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Ready Player One, di Steven Spielberg

Ready Player One di Steven Spielberg è un concentrato di avventure e prove svolte su due piani narrativi differenti, il reale-filmico e il virtuale-filmico che dialoga in continuazione con la realtà spettatoriale con citazioni metamediali, che spaziano dal linguaggio verbale a quello cinematografico, dal musicale al letterario, dalle allusioni a videogiochi moderni fino al rispolvero di retro arcade da sala giochi anni ’80, il tutto mantenendo altissimo il ritmo adrenalico. Il cuore di ogni nerd, geek, cinefilo o gamer può battere all’impazzata, si sconsiglia l’assunzione di troppi zuccheri e sostanze eccitanti prima o durante la fruizione del film.
La visione di Ready Player One è caldamente raccomandata ad un pubblico che sappia ancora cosa vuol dire sognare, che abbia voglia di ritrovare il proprio passato proiettando se stesso in un futuro fantasticamente verosimile. Quindi che cosa state aspettando? Non leggete tutta la recensione! Andate a vederlo subito! Diventate anche voi gunter alla ricerca di tutti gli easter egg sparsi nelle inquadrature. Mettetevi alla prova, lasciatevi coinvolgere. Giocate e non ne rimarrete delusi. È questo lo spirito del film, nonché il messaggio che Ernest Cline trasmette con il suo bestseller da record. Se non ci sono chicche negli end credit immaginate quanto ogni fotogramma sia zeppo di materiale di omaggio alla cultura pop! Se non mi credete continuate a leggere, ma non farò spoiler, al massimo qualche esempio di questi riferimenti.

Iniziamo dalla storia, fondamento imprescindibile di qualsiasi produzione artistica:

Ready Player One è la storia di Wade, un ragazzo che, come tanti altri utenti, in un futuro distopico, “vive” una realtà virtuale attraverso il suo avatar. Il creatore del mondo immaginario a cui si connette, idolatrato da lui come da tutti, è deceduto e ha invitato tutti ad intraprendere una ricerca che ha come premio la sua eredità: chi supererà le tre prove otterrà tre chiavi, le tre chiavi permettono di conoscere altrettanti indizi per raggiungere l’obiettivo finale che consiste in un easter egg che, nella realtà live action, si traduce in quote azionarie della società sviluppatrice del software e rendono chi ne è in possesso il suo proprietario assoluto. Per raggiungere l’obiettivo non basta essere dei bravi giocatori, occorre conoscere anche il più piccolo dettaglio della biografia dell’autore, condividere il suo amore per la cultura popolare e avere a cuore, forse più di lui, i migliori sentimenti che governano il mondo reale.

Ci sono tutti gli ingredienti del racconto immortale: nella trama di Ready Player One si annodano in maniera perfetta e indissolubile gli elementi del viaggio dell’eroe di Vogler, lo studio dei miti di Campbell e molte delle funzioni della fiaba analizzate da Propp, shakerate con le esigenze della narrativa cinematografica contemporanea. L’eroe riluttante che risponde al richiamo dell’avventura da cavaliere solitario, ma sotto mentite spoglie, per intraprendere una quest in una dimensione altra in cui ognuno è un mutaforma grazie agli ultimi ritrovati della hi-tech. Dovrà superare prove che hanno il retrogusto del rito d’iniziazione e imparare lezioni di vita: imparare a distinguere gli amici dai nemici e capire se si cerca nei sogni ciò che non si può avere nella realtà o se è la realtà a generare la materia di cui sono fatti i sogni.

È il 2044, il mondo è stato colpito da una grave crisi energetica e, l’economia, di conseguenza, è giunta al collasso. Il divario tra indigenti e classi agiate è diventato sempre più evidente. Ma una via d’uscita, seppur illusoria e temporanea, c’è: si tratta di Oasis, una simulazione virtuale in cui le persone possono fuggire dalla vita quotidiana ed essere, durante l’arco di tempo della connessione, tutto quello che hanno sempre voluto essere: un supereroe, un mostro divoratore di uomini, un cavaliere senza macchia e senza paura, una modella supersexy, Freddy Krueger, Michael Jackson, Batman. Ognuno può scegliere di rivivere potenzialmente all’infinito ricordi e avventure del proprio passato o prendere parte a qualche avvenimento della storia del cinema, esplorare galassie lontane. L’unico limite a tutto questo è l’ immaginazione.

«La gente viene su OASIS per tutto quello che si può fare. Ma ci rimane per tutto quello che si può essere.»

Ma nel mondo reale c’è chi vorrebbe porre un limite anche economico all’utilizzo di Oasis e sfruttare questa tecnologia per il proprio tornaconto personale, per arricchirsi e ottenere sempre più potere. Si tratta di Nolan Sorrento [Ben Mendelsohn, Rogue One: A Star Wars Story, L’ora più buia], passato da stagista porta caffè, con ambizioni di potere e brama di denaro, a villain multitasking che riesce nell’impresa di tramare su due realtà diverse anche se profondamente interconnesse. Con la sua società di hardware appositamente sviluppati per giocare, la Innovative Online Industries (IOI), inventa nuovi prodotti e tecniche di guerrilla marketing per aumentare il fatturato e puntare a diventare il proprietario assoluto di Oasis. Ovviamente ridurre sul lastrico gli utenti non intacca minimamente la sua immoralità. Il modo che Nolan propone per gestire Oasis sarebbe l’esatto opposto dell’idea primordiale. Oasis è stato concepito come una fuga dalla realtà decadente e l’accesso è stato sempre rivolto a tutti indistintamente.

Il creatore di questo paradiso multisensoriale è James Donovan Halliday [Mark Rylance, Il GGG – Il grande gigante gentile, Dunkirk e Oscar® per migliore attore non protagonista 2016 per Il ponte delle spie], un genio tanto estroso nel piegare la tecnologia alle sue utopie quanto riservato, ai limiti dello schivo, nei rapporti interpersonali. Affiancato dal socio e migliore amico Ogden Morrow [Simon Pegg, A Fantastic Fear of Everything, L’alba dei morti dementi, Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno] si è sempre opposto a commercializzare in maniera selvaggia la sua creatura tecnologica. Quando Halliday, però, sente approssimarsi il giorno della sua morte, indice una gara In tutto questo, però, James Halliday ha deciso di lasciare degli easter egg, delle prove da superare per ereditare la sua immensa fortuna dopo la sua morte. A contenderselo ci sono, potenzialmente, tutte le persone di Oasis e la IOI. Segreti di certo non facili da scovare nell’immenso mondo virtuale. Tutti infatti brancolano nel buio, finché però, quasi per caso, il giovane Wade Owen Watts non trova un indizio…

«Prima la chiave! Poi l’easter egg!»

Curioso che a fornire linfa vitale, ventate di freschezza, a un cinema che rispolvera il glorioso passato con remake e reboot, sia un veterano a cui la nuova generazione avrebbe dovuto “fare le scarpe”, come si suol dire. Tre Oscar® vinti e 33 film diretti. Un novello Tolkien conierebbe per lui un nuovo epiteto, una delle sue formule mutuate dalla tradizione orale delle antiche leggende popolari. Il regista che da sempre sperimenta e continua a sperimentare in eterno, Steven Spielberg, Maestro di ogni genere. È passato quasi un secolo da quando i movie brats, “i ragazzacci del cinema”, hanno deciso di far fronte comune e spalleggiarsi per portare avanti la loro innovativa idea di cinema. Si tratta di Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Brian De Palma, George Lucas, Paul Schrader, Michael Cimino, John Milius, Robert Zemeckis e Stanley Kubrick. I visionari di allora, che hanno fatto e sono la storia del cinema mondiale, non hanno mai avuto degli eredi veri e propri e così eccone uno che è costretto agli straordinari. Non che ci dispiaccia. Spielberg, in un anno solare, presenta due film, il candidato all’Oscar 2018 The Post e Ready Player One, che non potrà non dire la sua alla cerimonia del prossimo anno. E quello che lascia sbalorditi è la sua continua voglia di rimettersi in gioco e sperimentare.

I movie brats, chi più chi meno, hanno omaggi disseminati per tutto il film. Eliminato, invece, ogni riferimento del romanzo allo stesso Spielberg: «nel libro c’erano molti riferimenti ai miei film come regista e produttore degli anni ’80, ma non volevo che il film mostrasse lo specchio di me stesso».

Ready Player One, pubblicato per la prima volta nell’agosto 2011, è, probabilmente, il romanzo di fantascienza più importante dal 2000 ad oggi, ed è forse destinato a diventare uno dei romanzi di fantascienza più rilevanti di sempre. Ernest Cline trasforma la fiaba moderna di Willy Wonka in una sci-fi quest adventure in cui tutti gli elementi classici della fantascienza si mescolano per trovare la forma accattivante di un romanzo brillante e innovativo. Storia, personaggi ed eventi si intrecciano in un modo unico, riuscendo contemporaneamente sia a riportare il lettore negli anni ’80, sia a dare nuova e meritata visibilità a serie e film ormai classici come Shining, Tron, Akira, Il gigante di ferro, Gundam, Wargames e i sempreverdi Star Wars, Mad Max, Ritorno al futuro e King Kong (solo per citarne un numero minimo).

