può a vedere gli Abbott. Basta non emettere mai alcun suono, ma … ci riusciranno?

A quiet place – Un posto tranquillo è un horror particolare che, nonostante la sua semplicità strutturale e formale, sa far trattenere il fiato dall’inizio alla fine. Essendo abituati all’ecatombe che possono produrre creature come gli Xenomorfi di Alien, potrebbe essere di notevole aiuto non porsi troppe domande, altrimenti il labile patto di sospensione dell’incredulità, che è alla base del film, decadrebbe come un castello di carte davanti ad un ventilatore (non domandatevi, nemmeno quando i personaggi ve lo sbatteranno in faccia, perché non rifugiarsi in un luogo come una cascata, dove il rumore assordante permetterebbe di parlare liberamente passandola sempre liscia). Se non ci si ferma troppo a pensare, la calamita funziona e lo spettatore si ritrova attratto al centro della scena a tremare o a tramare per la sorte dei protagonisti, a seconda che si parteggi per le vittime o per i carnefici, come spesso accade ai fan degli horror.

La sceneggiatura di Bryan Woods e Scott Beck, inizialmente pensata per aderire al franchise di Cloverfield, contiene una sola linea di dialogo, il film ne presenta un paio in più. Questa carenza di comunicazione verbale non deve far pensare ad un’attenzione minore nella recitazione: John Krasinski, in A quiet place – Un posto tranquillo al suo debutto da regista, nasce come attore [Qualcosa di straordinario, Licenza di matrimonio] e ha fatto della comunicazione visiva, della mimica facciale e della gestualità teatrale uno dei punti di forza della pellicola, curando nei minimi particolari la colonna sonora e il montaggio sonoro, nonché la recitazione del cast, scritturando persino un’attrice realmente sorda, la bravissima Millicent Simmonds [La stanza delle meraviglie], per la parte della figlia maggiore. L’attore-regista, per questo suo esordio, ha completato il cast scegliendo Emily Blunt [I guardiani del destino, Edge of Tomorrow – Senza domani, Il ritorno di Mary Poppins], sua moglie nel film e nella vita reale, Noah Jupe, il protagonista eccezionale di Wonder, e Cade Woodward alla sua prima fugace apparizione cinematografica.

Negli Stati Uniti A quiet place – Un posto tranquillo è stato vietato ai minori di 13 anni non accompagnati da adulti per via della quantità di sangue e di terrore, mentre in Italia è vietata ai minori di 14 anni.

Aliens 30° Anniversario, di Mark Verheiden e Mark A. Nelson

SaldaPress cavalca il rinnovato interesse del pubblico per la saga di Alien e degli xenomorfi con un ampio ventaglio di fumetti abbastanza liberamente ispirati alle vicende narrate per immagini in movimento da Ridley Scott & company:

Aliens : la serie regina in cui vari disegnatori si alternano per schizzare di terrore visionario le storie sempre scritte da Brian Wood;

Fire & Stone : in contemporanea con l’arrivo nei cinema del film Alien: Covenant, una serie-evento in 5 volumi, che coinvolge in un’unica emozionante storia tutte le properties legate all’Alien Universe: Xenomorfi, Ingegneri, Predators:

  1. Prometheus Fire & Stone,
  2. Aliens Fire & Stone
  3. Predator Fire & Stone,
  4. Alien vs. Predator Fire & Stone,
  5. Prometheus: Omega Fire & Stone

Ma è su un prodotto celebrativo che vogliamo porre maggiore attenzione in questa occasione:

 

ALIENS

30° anniversario

 

Si tratta di un volume celebrativo, unico non solo perché presenta una storia autoconclusiva, la raccolta completa della prima miniserie Aliens, ma anche per alcune peculiarità editoriali che lo rendono apprezzabile al 100% solo nella sua forma cartacea: un’accattivante copertina nera lucida su cui campeggia ovviamente il vero protagonista, lo xenomorfo, apprezzabile anche a livello tattile grazie ad una texture in rilievo dello xenomorfo sul granitico cartonato nero, e a perfezionare il tutto il bordo esterno delle pagine rigorosamente nero, una finezza per veri intenditori, in conformità con l’edizione originale americana.

