Arrival

Arrival, di Denis Villeneuve

Arrival è un’opera ben misurata, un rebus affascinante, non troppo macchinoso, della giusta difficoltà, che sa parlare anche al grande pubblico, non necessariamente patito di fantascienza, toccando il cuore del romantico con alte punte di sentimento dolceamaro. L’acume cinematografico di Denis Villeneuve, già candidato all’Oscar® nel 2011 per La donna che canta, come miglior film straniero, e regista dei bellissimi Prisoners e Sicario, che hanno rinvigorito il codice del thriller. Forte dei successi ottenuti, il filmmaker canadese, quest’anno vuole riscrivere i canoni del genere sci-fi, con Arrival, appunto, e con l’attesissimo Blade Runner 2049, la cui uscita è prevista per il 6 ottobre 2017 negli Stati Uniti.

Presentato in concorso alla 73ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Arrival trae il suo nucleo tematico dalle pluripremiate Storie della tua vita di Ted Chiang, e soprattutto da Story of your life, il racconto forse più interessante della raccolta, che è stato a lungo il titolo provvisorio del film.

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Siamo soli nell’universo?
Probabilmente non esiste essere umano che non se lo sia chiesto almeno una volta nella vita. Quindi, se un giorno vi trovaste davanti una delle dodici astronavi aliene del film, cosa chiedereste? “da dove venite?” e “perché siete qui?”, magari proprio in quest’ordine. Ma sorge un problema: come si può comunicare senza un linguaggio che faccia da ponte? Lasciando stare che spesso non ci si capisce nemmeno quando si parla la stessa lingua e che «si può comprendere la comunicazione e finire a vivere lo stesso da single», come afferma la stessa protagonista del film in una frase fondamentale per ricostruire correttamente gli inserti narrativi che non seguono la linea temporale della trama principale.

«Perché siete qui? Riuscite a capire? Da dove venite?».

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«Dodici! Perché non solo uno?».

Dodici misteriose astronavi extraterrestri appaiono sulla Terra. Non c’è una logica dietro la scelta dei luoghi dell’atterraggio e, anche se gli alieni manifestano una certa volontà di comunicare, i governi non sono in grado di stabilire un contatto produttivo. Così il Ministero della difesa americano incarica la linguista accademica Louise Banks [Amy Adams] di instaurare un dialogo con gli alieni, scoprire quanto più possibile e prima che qualche altra nazione scateni una guerra le cui conseguenze non possono essere che disastrose. In team con il fisico Ian Donnelly [Jeremy Renner, The Avengers], Louise dovrà affrontare una corsa contro il tempo in cerca di risposte che possono cambiare il corso degli eventi e, probabilmente gli stessi postulati fisici che sono alla base della conoscenza della razza umana.

«La lingua è il fondamento della civiltà, […] è la prima arma che si sfodera in un conflitto».

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Ad interpretare il colonnello Weber, il personaggio che sceglie Louise per “salvare il mondo” è l’ormai veterano della fantascienza Forest Whitaker: dopo aver preso parte a Ultracorpi – L’invasione continua, la personale versione di Abel Ferrara del classico The Body Snatchers, ha recitato in Specie mortale, è stato co-protagonista dell’intrigante Repo Men ma, soprattutto, è stato il carismatico Saw Gerrera in Rogue One: A Star Wars Story. Il colonnello sceglie Louise per la sua grande capacità di immergersi nella lingua per trovare la giusta mediazione e non è una sorpresa se Denis Villeneuve sceglie Amy Adams per l’umanità che sa trasmettere ai personaggi da lei interpretati, e rimane solo una battuta goliardica il fatto che le abbia giocato a favore essere la fidanzata di uno degli alieni più amati dal pubblico, Superman, L’uomo d’acciaio, e rimane una pura coincidenza che i due nomi Lois/Louise si somiglino. A fianco a lei anche Jeremy Renner, chiamato a rappresentare la personificazione della razionalità pura, del calcolo logico, della scienza che sa fare un passo indietro per lasciare la scena a chi ha incamerato le regole, le ha rielaborate e le ha stravolte in maniera geniale.

«Tu affronti le lingue da matematico».

La comunicazione è proprio una delle chiavi di lettura principali, sicuramente quella più evidente, sin dai primi frame. Ma la grandezza del film sta proprio nell’importanza di ogni tassello.

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La fotografia di Bradford Young [Selma – La strada per la libertà, La grande partita] ben si sposa con il tono poetico della storia: è desaturata, molto curata nella composizione, che sfrutta nel migliore dei modi e nella giusta misura la regola dei terzi, le diagonali e, quando è possibile, la sezione aurea, senza tediare con il virtuosismo fine a se stesso, al fine di dare risalto ai personaggi e alla comunicazione visiva, di supporto a quella verbale, protagonista indiscussa della sceneggiatura di Eric Heisserer [Lights Out: Terrore nel buio, ma anche Van Helsing, il reboot annunciato per l’ambizioso Universal Monsters Universe].