L’ottimo materiale di partenza ha generato altissime aspettative intorno al film di Spielberg. Lui ha risposto surclassando se stesso. Ha guidato i maghi degli effetti della Industrial Light & Magic e della Digital Domain e la loro tecnologia all’avanguardia dimostrando che va utilizzata per coadiuvare un film e raccontare meglio una storia e non per prendere il centro della scena offuscandone personaggi e sceneggiatura. Tra motion capture, live action, animazione 2D e 3D, CGI, occhiali VR «sembrava davvero la realizzazione di quattro film in contemporanea», confessa il regista, ma deve essere stato fantastico per lui poter usufruire della tecnologia VR come strumento per pianificare le riprese, dirigere gli attori e i loro avatar, decidere i punti macchina in un ambiente virtuale indossando cuffia, occhiali e microfono. Un vero viaggio nel futuro, non più simulato. Possiamo solo immaginare quanto si sarà divertito a poter gestire rapidamente gli obiettivi o regolare le angolazioni con un sistema di mdp virtuali e una fotocamera palmare ergonomica appositamente costruita per monitorare tutto, inquadrare, ottenere inquadrature impossibili e panoramiche spettacolari che, su un tipico set, avrebbe richiesto un numero di riprese poco sostenibile.

«Volevo che questo film fosse proprio questo tipo di avventura… un film talmente veloce da far volare i capelli all’indietro mentre corri verso il futuro».

Spielberg ha lavorato a stretto contatto con ogni settore dalla fotografia, per la quale ha scelto Janusz Kaminski [Schindler’s list, Salvate il soldato Ryan] che ben conosce la sua sensibilità per l’illuminazione, il colore e il contrasto.

Per la musica, un po’ costretto per la non disponibilità dell’amico di sempre John Williams, il regista ha messo a contratto un certo Alan Silvestri e l’autore della colonna sonora di Ritorno al futuro e non delude di certo alla sua prima collaborazione con il maestro, innestando alla sua già emozionante partitura, intrisa di percussioni adrenaliniche, una coinvolgente playlist di successi degli anni ’80, pop, rock e dance. Si spazia dalla hit Jump di Van Halen ai Tears for fears, da Prince al tema di Godzilla composto da Akira Ifukube, dai Depeche Mode ai Twisted Sister per arrivare al progressive rock della Tom Sawyer dei Rush. Chicche per intenditori tra gli easter egg musicali.

Stupendo anche il lavoro di Kasia Walicka Maimone [Il ponte delle spie, A quiet place] per confezionare costumi che non siano dei copia-incolla degli 80s ma che siano reinventate in chiave postmoderna.

Un ultimo – breve – pensiero, prima di concludere, riguarda la scelta dei nomi, mai banali o casuali in questo genere di storie. Il protagonista interpretato da Tye Sheridan, che è stato Ciclope in X-Men: Apocalypse indossando goggles come quelli VR del film – sarà stato anche questa skill a far propendere per lui? – e protagonista di Scouts Guide to the Zombie Apocalypse, uno zombie teen movie goliardico divenuto e da poco tradotto in Manuale scout per l’apocalisse zombie si chiama Wade (Owen) Watts [ha un nome che suona in inglese come un invito all’azione “Cosa aspetti? Quando ti muovi?”, un’esortazione nascosta, il richiamo all’avventura dell’eroe riluttante e l’avatar che lo rappresenta in Oasis si chiama Parzival, una storpiatura del nome del cavaliere che trovò il Sacro Graal nel ciclo bretone. Art3mis, l’alter ego scelto da Samantha [Olivia Cooke, Quel fantastico peggior anno della mia vita, Ouija, la serie Bates Motel], è la dea della caccia, l’abbinamento perfetto con l’altro egg hunter (il termine gunter usato dal film è una crasi, appunto, di queste due parole). Per il migliore amico di Wade, che rappresenta la più grande disparità tra umano e avatar, il nome è Aech, un anagramma di “each” (“ogni”) quindi una sorta di uno, nessuno e centomila. Oasis ovviamente è l’oasi nel deserto, ma questo suo richiamo alla natura contrasta con la freddezza della IOI (la Innovative Online Industries di Nolan) che, secondo il codice binario, rappresenta il numero 6 da cui derivano i Sixers, gli scagnozzi del villain, riconoscibili solo dai loro numeri di matricola. E IOI non è forse il contrario della pronuncia di Ohio (OIO), lo Stato che fa da sfondo alle vicende del film? Una coincidenza? Impossibile!

Ready Player One coinvolge perché parla, neanche troppo fra le righe, del modo in cui viviamo le nostre vite, di come, con il passare del tempo, siamo sempre più disconnessi dalle interazioni personali nel mondo reale, di come affidiamo pigramente i nostri pensieri alle tastiere veloci, alle emoticons o alle gif animate, di come preferiamo messaggiare invece di massaggiare, di come ci mettiamo un secondo a condividere un contenuto multimediale e una vita ad aprirsi con il cuore a chi ci sta attorno. Un mondo come quello scritto da Cline e filmato da Spielberg non appare poi così tanto improbabile. Rimaniamo coinvolti da Ready Player One come spettatori, perché da utenti ne siamo affascinati e nello stesso momento terrorizzati, perché, in fondo, potrebbe rappresentare una previsione del nostro imminente futuro.

Ricordate: niente crazy credits o altre sorprese durante i titoli di coda. Avrebbero tradito lo spirito ludico degli easter egg e il messaggio stesso del film che è divertirsi!

Cattivissimo me 3, di Pierre Coffin e Kyle Balda

Uno dei franchise più popolari degli ultimi anni arriva al suo terzo capitolo. Cattivissimo me 3 è stato anticipato da una serie di cortometraggi molto divertenti, che hanno, manco a dirlo, come protagonisti assoluti i Minions, i personaggi secondari più amati dai bambini di tutto il mondo. E sono loro, come al solito, la chiave di volta del film. Sulle loro trovate “geniali” si costruisce la campagna pubblicitaria e sono sempre loro le “pinze” su cui si regge una sceneggiatura che altrimenti non avrebbe interessi particolari da destare.

Continua il tema della famiglia allargata, una famiglia 2.0 che ha come bandiera del male che ha modificato il suo destino fino a sventolare in direzione del bene, anche se si tratta più di una di quelle vie di mezzo tanto care al cinema contemporaneo. Si tratta di figure che trascendono il vecchio manicheismo, che tanto ha dominato l’animazione in passato, fino a diventare personaggi che necessitano di un percorso di crescita costellato di prove mai troppo spaventose in un mondo dove sono forse gli adulti a dover imparare lezioni di vita dai più piccoli.

Dopo esser stato licenziato dalla Lega Anti Cattivi per non essere stato capace di sconfiggere l’ultimo villain che minacciava l’umanità, Gru si trova nel bel mezzo di una grave crisi d’identità. È a questo punto che un misterioso individuo informa Gru che ha un fratello gemello, Dru, di cui, ovviamente, ignorava l’esistenza. Un fratello che non vede l’ora di calcare le spregevoli orme del suo gemello. L’ex super-villain riscopre immediatamente quanto sia bello essere cattivo, un sapore di cattiveria che non assaporava da tempo. Insomma, la bussola morale di Gru sembra di nuovo fare le bizze mentre gli altri personaggi sono impegnati in divagazioni, più che sottotrame, forse maggiormente adatte ad una serie tv: i Minions in giro a far danni dopo un banale litigio, Lucy intenta a farsi accettare in casa dalle ragazze, le ragazze in cerca di un unicorno vero per Agnes.

Doppio lavoro, insomma, per Steve Carell [Ortone e il mondo dei Chi, Foxcatcher – Una storia americana, Cercasi amore per la fine del mondo, Little Miss Sunshine] che riprende, forse per l’ultima volta, il suo ruolo di Gru e ne assume anche un secondo, quello di Dru, il misterioso gemello. Del cast fanno parte anche Kristen Wiig [Ghostbusters, Sopravvissuto – The Martian, Zoolander 2], che ritorna nelle vesti della super-spia Lucy, e Trey Parker [il regista di South Park] – un neofita del doppiaggio, ma vincitore di un Emmy, un Tony e un Grammy – che fornisce la voce al nuovo antagonista di Gru, Balthazar Bratt, un ex bambino-prodigio, star televisiva della fine degli anni ’80, oramai ossessionato dal suo stesso personaggio, nostalgico fino al midollo, tanto da credere che gli anni ’80 non siano mai terminati. Forse il più formidabile e divertente nemico che Gru abbia mai incontrato, deciso a radere al suolo Hollywood, per non avergli dato la chance che sentiva di meritare. Inutile dire che chiunque si frapponga tra lui e il suo obiettivo sono in pericolo.