Il disegno di Aliens 30° anniversario è ovviamente un po’ retro, e non poteva essere altrimenti vista la data della prima pubblicazione Dark Horse che risale al 1988, in occasione della realizzazione del terzo film.

«Verso la fine del 1987, ero al telefono con Mike e, a un certo punto, lui sganciò la bomba che la Dark Horse avrebbe realizzato i fumetti di Aliens. Non si trattava di un adattamento del film, ma di nuove storie derivate dal secondo film. E serviva uno sceneggiatore». Chi pronuncia queste parole è proprio Mark Verheiden lo sceneggiatore-produttore che ha dato vita ai mondi di The Mask, Timecop, Battlestar Galactica, Falling Skies e Daredevil, ora alle prese con la serie tv che dovrebbe risarcire il pubblico dalla deludente trasposizione cinematografica de La Torre Nera.

«Adoravo Aliens! – prosegue Verheiden – Il primo Alien era stato superbo, un film horror dalla vena stupendamente dark. L’Aliens di James Cameron, però, aveva l’azione, l’horror e la passione messi tutti insieme all’interno di un prodotto spettacolare. Poter lavorare con un universo tanto mitico senza le limitazioni dettate dal budget era la realizzazione di un sogno. E, quando Mark Nelson fu scelto per disegnare il progetto, ogni pezzo del puzzle andò al suo posto. Mark realizzava i disegni in bianco e nero utilizzando l’ormai introvabile carta a reazione chimica Duoshade: l’abilità stava nel far emergere dal cartoncino i retini incorporati, stendendo con il pennello un apposito reagente.

I disegni di Mark erano straordinari, incredibilmente dettagliati e carichi di atmosfera. Perciò, quando decisi di evidenziare l’aspetto horror del mondo di Alien, sapevo che lui era la persona giusta e che non avrebbe tradito le mie aspettative. E già che è il momento dei complimenti, tanto di cappello a Willie Schubert, letterista infaticabile; Willie ha fatto un lavoro superlativo con tutte le narrazioni in prima persona che si incrociano nella storia
».

Un bianco e nero fortemente contrastato e una cura massima del dettagli nei momenti cruciali di contatto fra umani e xenomorfi sono i punti forti del fumetto. I testi, molto ben curati, senza mai scadere nel banale, suscitano emozioni che vengono costantemente dinamizzate da un montaggio eccentrico delle vignette.

Una nutrita appendice grafica di eccezionale pregio presenta tavole a tutta pagina che svolgono la funzione di visual credits: tutti i realizzatori dell’opera sono disegnati nei panni di vittime nella catena alimentare degli xenomorfi.

La storia, sebbene oggi possa apparire un po’ inflazionata, è in linea con gli standard dell’epoca: un buon numero di scene di terrore puro, innestate in un mood di estremo delirio, sospeso fra incubi e realtà e tipico di personalità dissociate per via delle conseguenze di un’aggressione mostruosamente aliena: se il mostro non ti divora dall’esterno, sarà la paura di rincontrarlo a divorarti dall’interno!

Per quanto riguarda i personaggi, invece, gli autori hanno dovuto combattere con assenze pesanti e limitazioni che hanno reso il loro lavoro non solo più arduo ma anche frustrante perché questo volume unico risulterà sempre slegato dalla linea narrativa che la saga cinematografica ha intrapreso successivamente. Nella prefazione Verheiden lo spiega chiaramente:

«Quando venne il momento di definire la trama, ricordo di aver ricevuto ben poche direttive. Una era “vogliamo vedere le creature aliene sulla Terra.” Due: nel fumetto devono essere presenti i personaggi di Newt e Hicks”. La terza fu l’unica dettata da motivazioni legate all’aspetto commerciale: non potevamo usare il personaggio di Ripley (divieto che fu revocato in occasione della terza serie Aliens: Earth War).