La difficoltà di comprensione è ben rappresentata e sottolineata in modo implicito, ma comunque abbastanza evidente nella versione originale del film, dal nome che Ian dà ai due interlocutori extraterrestri: Abbott & Costello, il duo comico che ha reso celebre il numero “Who’s on first”, derivato dagli intrattenimenti leggeri del vaudeville, e diventato lo sketch che rappresenta per antonomasia ed in maniera esilarante il misunderstanding verbale. Probabilmente per non far calare troppo la tensione (Abbott & Costello in Italia sono Gianni & Pinotto) e fornire un riferimento più popolare, la traduzione italiana ha deciso di sostituire con Tom & Jerry i nomi originali. Lungi dal demonizzare una scelta che sarà sicuramente studiata su basi di calcolo matematico, per il bene del film e per la completezza del suo messaggio sarebbe stato opportuno rischiare. Ma si parla, in fondo, di “pelo nell’uovo”!

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Proseguendo l’analisi del film e addentrandosi in un livello ulteriore di significazione, ci si imbatte nel meccanismo ad orologeria di Arrival, il concetto-cluster di TEMPO, che trascina a sé tutto il resto e lo condensa nella forma simbolica del CERCHIO e nella sua declinazione a tre dimensioni: la sfera, schiacciata per ottenere una particolare forma di astronave che possa richiamare un altro simbolo che nell’iconologia classica incarna insieme i concetti di perfezione e vita, l’uovo, o i “gusci” come vengono chiamati nel film.

Assieme, cerchio e tempo, in interconnessione simbiotica di significato, abbracciano materie e culture ben differenti, ma che contribuiscono al sapere dell’umanità e forniscono una connotazione molto alta al testo cinematografico. Senza scendere troppo nel dettaglio e per lasciare al lettore la libera scelta di documentarsi prima per una miglior comprensione o di verificare i molti rimandi solo successivamente alla visione di Arrival, è opportuno segnalare la massiccia presenza di citazioni di materia scientifico-linguistica come la successione di Fibonacci, la formula per calcolare la variazione dell’entropia che campeggia su una lavagna quando Louise spiega che prima di chiedere qualsiasi cosa deve accertarsi che gli alieni capiscano cosa sia una domanda, il concetto di “gioco non a somma zero” ma anche di logogramma, le scritture semasiografiche, l’ipotesi di Sapir-Whorf, l’ensō (= cerchio) del buddhismo zen inteso come sintesi perfetta della libertà d’espressione del tutt’uno corpo-spirito, gli orecchini a forma di nautilus e i nomi dei due protagonisti che diventano un omaggio allo scrittore di fantascienza Iain Banks.

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Se il punto di riferimento per gli esseri alieni eptapodi sembrano essere le descrizioni degli Antichi di Lovecraft, innestate su di un’ibridazione di animali terrestri comuni come polpi, elefanti, ragni e balene, per quanto riguarda gli spunti di riflessione ed il voler innalzare ad un livello più alto la conversazione fantascientifica al cinema non poteva non essere il Nolan di Interstellar e Inception, che «hanno raggiunto un traguardo incredibile, al livello di Spielberg» in Incontri ravvicinati del terzo tipo, secondo il regista Villeneuve. Anche Arrival come il film di Spielberg, e come 2001 di Kubrick, gioca molto sull’elemento sonoro. Quando il guscio-monolito è inquadrato un suono particolare, forse di un didgeridoo, e questo suono dal sapore ancestrale gradualmente si fonde, per stratificazione, con i rumori diegetici e con la musica minimalista, composta da Jóhann Jóhannsson [La teoria del tutto, Prisoners], in un tutto armonico, che sembra suggerire una primitiva armonia con il creato mescolata con la paura-fascino per il perturbante, rappresentato da tutto ciò che è alieno.

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In maniera più intrinseca, poi, nel sottotesto, Arrival pone anche altri quesiti. Dietro al “da dove venite” e “perché” si nascondono domande di natura esistenziale, introspettiva e tipicamente umana: chi siamo? da dove veniamo? dove siamo diretti?

E se c’è qualcosa che il film lascia da elaborare mentre la melodia palindroma del violino accompagna i titoli di coda è una riflessione sull’amore, che risulta l’unico elemento cosmico slegato da qualsiasi legge o altra forma di sottomissione gerarchica: l’amore fa il suo corso dove e quando vuole ed è ciò che rimane anche quando tutto il resto è finito. Nessuno sa se nell’infinito ci sia amore ma una sensazione innata ci spinge a credere che l’amore sia infinito, al di là di ogni logica, e «inarrestabile», come la giovane Hannah (altro palindromo!) e la scelta d’amore di sua madre!

«Se potessi vedere la tua vita dall’inizio alla fine, cosa cambieresti?».
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