Pur essendo l’ennesimo sequel di un prodotto ben riuscito, Cattivissimo me 3 non ha perso l’entusiasmo e può vantare dei record curiosi che lo rendono comunque un lungometraggio degno di nota, a prescindere dalla semplicità della sceneggiatura: rispetto ai precedenti e rispetto a tutti gli altri prodotti della Illumination Entertainment, il film è visionabile in un’aspect ratio widescreen in rapporto 2.39:1 e la brillante colonna sonora del compositore Heitor Pereira [Madagascar, I Simpson – Il film] riesce a mescolare le sonorità e alcuni evergreen degli anni ’80 – Take on me degli A-ha e l’immancabile Bad di Michael Jackson – alle canzoni originali, create ad hoc da un fan d’eccezione, Pharrell Williams, e già tormentoni.

Ma veniamo ad una nota dolente. Probabilmente è tempo di saluti per Gru e famiglia. Se non adesso, la prossima volta. Purtroppo Cattivissimo me 3 potrebbe aver scritto la parola FINE sul rapporto artistico tra Steve Carell e il franchise. Manovre per aumentare il cachet? Probabilmente no, dato che l’attore ha dato comunque la sua disponibilità in futuro per un voice cameo in un qualsiasi corto dei Minions. Si dice che quando i doppiatori scendono dalla barca è segno che la crociera è finita. Bisogna solo vedere cosa decideranno i produttori, se tentare la sostituzione, rischiando la deriva o se concludere mentre la serie si trova all’apice del successo.

Comunque, niente panico! Tanto i Minions possono vantare un pubblico tutto loro e quindi avere vita autonoma: il loro secondo lungometraggio è previsto per il 3 luglio 2020. Ci sarà da aspettare, ma l’attesa sarà perdonata: il fascino ipnotico che esercitano nei confronti del pubblico infantile è veramente impressionante. Nel frattempo la Illumination Entertainment ha in programma, in ordine cronologico: il 9 novembre 2018 arriverà un Grinch doppiato da Benedict Cumberbatch [Doctor Strange, Star Trek, Sherlock, la serie tv] in How the Grinch Stole Christmas, animato in 3D, come un altro personaggio tratto dalle opere del dr. Seuss, The Lorax; poi a luglio 2019 è la volta del sequel di Pets, di cui ancora non è trapelato nulla.

Sette minuti dopo la mezzanotte, di Juan Antonio Bayona

Sette minuti dopo la mezzanotte [A monster calls nella versione originale] è un film intenso, dalla grande potenza emotiva, che coinvolge e intenerisce, mentre sullo schermo una realtà diegetica avversa al giovane protagonista si alterna con una dimensione parallela in cui si perde il confine fra sogno e realtà.

Si tratta della trasposizione del romanzo ideato da Siobhan Dowd e portato a termine da Patrick Ness, vincitore nel 2012 della Carnegie Medal per la letteratura (dall’infanzia allo young adult) e della Kate Greenaway Medal per le illustrazioni di Jim Kay, un disegnatore fortemente voluto anche da J. K. Rowling per illustrare i suoi Harry Potter.

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Un doppio nodo lega la trama del libro con la genesi del romanzo: la malattia, che non ha permesso all’autrice di concluderlo, e la ferma volontà di chi le era accanto di non scrivere la parola “fine” su un progetto che ne avrebbe perpetuato la memoria. Un legame che non è sfuggito al regista Juan Antonio Bayona che è stato da subito fortemente attratto dal romanzo, trovando nelle sue pagine argomenti che aveva già esplorato in The Orphanage e The Impossible, «personaggi che si trovano in una situazione particolarmente intensa, su cui incombe la morte». Una morte che non è intesa come fine di un percorso, ma come inizio di una nuova avventura ad un livello ulteriore, concetto che rimanda all’origine ancestrale della fiaba come rito d’iniziazione delle comunità primitive e che è una delle prerogative del film.

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«Questa storia inizia come tante altre storie con un bambino troppo grande per essere un bambino e troppo piccolo per essere un uomo… e con un incubo».
Conor O’Malley [Lewis MacDougall] ha 12 anni e l’adolescenza, si sa, è un periodo cruciale della vita. Per lui ancora più difficile, costretto com’è a crescere troppo in fretta per la separazione dei genitori e la malattia visibilmente degenerativa della mamma [Felicity Jones]. In questo contesto già avvilente si aggiunge la beffarda mano del destino che mette il ragazzo nel mirino dei bulli della scuola. Diviso fra il sopportare e il reagire, ma conscio di dover risolvere i propri problemi in qualche modo, Conor rimane suggestionato dalla visione di King Kong, la versione originale del 1933, e così immagina che il tasso secolare che domina la collina di fronte casa loro, posto proprio al centro del cimitero, prenda vita e si trasformi in un gigante dall’anima di fuoco. Sette minuti dopo la mezzanotte, proprio mentre Conor finisce di disegnarlo, il mostro entra nella sua vita per stravolgerla completamente: gli racconterà tre storie e ne pretenderà un’altra da lui, una verità che custodisce gelosamente dietro un muro di paure e rabbia repressa.

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In Sette minuti dopo la mezzanotte ritroviamo tutta la poetica di Bayona: i legami familiari indissolubili e il soprannaturale che separa e unisce, il disegno artistico, che ha la funzione di tramite fra il mondo reale e l’immaginario, sia che si tratti degli schizzi su carta di Conor sia che si tratti dei racconti del mostro, acquerelli animati, la tecnica attraverso la quale il ragazzo esprime la sua fantasia, i suoi desideri, le sue angosce, come accade nei sogni, con rimossi, proiezioni astratte di paure concrete, ricostruzioni interiori di stimoli esterni e precognizioni.

Il sogno, altro elemento poetico molto caro al cinema di Bayona, svolge l’antica funzione di guida e mediazione con il mondo esterno, strettamente legato ai miti arcaici, a situazioni riconducibili a fiabe e leggende popolari. Entrambi, sogni e miti, sono il risultato di una complessa elaborazione e deformazione delle fantasie di desiderio: più individuali nei sogni, collettive in quei “sogni” ancestrali delle comunità primitive che hanno il nome di miti. Quella forma primitiva di pensiero è stata sempre presente nell’inconscio umano ed è chiamata archetipo. Presenti indistintamente in tutte le civiltà, e culture del nostro pianeta, sono gli archetipi a costituire la base del mito e di tutti i suoi derivati. Queste sono gli elementi essenziali che compongono il simbolo che assieme ad altre forme ed altri simboli vanno a formare ciò a cui le società hanno dato il nome di mito.

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Dal mito deriva poi la fiaba, una sintesi di archetipi sociali, psicologici e onirici, nonché chiave di lettura del nostro argomento principe, Sette minuti dopo la mezzanotte. Il film, ambientato in una Manchester non troppo caratterizzata, resa anche più gotica di quello che in realtà è, presenta molte caratteristiche in comune con la struttura del mito e, soprattutto, della fiaba: nell’inverosimiglianza dei fatti e nell’indeterminazione spaziotemporale, dove il “qui e ora” diventa un modello universale di “qualsiasi luogo e tempo”, si muovono personaggi classici come un principe, una matrigna-strega, accanto a figure meno frequenti, come lo speziale e il pastore ecclesiastico, ma tutti contribuiscono a veicolare un messaggio che possa fornire a Conor gli elementi per poter reagire agli eventi che lo hanno colpito. La madre buona [Felicity Jones, la Jyn Erso di Rogue One: A Star Wars Story e candidata agli Oscar® 2018 come protagonista] non è necessariamente da contrapporre alla nonna che appare fredda e distante [Sigourney Weaver, la Ellen Ripley di Alien e candidata agli Oscar® 2018 come non protagonista]; se suo padre [Toby Kebbell; Ben Hur, Warcraft – L’inizio] si è rifatto una vita in America non necessariamente è un dramma; la fede cristiana e la fiducia nella medicina non per forza comportano un ritorno concreto secondo i propri desideri.

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«Le storie vere spesso sono fregature».