Era il momento di creare la storia. Volevo esplorare un futuro high-tech e distopico insieme, dove religione, affari e tecnologia entravano in conflitto con le creature aliene, con i nostri disgraziati personaggi che ci finivano in mezzo. Non ci voleva molto a immaginare che le esperienze di Newt con gli xenomorfi su LV-426 avessero lasciato segni profondi nella sua mente o che Hicks, con metà faccia bruciata dall’acido, fosse evitato dai suoi commilitoni come un paria. Un’altra cosa che mi intrigava dei due film erano gli androidi, Ash e Bishop. Sentivo che c’era molto da scavare nell’esistenza di una vita artificiale senziente.

A parte questo, dovevo muovermi con grande attenzione nel fare ipotesi su alcuni aspetti su cui poggia la mitologia del film Aliens. Per esempio sulla vera identità dello “space jockey”. Ho analizzato sia il film che gli scatti del set, ma non avrei mai immaginato che la “faccia” elefantiaca della creatura fosse, come si vede nel film Prometheus del 2012, una maschera d’ossigeno per un pilota umanoide. L’unica analogia tra i miei “space jockey” alieni e gli Ingegneri umanoidi di Prometheus è che entrambi ce l’hanno a morte con gli xenomorfi. Be’, almeno su quello ci siamo trovati.

L’altra ipotesi che facemmo tutti fu che Newt e Hicks fossero sopravvissuti al post-Aliens, ma i titoli di testa di Alien3 mi tolsero rapidamente ogni illusione in proposito. Mi hanno chiesto in molti come mi è sembrato Alien3 e, a essere sinceri, sono combattuto. Perdere Newt e Hicks nella sequenza di apertura del film è stato un vero e proprio schiaffo ai fan che si erano affezionati a quei personaggi. Però, d’altra parte, dopo aver lavorato un po’ nel cinema e nella televisione, mi sento quasi di ammirare l’audacia del film nel provocare “l’attesa dell’inatteso”. Ma, in ogni caso, ammetto che mi ha egoisticamente infastidito che, con Alien3, le mie storie non rientrassero più nel canone ufficiale».

Aliens 30° anniversario è arricchito dai bozzetti, le cover e i frontespizi messi a punto per la prima edizione, da prefazione e postfazione entrambe molto appassionate e dalla storia breve Aliens: Fortunato, tutti elementi succulenti da aggiungere alle già decantate tavole in appendice e texture di copertina, che sono già di per sé lo spettacolo per cui val la pena di pagare il prezzo del “biglietto”. Chi sceglierà una versione digitale sa ora cosa si perde! Al vero fan poco importa se il prodotto non è d’avanguardia. In fondo Alien ci piace così: un’avventura horror sci-fi con quel suo gusto vintage inconfondibile e… rassicurante, mi si passi il termine per esprimere l’abitudine spettatoriale dei più nostalgici, mentre per tutto il resto del pubblico permane l’eco impossibile di quelle affascinanti urla di terrore dissipate nello spazio profondo.

«I personaggi che amate ci sono, lo spirito, il tono e la struttura del mondo anche. Le differenze sono abbastanza sottili da tenervi sulle spine permettendovi di godervi questa corsa sulle montagne russe proprio come la prima volta che avete avuto il coraggio di entrare nel labirinto […] E adesso vi invito a entrate nel nostro parco giochi verso nuove avventure, nuove prospettive, nuove interpretazioni, nuovi sviluppi e svolte impreviste. Familiari ma allo stesso tempo diverse. Venite, e godetevi la corsa».

Valerian e la città dei mille pianeti, di Luc Besson

Sono stati necessari più di dieci anni di lavorazione per realizzarlo, ma Valerian e la città dei mille pianeti, non tradisce le aspettative, neanche quelle del suo fan più esigente: il regista stesso. Sì, perché il nuovo film di Luc Besson, adattamento cinematografico della serie sci-fi a fumetti Valérian et Laureline, ideata dallo scrittore Pierre Christin e illustrata dal disegnatore Jean-Claude Mézières, è stato progettato per far conoscere al grande pubblico un’opera in 22 volumi che dal 1967 al 2010 ha ispirato e continua a influenzare la narrativa di fantascienza di ogni settore.

