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Mary e il fiore della strega (Meari to Majo no Hana), di Hiromasa Yonebayashi

Mary e il fiore della strega racconta la storia di Mary Smith, una ragazzina di dieci anni, che non ne combina mai una buona anche quando deve semplicemente aiutare un giardiniere a togliere le erbacce e che odia la sua ribelle chioma capelli rossi. In estate va a trascorrere delle lunghissime e noiose vacanze presso la casa di campagna della prozia Charlotte. Un giorno però, seguendo i due gattini Tib e Gib nel bosco, trova tra l’erba folta uno strano fiore azzurro e luminoso. Quando il giorno dopo uno dei due gatti scompare e Mary ritorna nel bosco per cercarlo, trova una scopa incantata che, dopo un volo tormentato, la fa atterrare davanti all’Endors College, la scuola di magia diretta dalla preside Madama Mumblechook, e dal Dottor Dee, un docente che si interessa di magia metamorfica. Questa è l’occasione giusta per Mary: sfuggire al tedio interminabile delle interminabili giornate di campagna, non vedere più il viso antipatico del giovane Peter, un ragazzo del villaggio che la prende sin da subito in giro per la sua goffaggine e, soprattutto, per essere finalmente qualcuno. Certo, lei non è veramente una strega, ma a chi importa in fondo se nessuno non la scoprrà mai?

Mary e il fiore della strega

Mary e il fiore della strega è la prima opera dello Studio Ponoc, nato dalle ceneri dello Studio Ghibli, e composto da molti suoi ex appartenenti, tra cui proprio il regista Hiromasa Yonebayashi (che al Ghibli aveva già diretto Arrietty e Quando c’era Marnie). Il film, tratto dal libro per bambini di Mary Stewart, La piccola scopa (Mondadori, 2012) si inserisce perfettamente nel solco tracciato dall’antenato studio Ghibli e dal maestro Miyazaki (come non pensare immediatamente a Kiki – Consegne a domicilio?), diventando più un omaggio dello stesso che non una sua prosecuzione o, volendo spingersi oltre, evoluzione.

Ci sono forti elementi occidentali e mitteleuropei, come l’ambientazione della storia o lo stile di vita dei protagonisti che non hanno nulla di giapponese, facendo immediatamente pensare ad Heidi.

C’è il concetto perfettamente shintoista della relazione dell’uomo con la natura e della volontà che ha spesso il primo di superare i limiti della seconda per piegarla al suo volere (così come era stato già ne Il mio vicino Totoro di Hayao Miyazaki).

Eppure nonostante l’estrema perizia nella realizzazione dei disegni, l’originalità con cui viene messo in scena il mondo magico (che è interamente giapponese pur ammiccando in maniera prepotente all’universo di Harry Potter) e l’ulteriore metafora di fondo che ci spinge non demordere di fronte alle difficoltà della vita perché chiunque, in un modo o nell’altro, ha il suo spazio nel mondo ed è speciale a modo suo, manca l’approfondimento spirituale che contraddistingue le opere dello Studio Ghibli, a volte realizzato con quelle dilatazioni temporali che, inevitabilmente, annoiano i meno avvezzi allo scandire del tempo di matrice orientale (come in Principessa Mononoke o nella stessa Arietty di Yonebayashi), altre volte con profondi riferimenti ideologici a tematiche storico-sociali di un certo spessore (come in Porco Rosso).

Mary e il fiore della strega è una favola, delicata e dai ritmi giusti, ma adatta ai bambini, molto più di quanto non fossero le profonde pellicole dello studio Ghibli godibili pienamente solo con una certa maturità.