Non come un golem difensore degli oppressi (mosso anch’esso dalla verità), non come un jinn che debba esaudire i desideri del suo padrone, l’antropomorfo Tasso secolare, quale saggio maestro di vita, guida Conor in un viaggio dell’eroe all’insegna del coraggio, della fede e della verità, virtù cavalleresche che sembravano ormai appannaggio dei soli supereroi, ultimamente. In molti hanno riscontrato una certa somiglianza fra il Groot de I guardiani della galassia e il Mostro di Bayona animato in animatronic, motion capture e CGI, ma in pochi avranno notato le assonanze con i Giganti mitologici, i Titani, tra cui troviamo Prometeo che dona la conoscenza all’uomo e Cronos che governa il tempo. Dall’alto della sua figura di fantastico mentore, il Mostro – una creatura alta 12 metri al quale è Liam Neeson [Taken, Silence], con il motion capture, a dar vita e voce – mette in guardia il ragazzo («stai usando male il tempo che ti è stato concesso») e gli fornisce, attraverso le fiabe e i loro ambigui personaggi, la giusta chiave di lettura per interpretare la propria coscienza e, in una sola parola, crescere.

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«La maggior parte della gente è una via di mezzo».

Le origini della fiaba si perdono nella notte dei tempi. Teorie su teorie, quali quella mitica, indianista, antroposofica, poligenetica, ancora non hanno trovato un bandolo comune della matassa. Quello che è certo è che la tradizione orale, attraverso riduzioni e semplificazioni di antichi miti, stratificati nel tempo e rielaborati in età successive, ha operato una contaminazione di figure tratte dalla fantasia popolare in modo da poter rendere i racconti fiabeschi uno strumento educativo prezioso per tutti, in barba all’opinione pubblica che ritiene che le fiabe siano pensate ad uso e consumo esclusivamente del divertimento dei bambini.

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Sette minuti dopo la mezzanotte è un film che possiamo definire, senza incorrere in obiezioni, fiabesco, che è stato realizzato combinando l’estrema lucidità della sceneggiatura di Patrick Ness con la fervida fantasia scenografica di J. A Bayona, mantenendo una coerenza estetica con il resto della filmografia grazie ad una fidata crew di tecnici: il direttore della fotografia Óscar Faura [The Orphanage, The Impossible], lo scenografo Eugenio Caballero [Oscar® per Il labirinto del fauno], i montatori Bernat Vilaplana [Crimson Peak, Penny Dreadful e premio Goya per The Impossible e Il labirinto del fauno] e Jaume Martì [Penny Dreadful e Gaudì Award per Transsiberian], il costumista Steven Noble [La teoria del tutto, Una, Trainspotting 2], il compositore Fernando Velásquez [The Orphanage, The Impossible]. Oltre alla già citata animazione mista, il regista impreziosisce le riprese con virtuosismi tecnici che in pochi ormai utilizzano: raccordi sull’oggetto e inquadrature reverse che meravigliano come le acrobazie di un abile circense.

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Magari potrebbe sembrare prematuro parlare di nomination agli Oscar® 2018 ma questa avventura gotica in bilico fra sogno e realtà finora è l’opera migliore sotto ogni aspetto. Non a caso ha vinto 9 premi Goya su 12 ai quali era candidato!

Un aneddoto e una curiosità a margine, per concludere.
L’aneddoto: il regista ha scelto di non dare al suo giovane protagonista la pagina del copione che descriveva l’ultimissima scena di Sette minuti dopo la mezzanotte perché voleva che MacDougall avesse la reazione più naturale possibile e autentica possibile. Il risultato è stato davvero notevole.
La curiosità è, invece, per gli spettatori attenti: non rilassatevi durante l’epilogo e fate caso sulla parete alle fotografie raffiguranti il nonno di Conor.

«Chi ci dice che il sogno non sia tutto il resto?».

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Le stagioni di Louise, di Jean François Laguionie

L’estate volge al termine nella località balneare di Biligen. L’ultimo treno della stagione parte e riporta i villeggianti alle loro occupazioni quotidiane in città. Louise, un’attempata signora, non riesce a prendere quell’ultimo treno. La cittadina costiera deserta è l’unica compagnia che può avere, ma non si darà per vinta e, facendo leva sull’esperienza ormai consolidata e su di un carattere forte e tenace, Louise affronterà questa sua nuova avventura come una sfida, non una sfiga. Anzi, non di certo una sfiga. Specialmente se trovi dei compagni fedeli che sanno parlarti al cuore e guidarti nei momenti di sconforto: il cane randagio Pepper [doppiato da Mino Caprio, è Pepe, nella versione italiana] e i ricordi d’infanzia e adolescenza. I ricordi, che emergono in quello stato di solitudine forzata, si mescolano, nel subconscio, con il rimosso, e i rimorsi, e presto si tramutano in sogni, che citano Magritte e il surrealismo, e sciolgono i nodi della sceneggiatura e, allo stesso tempo, rispondono alle domande che la donna inevitabilmente si pone: è una punizione quella che sta vivendo? O solo una delle tante prove a cui spesso la vita ci sottopone?

«Ogni mattina io scopro un altro cielo e un’altra spiaggia, tutti per me».

I villaggi della costa della Normandia rappresentano un ricordo non solo per la protagonista, ma anche per Laguionie, confermando l’elemento autobiografico che ha mosso l’ideazione del progetto: «nella mia mente quei villaggi rappresentano ancora un luogo ideale per una tranquilla vacanza spensierata, sono luoghi in cui mi sento protetto dalla miseria del resto del mondo e in cui mi sento protetto e isolato in un luogo privo di confini temporali dove le abitudini borghesi sono ancora intatte e tengono lontane le angosce esistenziali, come l’invecchiamento e le maree».

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I suoni naturali e i rumori tipici dei paesaggi marittimi costituiscono una vera e propria partitura musicale che fornisce verosimiglianza all’ambientazione. Se per un attimo si chiudono gli occhi, ascoltando l’armonico susseguirsi dei richiami degli uccelli su di un tappeto di onde che s’infrangono sulla spiaggia, si ha la sensazione di essere parte del quadro. «Desideravo – confessa il regista – che si avvertisse in tutte le immagini un senso di libertà e che la pellicola ne fosse totalmente intrisa, come se quest’ultima fosse stata interamente disegnata a mano […] I suoni naturali sono elementi necessari per dare credibilità alla situazione di abbandono della protagonista; la musica del piano di Pierre Kellner crea invece un’interessante contrapposizione volta a rappresentare la spensieratezza, l’ottimismo e la gioia di vivere di Louise. Le musiche intonate dall’orchestra di Pascal Le Pennec, il quale composto “The Painting” [“Le Tableau”, per il film La tela animata, sempre di Laguionie], supportano la rappresentazione delle memorie e dei sogni più intimi e profondi di Louise. Anche le voci, tanto quanto le musiche, sono state fondamentali per la costruzione del film e la sua animazione. È stato necessario determinare tutti questi elementi prima ancora di iniziare a realizzare il film e decidere quale sarebbe stata la struttura della narrazione».

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L’interpretazione del personaggio di Louise, in Italia, è affidata alla vigorosa voce di Piera Degli Esposti, attrice di tanto bel cinema e di teatro di altissimo livello, nonché scrittrice e regista di opere liriche: «Sono rimasta molto coinvolta dalla profondità che mostra Louise nell’affrontare l’avventura e la solitudine – ha esternato l’attrice – La bimba che è in lei è ancora viva. Laguionie ha girato un film profondamente concreto che, nello stesso tempo, ha una forte dimensione di gioco, e a me piace molto il gioco. Le stagioni di Louise è un grande dono, un film che spazza via la morte: la vita vince».

Una nuova piccola grande storia di vita, un nuovo spunto di riflessione sulla solitudine, in generale, ma anche sulla senilità, nello specifico. Una sfida proporlo sotto Natale mentre nei cinema imperversano Rogue One, Miss Peregrine, le tradizionali commedie italiane e il 56° classico Disney, Oceania. E Louise, ormai lo sappiamo, le sfide le sa cogliere con il cuore di un’avventurosa teenager. Un po’ Robinson Crusoe, quando Louise si costruisce il suo rifugio per ripararsi dagli agenti esterni e per godere appieno delle meraviglie che il mare sa donare a chi ha dentro di sé la poesia per saperle apprezzare. Un po’ Aspettando Godot, con il susseguirsi delle stagioni nell’attesa dei soccorritori o del ritorno dei villeggianti per una qualsiasi festa dell’anno. Un po’, anche, Il vecchio e il mare, per lo spirito d’avventura che, si sa, non deve morire mai, in quanto fulcro stesso della vita umana. L’analogia con il romanzo di Hemingway non si esaurisce con il percorso interiore da romanzo di formazione o con la sfida per la sopravvivenza: come Le stagioni di Louise, la breve versione d’animazione (1999) di Aleksandr Petrov di The Old Man and the Sea è stata realizzata in un interessante stile pittorico, vincendo nel 2000 il premio Oscar® per il suo settore specifico.

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I fondali su cui si muovono i personaggi del film del maestro dell’animazione francese, Jean François Laguionie, sono materici, quasi tangibili, pitturati delicatamente su carta da disegno, di cui si può percepire la trama sul grande schermo. Come con La tela animata il regista francese si diverte a giocare con i livelli di significazione fino a spingersi al mise en abîme e alla meta-arte quando, sulla spiaggia, Louise dipinge il paesaggio nel quale si muove, a sua volta pitturato da qualcun altro che esiste in una dimensione altra dalla sua, e non è questa, forse, la suprema riflessione sulla vita?