«Siediti, rilassati e goditi lo spettacolo»

2174. il maggiore Valerian ed il sergente Laureline sono due agenti speciali incaricati di mantenere l’ordine nell’universo. I migliori. L’uno [Dane DeHaan; Chronicle, La cura del benessere] è un soldato valoroso, anche se un po’ approssimativo e svogliato quando si tratta di procedure e regole d’ingaggio, libertino in amore, ha paura solo d’impegnarsi sentimentalmente, cosa che, ovviamente, non è gradita alla sua partner, con la quale ha in piedi una relazione. L’altra [Cara Delevingne; Suicide Squad, Città di carta] è una stratega eccezionale dal temperamento burrascoso, ligia al dovere e ben ferma nelle proprie convinzioni. Il loro rapporto non è, però, la trama principale del film. La loro missione è recuperare un oggetto preziosissimo, l’ultimo trasmutatore esistente, e consegnarlo al comandante Arün Filitt [Clive Owen, Inside man, I figli degli uomini] sulla stazione orbitante Alpha. Scesi dall’Intruder, la loro astronave-factotum, s’imbattono, però, in un difficile intrigo che ha a che fare con una minacciosa Red Zone che, dal nucleo di Alpha, si allarga come un tumore destinato a distruggere la stazione stessa e tutto ciò che essa rappresenti per l’intero universo.

«Chi sapeva è stato ucciso».

Conosciuta come “la città dei mille pianeti”, Alpha è una megalopoli in continua espansione, in cui vivono migliaia di specie provenienti da galassie diverse, anche distrutte dal tempo o dalle guerre. È un vero e proprio cluster intergalattico la cui silente storia è tracciata durante i titoli di testa, accompagnati “soltanto” dal brano Space oddity di David Bowie, che rappresenta non solo un sentito omaggio al camaleontico cantautore britannico e ai suoi futuristici alter ego, ma anche un forte intento di caratterizzazione della stazione orbitante come punto di riferimento privilegiato per ogni pioniere dello spazio e come simbolo supremo di condivisione, unità, fratellanza e pace tra popoli. Questo incipit, molto curato sotto ogni punto di vista, ha la particolarità tecnica di abbinare le immagini del passato con l’aspect ratio tipica dell’epoca (immagini di repertorio in 4:3 per la storica sequenza dell’incontro fra la navicella americana Apollo e la sovietica Soyuz nel 1975; formato 16:9 per la sequenza a episodi che parte dal 2020; fullscreen quando si arriva al 2150).


Il messaggio stesso che è alla base di Valerian e la città dei mille pianeti è veicolato da Alpha che «raccoglie tutta la conoscenza dell’universo – spiega Besson – c’è Wall Street, la Città della Scienza, le Nazioni Unite, Broadway. C’è tutto. E questo la rende il luogo più importante dell’intero universo, dove tutte le razze s’incontrano, portano conoscenza e condividono culture da ogni parte, ma soprattutto hanno imparato a convivere. Se alcuni credono che sia complicato vivere accanto a cinesi o afroamericani, che ne penseranno dei miei alieni? Un proverbio che amo dice “puoi scuotere un albero quanto vuoi, se il frutto non è maturo non cadrà”. Quello che possiamo fare noi artisti è inserire idee qua e là, sta poi al pubblico coglierle. Con i miei cinque figli mi comporto nello stesso modo, cerco di stimolare la loro ricettività».

Insomma, per Besson vale lo stesso concetto che muove i personaggi di Inception di Christopher Nolan: piantare semi di idee nel subconscio dello spettatore stimolando la sua ricettività in maniera implicita. E questa non è l’unica analogia possibile tra i due autori. Entrambi, infatti, lavorano meticolosamente ad un film anche per moltissimo tempo, soprattutto in fase di preproduzione e amano circondarsi di una crew ampiamente collaudata e affiatata, “famigliare” se consideriamo che per loro le figure di moglie e produttrice coincidono perfettamente. Oltre a lei, Virginie Besson-Silla [Lucy, Revolver], Besson si è avvalso di un team di collaboratori storici come il direttore della fotografia Thierry Arbogast [Lucy, Il quinto elemento], il compositore premio Oscar® Alexandre Desplat [Grand Budapest Hotel, The imitation game], lo scenografo Hugues Tissandier [Lucy, Taken], il montatore Julien Rey [Lucy, Cose nostre – Malavita], il costumista Olivier Bériot [Lucy, Taken] e il supervisore degli effetti speciali visivi, il premio Oscar® Scott Stokdyk [gli Spider-man di Sam Raimi, Il grande e potente Oz, La quinta onda].