La tartaruga rossa, di Michaël Dudok de Wit

Porta la firma di un regista olandese l’ultimo capolavoro prodotto dal celebre studio Ghibli. Si tratta de La tartaruga rossa candidato all’Oscar come Miglior film d’animazione, titolo che si è visto portar via dallo sfavillante e coloratissimo mondo di Zootropolis della Disney.
Premiare un film dall’atmosfera senza dubbio più dimessa e alla ricerca di percorsi comunicativi meno scontati, come lo splendido ritorno al tradizionale 2D, sarebbe stata di sicuro una scelta per la giuria dell’Accademy più impopolare ma anche più coraggiosa e controcorrente (per quanto la Disney si porta a casa un successo tanto prevedibile quanto meritato).

La fatica di Michael Dudok de Wit, ideatore e regista del film in questione, vanta però un altro primato, di non meno importanza e di altrettanto prestigio: è il primo film non giapponese a essere interamente prodotto dallo studio del grande Hayao Miyazaki, da sempre massimo custode della più autentica tradizione dell’animazione nipponica.
Esiste però linguaggio universale così potente da sbriciolare le barriere culturali, una semantica che ha saputo creare un ponte tra la poesia dello studio Ghibli e l’animazione europea, fin’ora profondamente interconnessi per una serie di ispirazioni più o meno apertamente dichiarate ma che non si erano mai incontrati “ufficialmente”. Si tratta del linguaggio della fiaba, del sogno e dell’incontro con la natura.
La sorprendente purezza di una favola trasposta nel linguaggio dell’animazione è un po’ la cifra stilistica del regista, come si vede nella sua produzione precedente in modo particolare con il cortometraggio capolavoro che gli è valso un Oscar, Father and Daughter,  e che ha attirato l’attenzione di Isao Takahata, socio storico di Miyazaki e co-fondatore dello Studio Ghibli.

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Da un sorprendente invito a lavorare insieme, come racconta de Wit in una video intervista (che trovate qui http://www.imdb.com/title/tt3666024/trivia?ref_=tt_trv_trv) dopo 6 anni di lavorazione è nata La Tartaruga Rossa, una potente parabola primordiale che, come si diceva, parla un linguaggio tanto universale da non avere bisogno di parole. È infatti letteralmente un film privo di dialoghi e affronta il tema della sopravvivenza in maniera così metaforica e così primordiale da demolire ogni ostacolo dovuto al diverso modo di “sentire” il rapporto con il mondo circostante.
Takahata si è fatto mentore di questa produzione che ha definito totalmente giapponese e non si può in effetti negarlo almeno per quanto riguarda la resa del ritmo narrativo, nonostante il design e le animazioni appartengano all’europeissimo studio Prima Linea.

Il regista ha dichiarato che il film è “una sfida” all’osservatore, i suoi 80 minuti di assordante silenzio lasciano spazio solo al rumore del vento, delle foglie, al fragore della tempesta, dell’oceano, al misticismo dell’incontro, quello che, se si ha abbastanza coraggio da consentire di accogliere l’altro, ha la potenza di cambiare letteralmente la vita.

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La storia si basa su una potente struttura narrativa archetipica, quella del “buon selvaggio”, del naufrago trasportato su un isola deserta che può far affidamento solo sulle sue forze per sopravvivere in una dimensione estranea in cui domina una natura incontaminata, popolata solo da simpatici e dispettosi granchietti e da enormi tartarughe marine. Non è un caso che si scelga la tartaruga per simboleggiare l’unione con la natura: un animale centenario, emblema di un’essenza che sopravvive ai cambiamenti, che con lentezza e testardaggine segue il suo istinto e che appena venuta al mondo sfida ogni mistero per rituffarsi nell’infinito da cui proviene. Ed è proprio dall’incontro con una di queste creature che si sprigiona la magia e si svela il senso metaforico della storia che ripercorre le tappe fondamentali della vita di ciascun essere umano.