Un altro bel gioiello incastonato nella corona di I Wonder Pictures, che distribuisce nelle sale italiane i migliori biopic e documentari, vincitori di prestigiosi premi internazionali [Sugar man e Citizenfour hanno conquistato l’Oscar®], ma soprattutto ha portato nelle sale italiane Dio esiste e vive a Bruxelles, molto apprezzato dalla critica, pluripremiato ai Magritte e candidato ai Golden Globe.

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Kubo e la spada magica, di Travis Knight

Quarto lungometraggio per Laika Entertainment, con i suoi oltre 145.000 fotogrammi, Kubo e la spada magica è un capolavoro di animazione in stop-motion che insidia il primato di Alla ricerca di Dory nella classifica del miglior film di animazione dell’anno e non solo, potrebbe addirittura competere con le migliori pellicole dell’anno.

Perfetta la sceneggiatura di Marc Haimes [Collateral, Transformers] e Chris Butler [ParaNorman, La sposa cadavere, Coraline e la porta magica], basata sul formidabile soggetto di Shannon Tindle [Coraline e la porta magica, I Croods] e Marc Haimes: nucleo narrativo da romanzo di formazione, struttura che richiama il viaggio dell’eroe, innestando elementi desunti dalla cultura nipponica, come origami, bunraku, samurai, cerimonie antichissime al fascino della lanterna magica, l’origine del cinematografo.

«Non battere ciglio… da ora! Presta attenzione a tutto ciò che stai per vedere e ascoltare, per quanto strano possa sembrarvi. E vi avverto: se distoglierete lo sguardo, se vi distrarrete o se dimenticherete anche una sola parte della storia, il nostro eroe di sicuro perirà!».

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Nell’antico Giappone un ragazzo senza un occhio di nome Kubo si prende cura di sua madre in una grotta su una scogliera isolata e si guadagna da vivere raccontando storie agli abitanti del vicino villaggio costiero sfruttando il potere magico di famiglia che permette di animare gli origami come in uno spettacolo bunraku, accompagnato dal suono del suo fedele shamisen, uno strumento a tre corde. Protagonista delle sue storie è il leggendario guerriero Hanzo, suo padre, che morì per difendere lui e sua madre dall’ira del nonno Raiden. Da allora madre e figlio vivono celati dalla luce della luna per non essere trovati, ma una notte, nel tentativo di comunicare con lo spirito del padre durante l’obon, la tradizionale cerimonia delle lanterne, Kubo rimane fuori dal rifugio dopo il tramonto e le malvagie zie lo trovano e faranno di tutto per strappargli l’altro occhio. Intraprendere un viaggio alla ricerca dei tre pezzi dell’armatura del padre è l’unica soluzione per salvare se stesso e la propria famiglia. Fortunatamente con lui ci sono Scimmia e Scarabeo, due insoliti aiutanti per una “quest” che va ben oltre gli oggetti in sé: la spada indistruttibile, la corazza impenetrabile e l’elmo invulnerabile sono solo una piccola parte dei segreti che Kubo dovrà scoprire.

«Sicuro non sia la spada “introvabile”?».

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Gli elementi dell’epopea avventura e della leggenda popolare si mescolano ai sentimenti che sono l’energia vitale della trama, della storia che in questo film è, a maggior ragione, l’equivalente stesso della vita. Scheletri giganti, occhi scrutanti, malvagi mascherati dovranno vedersela con la loro nemesi per antonomasia: l’amore indistruttibile, impenetrabile, invulnerabile.

«I ricordi hanno un grande potere».

La voce di Kubo, nella versione originale [Kubo and the two strings], è di Art Parkinson, che ha interpretato Ingeras, l’amato figlio di Dracula Untold, mentre a doppiare gli altri personaggi sono le star Matthew McConaughey, alla sua prima volta, Charlize Theron, Rooney Mara [Carol, Prometheus] e Ralph Fiennes [Spectre, A bigger splash]. A cotante stelle corrispondono fortunatamente grandi nomi italiani, molto esperti nel doppiaggio di film di animazione, Neri Marcorè, Domitilla D’Amico, Chiara Colizzi, Stefano Benassi, a sostegno della voce italiana di Kubo, Giulio Bartolomei.

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Kubo e la spada magica segna il debutto alla regia per Travis Knight, che non è il fratello di Michael Knight, il pilota della Supercar K.I.T.T., anche se la macchina meravigliosa che ha tirato su è altrettanto super e in quanto a fama non scherza neanche lui: ex rapper, con lo pseudonimo Chilly Tee, è da qualche anno il presidente e CEO della Laika Entertainment, nata dalle ceneri dei Will Vinton Studios, realizzatori di animazioni in claymation che hanno fatto la storia degli anni ‘80 e ’90: i cortometraggi The Creation e The Great Cognito, nominate agli Oscar rispettivamente nel 1981 e nel 1982; le animazioni di Nel fantastico mondo di Oz, sfortunato seguito de Il mago di OzSpeed demon, una delle sequenze animate di Moonwalker, e alcune trovate pubblicitarie tanto seguite da raggiungere una seppur minima serializzazione televisiva, come The California Raisin Show, da noi erroneamente intitolato Le prugne della California, ma i più famosi al momento sono i testimonial animati della MM’s, attualmente in uso.

Travis, muove i suoi primi “passo uno” come animatore proprio presso i Vinton Studios e, quando la società inizia ad aver bisogno di fondi esterni, Phil Knight, padre di Travis, nonché presidente e cofondatore della Nike, s’inserisce come azionista di maggioranza nel 2002 e in pochi anni, nel  2005, viene fondata la Laika con un supervisore d’eccezione, Henry Selick (The nightmare before Christmas, Coraline e la porta magica).

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Da allora la casa di produzione di Portland, patria di un’altra gemma come I Simpson, ha inanellato una serie di successi che, per chi conosce il lavoro maniacale che c’è dietro questo genere di animazione, sono vere e proprie opere d’arte: da La sposa cadavere a Kubo, passando per BoxTrolls, ParaNorman e il citatissimo Coraline, quest’ultimo battuto di un minuto nel primato di stop-motion movie più lungo al mondo.

«Tutte le storie hanno una fine».

Ad impreziosire un prodotto già di per sé fantastico, è stupendo poter evidenziare, per stima prima che per campanilismo, le musiche originali, studiate nel dettaglio, del pisano Dario Marianelli, premio Oscar® 2008 per Espiazione e compositore anche di BoxTrolls, Il solista, Everest, V per vendetta, Anna Karenina, Il pescatore di sogni, Agora, Jane Eyre, Orgoglio e pregiudizio, Quartet, Stanno tutti bene, Mangia prega ama, solo per citare le colonne sonore di maggior successo.

End credits da applausi con una While my guitar gently weeps di George Harrison, in una nuova versione cantata da Regina Spektor, e qualche chicca imperdibile, perciò non alzatevi immediatamente dalle poltrone, le vostre quest quotidiane possono attendere qualche altro minuto per godere fino alla fine di questo prezioso gioiello d’animazione che è Kubo e la spada magica.

«You are my quest».

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La ricompensa del gatto, di Hiroyuki Morita

Un film ideato un po’ per gioco, non per modo di dire: il soggetto originale era stato ideato dallo Studio Ghibli per un’animazione di appena venti minuti come intrattenimento per un parco a tema. Ma lo storyboard di Hiroyuki Morita impressionò talmente tanto Toshio Suzuki che lo spinse a chiedere a Hayao Miyazaki di poterlo realizzare come lungometraggio. In tre anni Neko no ongaeshi, La ricompensa del gatto,  vide la luce nel buio di una sala. Distribuito sin dal 2002 con il titolo internazionale The cat returns e presentato la prima volta in Italia nella versione originale con sottotitoli in italiano al Future Film Festival del 2005, questa leggiadra favola giapponese sarà distribuita da Lucky Red finalmente con un doppiaggio encomiabile, che privilegia i professionisti invece di cedere alle lusinghe delle comparsate illustri. Al cinema, ma solo il 9 e il 10 febbraio.

Animatore nel 1989 per Miyazaki in Kiki consegne a domicilio, Hiroyuki Morita lavora successivamente per Satoshi Kon, con il quale collabora per quasi tutti gli anni ’90 animando il suo episodio di Memories e poi anche il thriller hitchcockiano Perfect blue. Tornato in seguito allo Studio Ghibli, lavora per Isao Takahata (My neighbors the Yamadas) e passa a dirigere la sua prima e unica pellicola, The cat returns. Il film è tratto dal manga di Aoi Hiragi, a sua volta spin-off di un altro suo racconto dal quale nel 1995 era già stato tratto il già citato I sospiri del mio cuore di Yoshifumi Kondo.