«Visivamente è un film mozzafiato – ha dichiarato Cara Delevingne – il pubblico sarà travolto da tutti i personaggi che vede. La quantità di sforzi che sono stati compiuti in ogni singolo aspetto – i costumi, il design, l’arte – hanno dato vita a un film incredibile».

Rispetto ai film precedenti Valerian e la città dei mille pianeti è un progetto molto più personale per Luc Besson, tanto da volerlo dedicare al padre, venuto a mancare durante il periodo di lavorazione: «perché è lui che mi ha dato il fumetto a dieci anni». L’idea di trarre un film dal fumetto Valérian et Laureline è nata fin dai tempi della collaborazione tra il regista e uno dei suoi autori, Jean-Claude Mézières, per la realizzazione del mondo visionario in cui si svolge l’azione de Il quinto elemento.

Per poter ideare le migliaia di specie aliene diverse necessarie per Valerian e la città dei mille pianeti Luc Besson ha iniziato sei anni fa a mandare mail ad artisti in giro per il mondo, senza rendere noto né il titolo del film né di cosa trattasse né, ovviamente, che fosse lui a dirigerlo. «Abbiamo chiesto di mandarci disegni di un alieno, di una nave spaziale e di un mondo. Ci sono arrivate circa seimila proposte, da queste ne abbiamo selezionate venti, sei dei quali hanno lavorato con me personalmente per sviluppare altro materiale. Gli ho dato una lista con descrizioni molto vaghe e poi ho permesso loro di creare in libertà per mesi. Hanno prodotto materiale incredibile, io alla fine ho solo dovuto scegliere i pezzi più adatti per comporre il mio puzzle. Il livello di creatività che ho ottenuto dando loro libertà, non ponendo schemi o confini, è stato semplicemente pazzesco».

Alla fine di queste libere fasi creative, è stato necessario un lento e accurato processo di finalizzazione per adattare tutto il materiale artistico in uno stile unico, quello molto ben caratterizzato e inconfondibile di Luc Besson.«Sarà il percorso più breve ma non è certo il più semplice»

Ispirandosi all’artista di videogame Yoji Shinkawa e al famosissimo disegnatore francese Mobius, l’artista concettuale Ben Mauro [Lucy, The Great Wall] ha basato le sue specie spaziali sulla fisiologia degli animali: «Una volta che hai capito come funziona la biologia, prendi queste leggi fondamentali e le trasformi in qualcosa di completamente diverso. Alcuni alieni del film sono basati su rinoceronti o elefanti. Li studi nel loro ambiente naturale e pensi a come ottenere qualcosa di strano e insolito… mantenendo quel qualcosa che li rende familiari».

In un turbinio di colori, di oggetti futuristici ed elementi disseminati ad arte per favorire il desiderio di una o più visioni successive gli artisti concettuali che hanno lavorato al film hanno creato un fantastico bestiario: dai Doghan Daguis – una rivisitazione deformata di Qui, Quo, Qua – agli organismi acquatici che sembrano disegnati dalle parole di Jules Verne; dai mastodontici bromosauri alle meduse mylea; dal criminale alieno Igon Siruss – che nella versione originale ha la voce di John Goodman [10 Cloverfield Lane, The artist, Kong: Skull Island, Argo, Boston – Caccia all’uomo] – ai freddi e spietati K-Tron.

