La favola napoletana “Vicini di Stalla”, per la regia di Ninni Bruschetta, è approdata al Teatro della Cometa di Roma, e rimarrà sul palco fino al 10 gennaio, portando via con sé risate e festività. Scritta da Antonio Grosso e Francesco Stella, la commedia narra le vicende dei pastori partenopei Corallo (Grosso) e di suo zio Armonio (Ciro Scalera) che, fuggiti dalla propria patria, si rifugiano in una stalla di Betlemme portandosi dietro solo poche cose e la fedele asinella Rosaria. La sistemazione costa ben più di quanto offra ma soprattutto è di proprietà di un rabbino del luogo, Arcadio (Antonello Pascale), dalla parlata forbita, dai modi impeccabili e dall’anima oscura. Come vicina di casa, inoltre, zio e nipote si ritrovano Sara (Federica Carruba Toscano), prostituta e speziale romana dall’accento siciliano, dai modi sfrontati e dal passato difficile.
Le vicende personali dei due pastori, schiacciate da un fardello pesante, si intrecciano così con quelle di vicini rumorosi e invadenti, impegnandole inevitabilmente in battute e gag veloci. L’arrivo di una coppia di sposi in cerca di una sistemazione per l’imminente parto, darà una svolta inaspettata alla vicenda. I due pastori, infatti, che cercano di fuggire dal proprio passato con il profilo basso per iniziare una nuova vita a testa alta, si trovano ad essere il cardine di una storia più grande di loro e dal retrobottega dell’umanità in cui sono relegati, usciranno rinnovati. “Vicini di stalla” regala un punto di vista nuovo sulla natività, uno sguardo umano, affatto illuminato, composto di sentimenti bassi e pulsioni terrene, che però riesce a evolversi, a trovare un sentiero nella selva oscura della storia personale dei protagonisti.
L’umanità che popola le stalle di Betlemme è un’umanità abbrutita, misera ma realistica, inadatta a compiere atti straordinari, non in grado di riconoscere la santità del Messia, ma capace, alla fine, di essere toccata dalla luce, di abbandonare, anche solo per un istante, le bassezze e le ipocrisie per elevarsi quel tanto che basta per divenire parte di un disegno più grande. Il finale non rende i due pastori eroi, non li rende nemmeno consapevoli dell’atto di misericordia compiuto, ma li riscatta, determinando per loro una nuova umanità. Nonostante l’uso del turpiloquio, la commedia non sfocia mai nell’irriverenza, scivolando via leggera, appesa alla parlata napoletana che le dà verve e velocità, affiancata da un palpabile affiatamento degli attori. Lo spettatore ride e riflette, imparando che sono i piccoli, gli ultimi, le controfigure a fare la storia.