Una liceale di nome Haru salva un gatto che sta per essere investito da un camion. Il gatto ringrazia nel linguaggio umano, fa l’inchino e se ne va. Da quel momento la vita di Haru non sarà più la stessa: il gatto salvato è il principe ereditario e l’eccelso re dei gatti farà di tutto pur di dimostrarle la sua infinita riconoscenza. Ma un eccentrico re non può che avere idee bislacche e così Haru si troverà subito in un mare di miao – pardon! – di guai. Come farà a sbrogliare questa intricata matassa e tornare alla sua vita di tutti i giorni?

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L’insieme delle avventure/disavventure di Haru possono essere viste come un percorso di formazione che la porta dall’adolescenza alla maturità. Si tratta di un viaggio dell’eroe un po’ particolare che può essere diviso in due fasi con due protagonisti che alternativamente si pongono al centro della storia. Dapprima è Haru a combattere e sconfiggere il drago-camion con tanto di spada-racchetta da lacrosse, per salvare l’innocente in pericolo e grazie a questo ricevere la ricompensa per poi poter far ritorno a casa, migliorando magari la situazione di partenza. Ma la ricompensa si dimostra non conforme alle esigenze dell’eroe e la situazione precipita quando il re dei gatti si mette in testa di dare la ragazza in moglie al principe. È a questo punto, quando è Haru ad essere in pericolo, che occorre un nuovo eroe. Ad aiutarla sarà il barone Humbert von Gikkingen, detto Baron, una statuetta di gatto vestito da gentiluomo inglese che prende vita al tramonto, di cui abbiamo già fatto la conoscenza in un altro capolavoro dello Studio Ghibli, I sospiri del mio cuore [titolo originale: Mimi o sumaseba, letteralmente “Drizzando le orecchie”], diretto da Yoshifumi Kondō, direttore dell’animazione e character designer dell’anime cult Conan il ragazzo del futuro, e scritto da Hayao Miyazaki. È Baron l’eroe della seconda parte, quando le cose si mettono decisamente male per Haru. Ad aiutare la ragazza, oltre a lui ci sono anche il gatto Muta, altro personaggio preso dal film del 1995, e il corvo-gargoyle Toto, creatura capace di trasformarsi come Baron in quel luogo magico che è l’Ufficio del Gatto, una specie di Baker Street, con il protagonista che ricorda molto da vicino lo Sherlock Holmes versione antropomorfa di Miyazaki, guarda caso.

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La narrazione filmica è ricca di elementi del folklore giapponese: il profondo rispetto verso i gatti, considerati spiriti saggi e portatori di fortuna, ma soprattutto la credenza che anche le cose abbiano un’anima. Quest’ultimo elemento, personificato da Baron e Toto, oggetti in cui alberga un’anima, fornisce una connotazione ecologica alla favola animata. Gli oggetti che accompagnano la nostra vita e le nostre attività non si devono considerare mere cose da sfruttare per poi disfarsene senza un motivo valido, è il concetto del mottainai 勿体無い “non sprecare”, non trattare male, non buttare un oggetto che può ancora mostrare la sua utilità, piuttosto bisogna cercare di riciclarlo, per permettergli così di dar vita a un nuovo oggetto. Senza giungere a casi-limite come la coperta di Linus, il concetto che sta alla base dell’elemento magico del film è che gli oggetti hanno una loro essenza, fedeli compagni di lavoro, stimoli per nuove idee ancore di conforto, che teniamo strette a noi perché ci danno sicurezza, ci aiutano ad affrontare le nostre paure, e ci seguono per parte della nostra vita, come compagni di viaggi silenziosi su cui poter sempre fare affidamento. Ed è nello scorrere del tempo che si animano di vita fino a diventare degli spiriti. Si chiamano tsukumogami 付喪神 [“gli spiriti delle cose”], e secondo una credenza giapponese hanno origine da un qualunque utensile che abbia compiuto almeno 100 anni. Raggiunta tale età, tutti gli oggetti diventano spiriti, il cui aspetto può variare molto, sia in base al tipo di oggetto da cui viene originato, sia in base all’uso che ne è stato fatto e alle sue condizioni. Se l’utensile è stato gettato via senza alcun rispetto, perché ritenuto ormai inutile, oppure trattato male o rotto, diventerà uno spirito maligno in cerca di vendetta, e anche il suo aspetto sarà terrificante; in caso contrario, avrà un aspetto benevolo e si manifesterà solo per apparizioni inoffensive.

Anche i nomi dei personaggi principali sono stati pensati per inserire un ulteriore strato di significazione. Sul piano etimologico, Haru sta per “primavera” e Muta significa “insieme” e ha la stessa radice della parola “muteki” che vuol dire “invincibile”. Sul piano dei riferimenti crossmediali, invece, non si può non notare che la leggenda di Renaldo Moon sia simile alla storia di Moby Dick o che il nome Toto richiami alla mente il fedele compagno di viaggio di Dorothy ne Il meraviglioso mago di Oz di L. Frank Baum, fiaba e allo stesso tempo romanzo di formazione, come il film stesso o. Una circostanza analoga la si può riscontrare con un’altra “fiaba di formazione”, Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, per la quale i riferimenti si sprecano. Solo per citarne alcuni: Haru è curiosa, attratta dal mistero, non si fa scrupoli a dialogare con gli animali e segue un gatto bianco, invece di un coniglio, in un posto lontano dal suo spazio-tempo, l’Ufficio del Gatto, una sorta di anticamera al Regno dei Gatti, «il posto dove va chi non riesce a vivere il proprio tempo», dove subisce una trasformazione dimensionale proprio come Alice. Un’ulteriore elemento a sostegno di questa tesi è la conoscenza del trio di amici composto da Baron, Muta e Toto che corrispondono al gruppo Cappellaio Matto, Lepre Marzolina e Ghiro, con tanto di degustazione di chiffon cake, bacche di gelso e tè, fatto con una «miscela speciale che ogni volta cambia lievemente gusto», come fosse una delle speciali caramelle di Willy Wonka.

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Disseminati per la città sono veramente tanti i riferimenti nascosti sottoforma di insegna di negozio, ad esempio La rosa di Versailles, traduzione letterale dell’originale Berusaiyu no bara, da noi famoso come Lady Oscar, diventa il nome di un salone di bellezza, oppure l’occhio volante della sorveglianza sono simili a quelli della serie Chobin e poi gli occhi strabici e di differenti colori dell’eccelso Re dei Gatti ricordano quelli del Dr. Zero, nemico di Fantaman, tutti elementi che presumibilmente provengono dal bagaglio culturale televisivo del regista stesso e dello staff dello Studio Ghibli. A completare questo gioco enigmistico con lo spettatore attento e perspicace, una crittografica firma del regista Morita che campeggia su di una scatola di biscotti…

Il legame con il testo di Carroll, la passione per gli enigmi e il rapporto con la cultura pop è confermata anche dalla citazione cinematografica del percorso dedalico che, in Labyrinth, la protagonista deve affrontare, insieme a tre amici incontrati lungo la strada, per raggiungere il castello multidimensionale di Jareth, posto al centro del labirinto e ispirato alle opere di M. C. Escher. Come il Re dei Gatti, anche il personaggio interpretato da David Bowie chiede alla protagonista di diventare la regina di quel mondo dove non sarà mai costretta a crescere.

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Un po’ quello che accade allo spettatore di questo come di ogni altro film fantastico: tutti per qualche minuto veniamo trascinati in un mondo che è fuori da quello reale, fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni, e viviamo le avventure come se fossimo dentro quei personaggi a cui ci siamo affezionati, per poi, alla fine del percorso, tornare ad essere gli adulti più o meno responsabili che è necessario che siamo.

Ma come non si può dimenticare la canzone finale Kaze ni naru, davvero bella e orecchiabile, non dobbiamo mai dimenticare il bambino racchiuso in ognuno di noi, che è il motore della nostra voglia di vivere, di inseguire sogni e di essere felici. Perciò guardiamo La ricompensa del gatto e diventiamo tutti Alici… ehm, gatti… insomma, non nascondiamo quella sana curiosità che ci muove all’avventura e ci rende capaci di essere gli eroi delle nostre vite!