Le inquadrature sono spesso affollate di creature che si vedono anche solo per un attimo: il Grande Mercato sul pianeta Kirian, che ricorda moltissimo il pianeta Naboo di Star wars; le strade e le architetture della stazione Alpha che citano Blade runner e, di nuovo, Star wars ma la trilogia originaria con un inseguimento all’esterno tra corridoi angusti su navicelle ultraveloci – non vi ricorda qualcosa? Vedere per credere.
Le citazioni cinematografiche di Valerian e la città dei mille pianeti non sono finite qui, ovviamente, trattandosi di un maestro del postmodernismo: senza scendere troppo nella pedanteria da nerd o da otaku, mi limito a segnalare una sala riunioni in cui i sedili sono a forma di monoliti neri di kubrickiana memoria; il saluto che Laureline rivolge al maggiore Gibson è tratto da Plan 9 from Outer Space (del 1959, regia di Edward D. Wood Jr.), un supercult per veri appassionati; uno skyjet monoposto che ricorda la moto di Tron ma viaggia seguendo le “traiettorie” di decoupage del miglior George Lucas, di nuovo; non poteva mancare nemmeno un rimando alle fantasie di Philip K. Dick e quindi ecco gli interni in cui dominano i contrasti scenografici con ambienti naturali in luoghi artificiali come nelle trasposizioni di Total recall e gli esterni notturni pieni di insegne al neon e macchine volanti come in Blade runner.

A buona ragione Rutger Hauer, che interpretava il replicante Roy nel film del 1982, è stato coinvolto nel progetto da Luc Besson per un cameo di prestigio con tanto di monologo di fondamentale importanza per il setting del film, che non diventerà un cult come il celebre «Io ne ho viste cose che voi umani…», ma sa scaldare ad hoc il pubblico con il suo grande carisma.
Molto suggestiva e raffinatissima è poi la citazione di uno dei massimi capolavori del cinema francese degli anni ’30, L’Atalante di Jean Vigo: come Jean, il protagonista di quel classico, si tuffa nel fiume per verificare la credenza secondo cui nell’acqua si vede il volto della persona amata (e così accade grazie ad una delle prime sovraimpressioni della storia), così Laureline può “vedere” per osmosi, attraverso il fluido corporeo di una medusa mylea, dove si trova il partner disperso. Una vera chicca per cinefili!

«Voglio una spiaggia!»

Una menzione particolare, infine, va inserita per un riferimento che va ben oltre il gioco di ammiccamenti al fanatico di fantascienza. Oltre al comune desiderio di pace e tranquillità rappresentato dal sogno di una spiaggia incontaminata da parte dei protagonisti maschili, in Valerian e la città dei mille pianeti sono presenti alcune tematiche che sono già state analizzate dalla mente geniale di Terry Gilliam e rielaborate sottoforma di riflessione visionario-filosofica in The Zero Theorem. La virtualità, prima di tutto, è rappresentata in maniera differente dai due registi ma risulta simile la riflessione sul contrasto tra verità presunta e finzione latente ma, soprattutto, la funzione metacinematografica che assume nel momento in cui lo spettatore viene coinvolto in prima persona con sparatorie da gamer in soggettiva o con la stuzzicante performance di trasformismo mimetico della glampod Bubble, interpretata egregiamente da Rihanna [Battleship, Home]. Questa tentazione erotica virtuale ricorda moltissimo quella operata dalla cyberfatina Bainsley ai danni di Qohen Leth nel film di Gilliam, ma lo spettacolo della cantante, come in un Moulin rouge all’ennesima potenza, calamita l’attenzione e diventa un cult da vedere e rivedere all’infinito… e oltre!

Rihanna firma, così, di diritto il voluminoso guestbook delle protagoniste femminili di Luc Besson, pur avendo un ruolo secondario nella trama di Valerian e la città dei mille pianeti e si va ad inserire in un firmamento di stelle che il regista ha contribuito a trasformare in fenomeni del glamour: Milla Jovovic, Natalie Portman, Scarlet Johansson e, da ultima, l’astro nascente Cara Delevingne, che dalle passerelle dell’alta moda è passata con nonchalance sul grande schermo. Come la Jovovic ne Il quinto elemento, Cara ha il phisique du role per indossare un vestiario da applausi a scena aperta, dei costumi stupendamenti assurdi che ben si abbinano alla sua bellezza sofisticata.

«Hai ragione. È uno schianto!»