La tempesta che costringe a ripartire da un luogo diverso rispetto a quello previsto, la forza di volontà di chi accetta la propria disperata condizione e i propri limiti, il disfacimento dei propri progetti letteralmente fatti a pezzi da ostacoli incomprensibili, il pentimento che “rompe la corazza” con cui ci si protegge e apre alla conoscenza dell’altro, l’amore  disinteressato, la sfida nel lasciare libero chi amiamo di seguire la propria strada. Lo tsunami, cioè la potenza della natura – e della vita – che si abbatte su una serenità faticosamente costruita per lasciar spazio solo a uno scenario di distruzione e morte. E ancora la metafora della morte, quella vera e quella metaforica, che riapre un ciclo nuovo e pretende che si riparta per una nuova misteriosa avventura. È un nucleo familiare biblico quello che si muove in una sorta di Eden tropicale a guidarci in questo viaggio simbolico.

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Tutto questo si presenta allo spettatore con degli scenari acquerellati incantevoli, un’animazione pulita e meravigliosamente tradizionale che vede l’uso del CGI relegato al solo movimento sinuoso delle tartarughe in acqua, tutto il resto è disegno a mano libera. Il character dei personaggi rivela l’origine europea della pellicola, per la linea pulita e sintetica che richiama la tradizione franco belga, in modo particolare lo stile di disegno di Hergè che aumenta la dimensione fiabesca. Controbilancia il tutto una resa maggiormente dettagliata scelta per l’ambiente naturale che fa da sfondo alla vicenda.

Un sound design di grande impatto completa il quadro e rende efficacemente reale l’esperienza immersiva in una natura sovrana e incontaminata, lasciando spazio, quando l’esperienza emotiva e una narrazione meno didascalica prendono il sopravvento, a una musica orchestrale potente e coinvolgente.

La solita incomprensibile politica della distribuzione italiana ha nuovamente relegato il film al mini evento di tre giorni di proiezione, nonostante la grande schiera di appassionati in continua crescita. Questa scelta, insieme al costo aumentato del biglietto, rischiano purtroppo di bollare il film come prodotto di nicchia, impedendo una larga diffusione a una pellicola che non ha la pretesa di un clamore assordante ma che punta invece sull’autenticità dei sentimenti capace di suscitare.

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Nelle sale solo il 27, il 28 e il 29 marzo, La tartaruga rossa ha la forza di una fiaba  ricca di significato che dovrebbe essere ammirata da grandi e piccini.
Il film infatti evoca  una liricità assai lontana da quella a cui l’animazione degli ultimi anni ci ha abituati e che sarebbe invece utile recuperare. La narrazione punta alla ricerca di una purezza arcaica, in cui domina la dimensione sonora e visiva. La calibrata ambiguità tra la dimensione reale e quella fantastica appartiene a  un’oralità primordiale dimenticata, come le favole antiche da raccontare ai bambini che valorizzano il linguaggio emotivo più puro e autentico.
La formula del ritorno al racconto per un film di animazione appare una scelta davvero innovativa nell’epoca del cinema ipertecnologico e ancora una volta lo Studio Ghibli crea un mondo immaginario come sospeso, capace di conservare un’autenticità mai scontata.

Ghost in the Shell: il footage in anteprima

Dopo Milano anche Roma, presso il cinema Moderno di Piazza della Repubblica, ha dedicato una serata all’anteprima esclusiva dei primi 15 minuti di proiezione dell’attesissimo Ghost in the Shell, l’action movie tratto dall’opera di fama mondiale di Masamune Shirow. Noi di ShakeMovie c’eravamo!

Per gli appassionati del genere cyberpunk e degli anime giapponesi, Ghost in the Shell non ha bisogno di presentazioni. Vertice assoluto e pietra miliare dell’animazione nipponica, l’universo futuristico creato da Masamune nasce come manga seriale pubblicato la prima volta sul finire degli anni 80 ma è con i film di animazione che conosce uno strepitoso successo internazionale.