Il viaggio di Norm, di Trevor Wall

Il Polo Nord è in pericolo? Ci pensa Norm, un simpatico orso bianco che non sa cacciare, ma sa comunicare anche con il linguaggio umano e, soprattutto, sa ballare divinamente! Questi suoi interessi che esulano dal tradizionale modus vivendi dei suoi simili, lo rendono triste e solo, specialmente da quando è scomparso il nonno. Le potenzialità di Norm, come accade per la maggior parte dei “multipotentialite” come lui, vengono soffocate per paura di un fantomatico disordine sociale o assurde ragioni simili. Anche il padre, sovrano dell’Artide, gli ricorda le regole di un regno, dove «si caccia, si regna, si dorme» e dove non c’è spazio per nient’altro, salvo delle buffe esibizioni occasionali per turisti organizzate da Stan, fratello di Norm, anche lui attratto dal palcoscenico, anche se da dietro le quinte. Chi come Norm, invece, aveva il dono della parola era il nonno che, oltretutto, rappresentava un modello di re istintivo e perspicace che «sente la sofferenza dei ghiacci».
Quando Greene, un magnate senza scrupoli, cerca di realizzare, a dispetto del suo nome che rimanda alla natura e alla green economy, un immorale progetto di urbanizzazione del Polo Nord, infischiandosene dell’impatto ambientale e dei potenziali danni che il surriscaldamento della calotta polare può provocare all’ecosistema artico e al mondo intero.
Su consiglio del gabbiano Socrate e dell’orsa Elizabeth, Norm va a risolvere il problema all’origine: a New York. E così, tra rivisitazioni etimologiche della “pole dance”, esibizioni di twerk, brani pop famosi ed orecchiabili, sofisticate operazioni di marketing, tra cui un flash mob a Times Square, e rocamboleschi inseguimenti per le strade trafficate di Manhattan, l’eroe dei ghiacci del Nord mette in atto il suo piano per salvare la sua casa e il mondo intero.

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Impresa impossibile? Forse, ma Norm non è da solo! Ad aiutarlo ci sono Olympia, una bambina prodigio, figlia della direttrice marketing di Greene, e i tre lemming, roditori artici di piccole dimensioni, i perfetti compagni di team per un multipotentialite, specialisti di missioni impossibili, pronti a tutto e praticamente indistruttibili, grazie alla loro speciale costituzione fisica, tanto leggera e soffice da essere a prova di urto. I lemming svolgono egregiamente sia la macrofunzione comica sia una microfunzione di coro, in tutti i sensi! Il pubblico viene letteralmente calamitato dalle loro gesta, eroiche e non! Un po’ come accaduto in passato con i pinguini di Madagascar o i Minions di Cattivissimo me. Chissà che non possano un giorno avere anche loro uno spin off incentrato su di loro. Sarebbe un bel risarcimento per la loro reputazione, meschinamente ridicolizzati da un “documentario” del 1958 della Disney intitolato White wilderness, che include varie scene di lemming che sembrano buttarsi da un’alta scogliera. In realtà, le scene in questione sono state costruite ad arte in Manitoba. Una farsa che ha affibbiato ai lemming la nomea di animale con la tendenza al suicidio di massa, cosa che non ha alcun fondamento scientifico. L’unico dato di fatto che può, in qualche modo, aver contribuito alla creazione di questo falso etologico è che i lemming sono soliti migrare in gruppi numerosissimi e, di conseguenza, molti di loro possono morire per cause accidentali oppure per la pressione degli altri individui che può provocarne la caduta in corsi d’acqua e dirupi. A causa della loro associazione con questo bizzarro comportamento, la sindrome del lemming è una diffusa espressione utilizzata per riferirsi in maniera metaforica a persone che seguono acriticamente l’opinione più diffusa, con conseguenze pericolose o addirittura fatali. Forse non a caso è stato scelto questo tipo di animale per affiancare un orso polare con problemi da multipotentialite.

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Per chi legge il termine per la prima volta, per multipotentialite s’intende una persona che nella vita ha molti interessi, diversi tra loro e spesso neanche interconnessi. Non ha un’unica vocazione, ma il suo percorso segue molti sentieri in sequenza o contemporaneamente, o entrambi. Spugna dalla straordinaria capacità assorbente per quanto riguarda l’apprendimento, intellettualmente e artisticamente curioso e pronto all’esplorazione di tutto, il multipotentialite riesce in poco tempo ad aver padronanza di nuove competenze ed è eccellente a produrre idee in modo creativo che connettono le diverse materie di cui si interessano. Sarebbe un incredibile innovatore e risolutore di problemi, se non fosse ostacolato dal tradizionale modo di vedere il mondo. Ma, come molto, troppo!, spesso accade il “diverso”, che in realtà è solo “divergent”, come Norm, in quanto anticonvenzionale ed eccentrico, viene emarginato dalla comunità di orsi, preso in giro dai caribou di turno, costretto a nascondere la propria identità, unica ed irripetibilmente magnifica.

Come magnifica è stata l’originale tecnica di filmare lo storyboard con artisti che recitano e ballano dal vivo, per poi passare il materiale al team di illustratori e animatori, per rendere più realistiche possibile le espressioni, le emozioni e la gestualità dei personaggi del film. Mentre per l’ambiente artico il regista Trevor Wall e la crew, che lo segue dai tempi della televisione e del successo Sabrina: i segreti di una vita da strega, hanno preferito un design più da cartone animato che superrealistico, per le sequenze di Manhattan e i vari grattacieli hanno utilizzato immagini computerizzate in modo da costruire uno spazio urbano stilizzato, modellato direttamente su edifici reali, ad esempio il Walt Disney Concert Hall di Los Angeles ha fatto da modello di riferimento per minacciosa casa futuristica dell’immobiliare Greene. Di nuovo la Disney. Un’altra allusione negativa nascosta nel sottotesto? I nomi derivati dalla cultura greca, Socrate e Olympia, e la scelta di fare di un orso bianco il re dell’Artide confermano la presenza, quantomeno, di un sottotesto ben studiato: la parola Artide viene dal greco ἀρκτικός (arktikos), ossia “vicino all’Orsa”, cioè a Nord, e deriva a sua volta da ἄρκτος (arktos), che significa proprio “orso”. Il riferimento è sia alla costellazione dell’Orsa maggiore, che si trova nell’emisfero settentrionale della volta celeste, sia alla costellazione dell’Orsa minore che contiene Polaris, la stella polare, fin dall’antichità punto di riferimento fondamentale perché stabilmente fissa al Nord geografico, secondo la percezione umana. Non poteva, quindi, che essere un Ursus maritimus, come lo chiamerebbe Olympia, il simbolo della difesa di un ecosistema il cui stato di salute è il fulcro del destino dell’intero pianeta.

«Sta arrivando qualcuno! Siate naturali!»

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Originariamente realizzato per il mercato home cinema, Il viaggio di Norm è anche e soprattutto questo: una favola ambientalista che tocca il tema della diversità come valvola di innovazione, attraverso una forma divertente e scanzonata, ma soprattutto molto semplice, in modo che i contenuti possano arrivare dritto al cuore anche degli spettatori più piccoli, senza alcuna difficoltà di comprensione. Il viaggio dell’eroe è più che mai di natura formativa, spirituale, educativa, alla scoperta di sé – e della rivoluzione a cui porta il “think different” –  e alla ricerca di quel coraggio che serve per credere nelle proprie capacità, anche se sono fuori dalla norma. Tanto, in fondo, chi decide cosa è “normale” e cosa non lo è?

Il piccolo principe di Mark Osborne: ecco il trailer ufficiale

«Un tempo lontano, quando avevo sei anni…» Inizia così una storia universale, una favola senza tempo che è diventata un film attesissimo. Il 1° gennaio, infatti, uscirà finalmente anche in Italia Il piccolo principe.

Tratto dall’omonimo romanzo di Antoine de Saint-Exupéry e diretto da Mark Osborne, uno dei registi di Kung Fu Panda, il film racconta la storia dal punto di vista di Prodigy, una ragazzina intraprendente che ha una madre in carriera che le ha organizzato la vita fino all’ultimo secondo con il solo scopo di entrare in una prestigiosa facoltà. Durante l’estate, però, Prodigy si distrae dal programma impostole grazie al vicino di casa, un vecchio e strampalato ex-aviatore che inizia a raccontarle la storia del “piccolo principe”, un ragazzino che lui stesso avrebbe incontrato anni prima in pieno deserto dopo che il suo aereo cadde. Quando l’aviatore finisce in ospedale a causa di un incidente prima di poter finire il racconto, Prodigy lo va a trovare, ma rimasta delusa dal finale, inizierà una rocambolesca avventura per trovare nuovi percorsi. Riuscirà a cambiare il corso della storia?

Per la versione italiana hanno prestato la voce grandi personaggi del cinema italiano: Toni Servillo (l’Aviatore), Paola Cortellesi (la Mamma), Stefano Accorsi (la Volpe), Micaela Ramazzotti (la Rosa), Alessandro Gassmann (il Serpente), Giuseppe Battiston (l’Uomo d’affari), Pif (il Re), Angelo Pintus (il Signor Principe) e Alessandro Siani (il Vanitoso).

Ecco il trailer ufficiale in italiano de Il piccolo principe.