La popstar Rihanna non è l’unica ospite estirpata dal panorama musicale mondiale. Ad interpretare il Ministro della Difesa è stato chiamato nientepopodimenoché Herbie Hancock, una leggenda del jazz, che ha saputo dire la sua anche nel fusion, nel funk e nell’elettronica a cui va aggiunto il cantante cinese naturalizzato canadese Kris Wu, un volto conosciuto per il target adolescenziale. La partecipazione di cotante ugole famosissime potrebbe aver contribuito a ben disporre i Beatles superstiti ad accordarsi per l’utilizzo della canzone Because nel trailer ufficiale del film. Una concessione senza precedenti. «Ho scoperto in seguito che Paul McCartney è un grande fan della fantascienza, penso ci sia stato un pizzico di fortuna quindi» ha poi spiegato Besson.

Una curiosità a margine, i cammei di alcuni cineasti francesi, amici del regista, in ruoli di ufficiali dell’esercito di Alpha: sono Louis Letterier de L’incredibile Hulk, Olivier Megaton autore di Taken 2 e Benoît Jacquot di Addio, mia regina. Segno evidente di una produttiva relazione professionale senza invidie, segno di una cinematografia in salute che sa creare ogni anno prodotti di eccellente fattura.

Alla luce di tutto questo, Valerian e la città dei mille pianeti è un film meraviglioso in cui la tecnologia 3D diventa un valore aggiunto che amplifica notevolmente le emozioni. Un’indimenticabile spettacolo che sa risvegliare il bambino interiore che è dentro ognuno di noi. Un fantasmagorico caleidoscopio sognante in perfetta armonia fra avventura spaziale e fiaba ecologico-morale.

«Il tempo vola quando ci si diverte»

La quinta onda, di J Blakeson

Chi ha pianto dando l’ultimo saluto a Katniss dopo Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte II, gli orfani ormai di vecchia data delle relazioni intrecciate al sovrannaturale della saga di Twilight e chi attende trepidante l’ultimo capitolo di Divergent, Maze Runner e lo spin off di Harry Potter Animali fantastici e dove trovarli sappia che ha una nuova eroina da amare e seguire: la protagonista della nuovissima saga YA fiction è la misteriosa e cazzuta Cassie, diminutivo di Cassiopea Sullivan, un nome che preannuncia qualcosa agli spettatori più scafati, se si aggiunge che deriva dalla costellazione che campeggia nella volta celeste visibile da entrambi gli emisferi. Non aggiungerò altro di materia storico-fantascientifica per non rovinare questa e le successive visioni, nonché la lettura dell’ultimo romanzo della trilogia, ancora inedito. Spero, peraltro, di non aver ragione perché, non avendo il sottoscritto doti di chiaroveggenza, vorrebbe dire che la storia è tremendamente scontata.

Tornando a concentrarci sul presente, La quinta onda è il titolo del primo capitolo della trilogia di Rick Yancey trasposta su grande schermo da J Blakeson (La scomparsa di Alice Creed) per Columbia Pictures. L’incipit del film è in media res, tutto giocato di dettaglio, in modo da proiettare subito il pubblico nel cuore delle vicende e, viceversa, far entrare nel cuore dello spettatore la protagonista sedicenne Cassie, che sta cercando di sopravvivere ad un’invasione aliena che l’ha separata dalla sua famiglia. Dai suoi ricordi, in forma di diario, si apprende che l’attacco è avvenuto in diversi momenti: una prima onda, un black-out totale che ha ottenebrato ogni tecnologia, una seconda, un terremoto che ha devastato la Terra, seguito da un’epidemia di influenza aviaria, la terza onda, che ha decimato la popolazione in modo da creare i presupposti per la quarta, quando, infine, gli alieni, denominati “gli Altri”, si sono mostrati in tutta la loro subdola natura, determinati ad usare ogni mezzo per ottenere una facile colonizzazione del pianeta attraverso la misteriosa quinta onda. È davvero questo il destino dell’Umanità: soccombere annientata da alieni antropomorfi che si mescolano alla popolazione da tempo immemore? Quali altri scioccanti avvenimenti dovrà vivere la sfortunata Cassie? Cosa può fare un’adolescente da sola contro un intero esercito così efficacemente organizzato? Cosa ne sarà della sua umanità dal momento che è costretta a diventare cinica e spietata per sopravvivere in un mondo dove i nemici hanno le sembianze degli amici e in cui «nessun luogo è sicuro, ormai»?