Con la regia di Rupert Sanders, prende vita e spessore tridimensionale il Maggiore Mira, cyborg che opera con l’unità antiterroristica “Sezione 9” in una ipertecnologica Tokyo futuristica, la sua storia approda finalmente al linguaggio cinematografico.
Le polemiche derivate dalla scelta di far interpretare il ruolo della protagonista da Scarlett Johansson sono state definitivamente liquidate dopo l’approvazione arrivata in modo ufficiale sia da parte della Kodansha, la casa editrice giapponese che ha pubblicato il manga originario, sia da Mamoru Oshii, regista del fortunato anime e dei sequel che ne sono derivati.

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Distribuito in Italia dalla Universal Pictures, il film uscirà nelle sale il prossimo 30 marzo.L’attesa è febbrile per gli appassionati e la circolazione dei primi trailer hanno lasciato ben pochi dubbi: lo spettacolo è assicurato!
La visione del primo quarto d’ora ha confermato queste ottime premesse. L’atmosfera alla Blade Runner è perfettamente resa e la somiglianza con quello che per molti è un cult intoccabile è fuori discussione. I fan puristi non potranno lamentarsi.
La visione in 3D della pellicola sarà un imperativo categorico per chi vuole gustare appieno la stupefacente suggestione visiva data dalla ricostruzione di un universo narrativo così complesso attraverso effetti speciali stupefacenti e da una regia che riproduce sequenze e inquadrature proprie dell’animazione con movimenti di camera esageratamente forzati.

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Il ritmo è sostenuto, calibrato da quella commistione perfetta di freddezza ipertecnologica e di profondo senso di inquietudine che solo i migliori scenari futuristici sanno far emergere.
Forse in definitiva l’ostacolo maggiore che si presenta al film risiede proprio nella difficile resa del messaggio originale di Ghost in the Shell.
Come nella migliore tradizione giapponese, la Tokyo del futuro è un potentissimo strumento nelle mani del narratore che intende riflettere sulla perdita di identità, su quanto la complessità dell’animo umano strida di fronte a un’evoluzione tecnologica inarrestabile e sempre più alienante.

La spettacolarizzazione a cui il film ha ampiamente dimostrato di saper far fronte è una scelta forzata per soddisfare il pubblico e per riprodurre un’estetica che fa da spartiacque nell’immaginario collettivo degli anni 90, ma rischia al tempo stesso di ridurre la complessità narrativa che sta alla base dell’idea di partenza dell’autore.
Stabilito che dal punto di vista grafico il film non rischia di deludere i fan e riuscirà facilmente anche a intrattenere i meno avvezzi al genere, rimane da scoprire se questa versione cinematografica saprà emozionare ancora quella generazione che vent’anni fa per la prima volta ha ammirato su nastri VHS un capolavoro dell’animazione di tutti i tempi. Ai posteri l’ardua sentenza.
L’appuntamento è al cinema il 30 marzo 2017!

Your name, di Makoto Shinkai

Vi siete mai chiesti quale sia il senso del time lapse? Le stagioni si inseguono rapide, i cieli cambiano colore con lo scorrere delle ore e l’intreccio narrativo resta sospeso, in attesa che un evento degno di essere raccontato conquisti il suo posto all’interno della pellicola. Con la rapida successione di cieli maestosi che lo spettatore vede scorrere davanti agli occhi durante la visione di questo nuovo film d’animazione giapponese, il regista sembra voler suggerire che milioni di destini in quel lasso di tempo si incrocino, si sfiorino o si perdano per sempre. Come accade ai due protagonisti della storia, i fili di due vite possono intrecciarsi e il tempo, come un magnifico telaio, dà a ciascuna trama un senso.

Proprio sotto l’influenza di un cielo mozzafiato i giovani Taki e Mitsuha, un ragazzo di Tokyo e una ragazza residente in un piccolo villaggio rurale del Giappone, scoprono che le loro vite in qualche modo si incrociano e a ognuno di loro capita di risvegliarsi nel corpo dell’altro (impossibile non pensare a Ranma ½, il famoso manga di Rumiko Takahashi, soprattutto in alcune divertenti scene che giocano proprio sullo scambio di identità!).