I rimandi allegorici e il carattere näif dei disegni sono rimasti inalterati rispetto al romanzo ed il film è fedele anche alla morale che osserva l’incapacità degli adulti di andare oltre l’apparenza e immedesimarsi in un mondo, quello dell’infanzia, capace di emozionarsi per ogni cosa.
«Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi».

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Asterix e il regno degli dei in DVD

Avete dimenticato di prendere qualcosa per i figli del vicino? Pensate sia tardi per correre ai ripari? Non è vero.

Basta correre a prendere Asterix e il regno degli dei, la nuovissima avventura dei personaggi creati da Uderzo e Goscinny. La prima interamente realizzata in computer grafica. Un film che terrà incollati allo schermo anche i bambini cresciutelli più o meno nascosti dentro ognuno di noi. Si tratta della trasposizione animata del 17° albo della serie e racconta di un nuovo pericolo che incombe sui Galli più famosi al mondo.

Stavolta Cesare, con l’obiettivo di indebolirli e “civilizzarli”, decide di costruire proprio fuori dal villaggio dei Galli una zona residenziale per nobili romani chiamata “il regno degli Dei”, privando i nostri amici della loro principale risorsa, il bosco. Tra tutti solo Panoramix, Asterix ed Obelix si accorgono del pericolo e come sempre toccherà ai nostri eroi salvare la situazione.

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La sceneggiatura rispetta la storia scritta da Goscinny, amplificandola in maniera egregia per il lungometraggio e non tralasciando situazioni e temi allegorici e anche sociopolitici. Così tra rivendicazioni sindacali dei legionari, schiavi che si rifiutano di diventare liberi perché l’indipendenza non conviene, consumismo, devastazioni ambientali, manipolazione dell’uomo medio e della coscienza collettiva si ride dei nostri tempi a distanza di millenni, e anche parecchio, con una regia eccezionalmente attenta alla suspense oltre che alla risata per ul film d’animazione al passo coi tempi. Ovviamente non mancano le geniali ed esilaranti gag che contraddistinguono da sempre questa fortunata serie. Insomma, divertimento assicurato per tutta la famiglia!

I contenuti extra del DVD sono tutto per tutti i gusti: le interviste a Louis Clichy, uno dei due registi, e Albert Uderzo, che non ha certo bisogno di presentazioni; l’immancabile making of del film; i segreti dell’animazione 3D; lo storyboard, sempre molto interessante; e i divertenti trailer. I Ricchi&Poveri nella colonna sonora, poi, sono una chicca di Goscinny, in quanto amante delle citazioni crossmediali, specialmente quelle riguardanti la cultura pop!

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Quest’anno non dovrete tirare a sorte il dvd nel reparto film d’animazione del centro commerciale più vicino. Con i nostri consigli non è mai troppo tardi! Ma adesso correte o dovrete giocarvi alla morra l’ultima copia rimasta sullo scaffale! BUON NATALE e… continuate a seguirci!
SPQRSono Pazzi Questi Regali!

Fantasticherie di un passeggiatore solitario di Paolo Gaudio

«È stato un viaggio stupendo finché è durato…»

Realizzato in tecnica mista Fantasticherie di un passeggiatore solitario rappresenta l’esordio nel lungometraggio del filmmaker Paolo Gaudio che, da anni, è impegnato nella sperimentazione di ogni tecnica d’animazione a passo uno: stop motion, puppet animation, pixelation, claymation, cutout animation, computer grafica.

Jean Jacques Renou [Luca Lionello] è uno scrittore che vive nel 1876, in uno squallido e angusto seminterrato, ossessionato dal desiderio di portare a termine la scrittura di Fantasticherie di un passeggiatore solitario, un romanzo di formazione sottoforma di ricettario fantastico che, per il suo autore, ha uno scopo ben preciso. Theo [Lorenzo Monaco] è un giovane laureando in filosofia dei nostri tempi, insicuro e intrappolato tra vicende familiari opprimenti e una bizzarra passione per i libri incompiuti, tra i quali proprio quello di Renou. Totalmente rapito dal romanzo, Theo si impone l’obiettivo di realizzare la “Fantasticheria n° 23”: una delle ricette, l’ultima scritta dal poeta, che conduce in un luogo straordinario chiamato Vacuitas. La lettura di Theo e la scrittura di Renou portano, intanto, in scena la storia di un bambino smarrito in un bosco senza tempo.
Tra gli altri interpreti: Fabrizio Ferracane, Angelique Cavallari, Fabiano Lioi, Nicoletta Cefaly, Domiziano Cristopharo.

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Una fiaba sul senso di colpa e sul fallimento, sull’incompletezza e sul desiderio di controllo.
Una scrittura cinematografica che utilizza i libri incompiuti come allegoria della condizione umana.
Una sceneggiatura in cui gli eventi, per quanto fantastici, assurdi, improbabili, raccontano di uno, nessuno e centomila personaggi che generano altrettante potenziali avventure che la “compiutezza” del film necessariamente tarpa.
I tre livelli spaziotemporali della narrazione portano ad un intreccio di significazioni, di allegorie, di riflessioni filosofiche ed esistenziali che sono simili a quelle di The Fountain, un capolavoro di Darren Aronofsky poco apprezzato dal grande pubblico e che forse è stato un po’ preso sottogamba dalla critica nel 2006. Oltre alle citazioni e ai rimandi dichiarati dall’autore nei confronti del cinema fantastico e di genere e di molti maestri degli effetti speciali, in Fantasticherie di un passeggiatore solitario si nota quantomeno l’influenza della rappresentazione “concreta” dell’immaginario tipica di Michel Gondry, soprattutto nella sequenza in cui Theo vola libero sulla città.
L’universalità dei contenuti trattati porta a riflettere sui rimorsi e i rimpianti del passato che, troppo spesso, condizionano il presente, non permettendo al futuro di muoversi libero, senza catene. Il bambino della realtà animata che è costretto a portare sulle spalle l’anziano esanime è un emblema proprio del conflitto generazionale e del peso che le scelte del passato hanno sulle generazioni successive.

Fare cinema di genere in Italia già è complicato, poi, se si va a considerare il settore dell’animazione di questo tipo, ci si rende conto di quanto coraggioso sia stato Gaudio e di quanto sia stato fondamentale l’apporto del Leonardo Cruciano Workshop, il laboratorio di effetti speciali che lo ha assistito nella realizzazione del film e con il quale Smart Brands ha dato vita al nuovo centro creativo e produttivo Makinarium, già noto al pubblico per aver reso possibili e di successo le creature de Il racconto dei racconti di Matteo Garrone.

In questo caso è notevole la volontà del regista di ridurre al minimo gli interventi di computer grafica per rendere il territorio dell’immaginazione e della fantasia un possibile elemento “concreto” della quotidianità, preferendo tecniche con animatori dal vivo, rimossi digitalmente in fase di post-produzione.

La parte live action, bisogna essere sinceri, lascia un po’ a desiderare per credibilità e spessore narrativo, forse perché gli attori italiani sono poco avvezzi a recitare simulando l’interazione con personaggi virtuali, non essendo una skill particolarmente richiesta dal nostro cinema. Nonostante questo, i riconoscimenti che il film sta ottenendo nei festival internazionali testimoniano che si può competere con il resto del mondo e siamo certi che continuerà a farlo, che affronterà con successo ogni ostacolo, innalzerà i suoi limiti e passerà oltre la sua incompiutezza per compiere grandi imprese. Non è solo un augurio, questo, ma un’estrapolazione dati alla mano: mentre aspettiamo il prossimo lavoro ispirato dalla fervida immaginazione di Lovecraft, il primo tentativo coraggioso di Paolo Gaudio conquista il Grand Prix du Festival de La Samain du Cinéma Fantastique di Nizza, il Best World Film del Boston Science Fiction Film Festival, l’Audience Award del Fantastic Cinema di Little Rock, il Premio Mario Bava per la migliore opera prima al Fantafestival di Roma, i premi per Miglior Film e Premio Speciale Antonio Margheriti al TOHorror Film Fest di Torino.

Dopo aver girato numerosi corti, Gaudio firma un’opera prima di genere fantastico carica di visioni surreali, che trascina il pubblico in un’avventura a più livelli che è anche un viaggio all’interno di noi stessi, eroi intrappolati in un mondo difficile che obbliga a riflettere, perché ogni scelta ha una conseguenza che può cambiare il nostro futuro.

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Se i personaggi del film, colpiti chi più chi meno da circostanze dolorose e traumatiche, sono ossessionati dalla vacuitas, nell’accezione di spazio vuoto, che può essere anche privazione e assenza, il film spinge, invece, verso il significato meno conosciuto della parola latina che rimanda ad un senso di libertà che nasce dalla mancanza di tutti quei pesi, quelle paure, che non permettono di volare.

«È questa la libertà! Essere liberi significa non credere alla paura dei grandi»