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Cassie è la bellissima e molto espressiva Chloë Grace Moretz, la favorita dei fan del romanzo e, probabilmente per questo, unica attrice esaminata per il ruolo. La sua convincente interpretazione ripaga la fiducia dei produttori e del pubblico, e non ci si poteva aspettare nulla di meno dalla bambina prodigio ammirata negli horror remake Amityville horror, The eye e Blood story e diretta da mostri sacri come Martin Scorsese (Hugo Cabret) e Tim Burton (Dark shadows). La Hit-Girl di Kick-Ass e Kick-Ass 2 stavolta è un’adolescente che deve vivere un’avventura fuori da ogni previsione, convivere con le sue due anime di benevolo essere umano e di guerriera improvvisata, rappresentate visivamente dai suoi due compagni di viaggio, un fucile a ripetizione ed il peluche preferito del fratellino Sam, prigioniero degli Altri,  e sopravvivere ad ogni pericolo che si frappone tra lei e la salvezza di Sam.

I riferimenti a gloriose pellicole ormai divenute cult per ogni esperto cinefilo sono tanti: la scoperta delle astronavi e delle prime anomalie avviene mentre Cassie si trova a scuola, impegnata prima a lezione e poi nell’allenamento di calcio della squadra locale, vicende che ricordano quelle dei protagonisti di Alba rossa e del suo remake Red dawn, dove i Wolverines ricordano gli odierni Panthers con tanto di motti che mettono in risalto “onore” e “integrità”; le astronavi che aleggiano sulle principali città come Independence day, che avrà un seguito previsto per giugno 2016; la banale influenza, che crea un’ecatombe, e l’esigua presenza di immuni, che diventano l’obiettivo della contesa tra forze del Bene e forze del Male ricordano The stand – L’ombra dello scorpione; per concludere con un recente The host o la serie originale de I Visitors che presentano non poche assonanze anche per quanto riguarda la trama, mai però quanto Ultracorpi: l’invasione continua di Abel Ferrara, seguito de L’invasione degli ultracorpi.

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La quinta onda è un ormai classico pastiche postmoderno che mescola ingredienti collaudati, presi da vari generi, con una struttura in linea con gli standard del momento e una fotografia spettacolare garantita dall’utilizzo della ARRI® Alexa e delle lenti anamorfiche Panavision® G-series.

Probabilmente la stragrande maggioranza del pubblico si appassionerà, quasi senza rendersene conto, a personaggi e vicende che fanno parte in qualche modo del patrimonio genetico di chi ama il genere sci-fi ma, contemporaneamente, restarà con il fiato sospeso per intrecci amorosi simili a quelli che hanno fatto la fortuna della saga di Twilight. Un prodotto cinematografico che può mettere d’accordo un po’ tutti, se non si è in vena di scegliere drasticamente un genere.

Non mancano riferimenti verbali e correlazioni tra l’invasione aliena del film e la colonizzazione del Nuovo Continente a scapito dei nativi americani. Segno di un’autocritica ormai sdoganata o di una captatio benevolentiae per il pubblico d’oltreoceano? L’operazione commerciale c’è e si vede ma la speranza è che tra tanto cinismo ci sia ancora spazio per messaggi positivi divulgati attraverso operazioni di marketing e non viceversa. Gli Altri considerano l’amore un inganno e la speranza un’illusione che genera debolezza. Anche il cinema, in fondo, è illusione, inganno. E quello che lo spettatore chiede al cinema, sottoscrivendo il solito patto di sospensione dell’incredulità, è di non essere mai tradito nei sentimenti: Hitchcock giustamente affermava che bisogna riempire sia lo schermo sia i posti in sala, ma non dimenticando che va fatto con originalità e stile, qualità che a questo primo capitolo di saga, purtroppo, mancano. Speriamo che gli attesi sequel Il mare infinito e L’ultima stella riportino terrestri e alieni a percorrere sentieri meno battuti e che l’aver scomodato il mito di Cassiopea funga da volano per delle svolte interessanti e… imprevedibili.

«Che cosa gli serve?»
«Gli serve la Terra, ma non noi!»

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