Incastrati l’uno nel corpo dell’altra, i due adolescenti si ritrovano catapultati in una doppia vita, che, dopo le prime non scontate incomprensioni da parte di amici e colleghi, imparano a controllare nel migliore dei modi. Uno scambio di ruoli gestito a ritmo di app sul cellulare e di schermaglie, che tuttavia rafforza in ciascuno dei due personaggi la percezione di se stessi e della realtà circostante.

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Sarà uno spettacolo celeste insolito e mozzafiato a stravolgere di nuovo le loro vite, a interrompere bruscamente la linea temporale che si era magicamente sovrapposta. I due ragazzi tuttavia non si arrendono di fronte al confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è e, come accade al crepuscolo quando la notte insegue il bagliore diurno, si cercano senza riuscire ad afferrare l’essenza più intima dell’altro: il nome.

Scritto e diretto da Makoto Shinkai, già sorprendente creatore di successi come 5 cm al secondo e Il giardino delle parole, Your Name si inserisce con la forza di uno strepitoso successo di pubblico tra i capolavori dell’animazione nipponica di tutti i tempi.

L’uscita in Italia, annunciata a suon di record e di riconoscimenti conquistati nel paese di origine, dove ha addirittura intaccato alcuni degli storici primati detenuti dallo studio Ghibli, è stata presentata al pubblico da Nexo Digital con un evento che prevedeva tre giorni di programmazione. Lo strepitoso risultato registrato anche ai box office italiani e le numerose richieste dei fan hanno spinto la distribuzione a riproporre il film nelle sale per altri due giorni, il 31 gennaio e l’1 febbraio. Chi lo ha perso ha dunque la possibilità di recuperare un film che non deluderà sotto nessun punto di vista gli amanti del genere e che è destinato ad occupare un posto di rilievo nella storia dell’animazione cinematografica.

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Un successo fenomenale dunque, dovuto al mix emozionale perfettamente orchestrato tra cultura pop giapponese e ritualità tradizionale, ambientazioni da lasciare senza fiato e una storia dai toni tanto pacati quanto appassionanti. L’intreccio narrativo, sebbene complesso, è sempre sostenuto in maniera impeccabile e non lascia spazio a buchi temporali o situazioni giustificabili solo tramite la presenza dell’elemento irreale. Ogni pezzo combacia con quelli attigui e si inserisce a completare un quadro più ampio e dettagliato. Il ritmo della storia appare scandito dal battito del cuore dei personaggi, nella maniera che riesce solo agli autori giapponesi e che sa conquistare intere generazioni di inguaribili sognatori sparsi in tutto il mondo.

Un sottofondo di appassionante nostalgia pervade ogni sequenza del film e trova eco nella scelta azzeccata del soundtrack, con musiche scritte appositamente  da una giovane pop band  nipponica.

Dolce, scanzonato, nostalgico, pieno di vitalità: ogni brano prende per mano lo spettatore e lo invita a condividere all’unanimità le sensazioni dei due protagonisti e del gruppo di personaggi che li sostiene e li incoraggia a inseguire il proprio destino. Anche quando tutto sembra perduto.

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Come negli universi narrativi creati da Murakami, la storia di Taki e Mitsuha si focalizza su due vite parallele che apparentemente sembrano procedere senza alcun rapporto di reciprocità ma che invece entrano in contatto e, influenzandosi in modo irreversibile, non possono più fare a meno l’una dell’altra. Quante persone ci passano accanto ogni giorno e in mezzo al caos non siamo in grado di cogliere il senso della loro presenza? Questo in un certo senso il  significato del time lapse inserito nel film e colonna portante dell’intera storia come suggerisce l’autore stesso in una nota iniziale. Your Name è la risposta piena di grazia e di leggerezza che Shinkai regala al suo pubblico, affrontando un tema che ricorre spesso nelle sue storie: il potenziale incontro di due vite destinate a trovarsi oltre qualsiasi distanza spaziale o temporale.