Franny è un mistero per chiunque lo conosca. Ricco in modo imbarazzante, passa la vita a fare del bene agli altri, trasformando la sua fortuna in ospedali pediatrici e opere filantropiche ma, mentre la sua immagine pubblica risplende negli eventi umanitari, l’uomo si tormenta nella solitudine del suo appartamento, soffocando il male di vivere in massicce dosi di morfina. La luce e l’ombra, l’eroe e l’antieroe, Franny è entrambi, e fa il possibile per sfuggire a qualunque etichetta, oscillando costantemente tra euforia e depressione, generosità disinteressata e cupo egoismo.
Nonostante il suo umore altalenante però Franny (Richard Gere) si fa amare da tutti, in particolar modo da Olivia (Dakota Fanning), l’unica figlia dei suoi più cari amici, vissuta da sempre nel mito di questo supereroe metropolitano, completamente folle ma in grado di compiere qualunque magia. Ed è per questo che quando scopre di aspettare un figlio da Luke (Theo James) non esita a chiamare Franny per aiutarlo a trovare lavoro nel suo ospedale. Il dio di Philadelphia schiocca le dita e all’improvviso un lavoro prestigioso e una casa in riva al fiume si materializzano davanti agli occhi dei giovani sposini, ma il prezzo da pagare per la vita più felice che possano immaginare è la presenza di Franny nella loro vita.
Folle, magnetico e decisamente sopra le righe, Richard Gere è il protagonista assoluto di questa pellicola agrodolce, interamente incentrata sugli sbalzi d’umore di Franny e sull’effetto che hanno sulle vite degli altri, che silenziosamente gli scivolano accanto, senza riuscire mai a dominare la scena. Gere è il cuore pulsante di questa storia, la tavolozza multicolore con cui Andrew Renzi dipinge il suo primo film e anima tutti i personaggi che gli ruotano attorno. Lui è l’elemento straordinario in una Philadelphia ordinaria, che si illumina alla vista della sua sciarpa rossa e resta con il naso all’insù in attesa del suo prossimo miracolo, per poi rimanere incredula davanti ai suoi accessi di rabbia. In questa situazione surreale Olivia e Luke sono relegate al ruolo di comparse, allo stesso tempo beneficiari privilegiati e vittime della sua fortuna, del suo istinto iperprotettivo e della maledizione che ha gettato un’ombra sulla sua vita.
In bilico tra la lungimiranza di Howard Hughes e lo spirito autodistruttivo di Ernest Hemingway, Gere esplora le luci e le ombre di questo personaggio, lo fa suo, e senza timore lo segue nella rapida discesa negli inferi del senso di colpa, della depressione e della dipendenza, gli resta abbarbicato quando tocca il fondo per poi spingerlo a iniziare un lungo cammino verso la redenzione. L’intero film si regge sulle spalle di questo straordinario attore, sul suo carisma, e senza di lui sarebbe stato un film completamente diverso, difficile da immaginare e ancora più difficile da realizzare, perché la storia di Franny è lui stesso e nient’altro, e al suo cospetto tutto il resto finisce inevitabilmente in secondo piano, fino a confondersi con i colori caldi della Philadelphia autunnale che fa da sfondo alla sua vita.