Bao Publishing

La profezia dell’armadillo, di Emanuele Scaringi

Zero (Simone Liberati), indigeno di Rebibbia, ha ventisette anni e sbarca il lunario come può. Dà ripetizioni a uno studente delle medie straniero (in quanto abitante di Roma Nord), lavora per Aeroporti di Roma controllando il lavoro degli operatori (pensando ingenuamente che i suoi numeri servano a migliorare la qualità dei servizi offerti), ma soprattutto disegna. Disegna poster per cantanti punk, manifesti per i centri sociali e fanzine dal contenuto impegnato. Nella sua vita sempre uguale, un pendolo oscillante tra i plum cake e il delirio dei mezzi pubblici, solo due cose lo tengono legato alla realtà: la madre (Laura Morante) che non riesce a nascondere le sue ansie per un figlio adulto che non ha concluso nulla e l’armadillo (Valerio Aprea), sua onnipresente coscienza che lo accompagna ogni giorno con massime e profezie sul modo di comportarsi. Una mail del padre di Camille, una cara amica dell’adolescenza e suo amore mai dichiarato, in cui gliene comunica la morte, lo costringe a fare i conti con la vita e con il significato della parola maturità.

La profezia dell’armadillo rappresenta l’esordio al lungometraggio per Emanuele Scaringi e la sua scelta non poteva essere più azzardata e rischiosa. Il graphic novel di Michele Rech (aka Zerocalcare, che ha collaborato alla sceneggiatura – e solo a quella come dice qui – insieme a Valerio Mastandrea, Oscar Glioti e Johnny Palomba) non è un fumetto mainstream come quelli dei supereroi che da decenni si prestano a trasposizioni cinematografiche. Non è nemmeno un romanzo con una storia ben definita, trasponibile in un continuum filmico come Persepolis. La profezia dell’armadillo è uno stato d’animo disegnato e immaginare come un sentimento e una condizione del cuore e della mente possano essere trasferiti sul grande schermo, fa venire in mente solo due parole: tradimento e delusione.

Profezia Armadillo

E questo urleranno tutti gli spettatori che si recano al cinema da fan sfegatati delle opere di Zerocalcare, pensando di ritrovarlo in carne e ossa in un film che possa essere letto pedissequamente seguendo le pagine del fumetto, così come si farebbe con un libretto all’Opera. Ma La profezia dell’armadillo di Emanuele Scaringi è una produzione artistica altra rispetto a un graphic novel che, in questo caso, per sua endemica essenza è intrasferibile su qualunque altro mezzo che non sia il fumetto stesso. E se ci si reca al cinema ricordando i sentimenti provati durante la lettura del romanzo, il disagio sulla propria vita osservato con gli occhi di un disegnatore e il dolore per la perdita di qualcuno (che in questo caso è un’amica d’infanzia strappata alla vita da un dolore profondissimo), cercando in ogni scena quello lo spleen Baudelairiano che anima ogni pagina di Zero, ecco, solo in questi casi, si rimarrà soddisfatti.

La profezia dell’armadillo è un film riuscito. Di fronte ad alcuni demeriti, come un ritmo a volte troppo lento e affaticato, e a molti meriti dell’opera, tra i quali l’interpretazione magistrale di Valerio Aprea nei panni, sì, di un armadillo, o l’ambientazione fedelissima nella Roma di Zerocalcare, non si può far altro che uscire dalla sala soddisfatti e con una voglia sfrenata di riprendere in mano il fumetto per ritrovare lo stesso sentimento appena provato in sala. Un progetto che ha affascinato molti dei noti attori del panorama cinematografico italiano (tra cui Kasia Smutniak, che in una breve intervista a fine proiezione ha dichiarato che si sarebbe accontentata di fare la comparsa della vecchina per strada pur di lavorare anche un solo giorno con Emanuele Scaringi) e che dato la possibilità a Simone Liberati e a Pietro Castellitto (nei panni dell’amico Secco) di misurarsi con un’interpretazione difficile, ma convincente.

 

Si chiama profezia dell’armadillo qualsiasi previsione ottimistica fondata su elementi soggettivi e irrazionali spacciati per logici e oggettivi, destinata ad alimentare delusione, frustrazione e rimpianti, nei secoli dei secoli. Amen.

 

 

 

 

Motor girl, di Terry Moore

Una bella ragazza, un’invasione aliena e un grosso scimmione peloso: no, “Motor Girl” non è il solito fumetto d’azione americano. Terry Moore firma (e Bao Publishing porta in Italia) una storia di dolore e rinascita raccontata con tono leggero, folle, fantasioso, in cui gli elementi tipici del genere sono citati e negati per mettere in piedi qualcosa di completamente diverso.

Sam, la protagonista, è un veterano della Guerra in Iraq. Nel deserto il suo povero corpo e la sua povera mente hanno subito le prove più difficili: due bombe, da cui è sopravvissuta miracolosamente, e mesi di torture in un campo di prigionia nemico che le hanno portato via quel rimaneva della sua lucidità. Tornata in America, Sam si sistema in una casetta dipendente dall’officina meccanica in cui lavora: è una maga dei motori, una motor girl – appunto – e passa le sue giornate senza sentire caldo, fatica e solitudine. A farle compagnia, infatti, è il gorilla Mike che si prende cura di lei, amico invisibile ma insostituibile. Pur assillata da continui mal di testa per via di una scheggia infilata nel cranio, Sam conduce una vita tranquilla, quando dei minacciosi uomini d’affari si presentano alla sua porta, pretendendo di acquistare il terreno su cui vive. A rendere più complessa la situazione, ci si mette un UFO guidato da un numero indefinito di buffi omini verdi.

Terry Moore, uno dei portavoce principali del fumetto indipendente USA, firma una gran bella serie, dove diversi temi – più volte trattati dalla letteratura americana – sono affrontati in maniera assolutamente inedita e originale. Apprezzabile la scelta di mettere al centro della storia la forte e coraggiosa Sam, una giovane donna soldato praticamente indistruttibile. Più capace degli uomini in attività tradizionalmente maschili, Sam conserva tutta la sua morbida femminilità, senza indugiare nell’erotismo: Moore, con grande equilibrio, tratteggia così uno dei personaggi femminili più profondi, complessi e interessanti della letteratura per immagini degli ultimi anni, un vero e proprio respiro a pieni polmoni per i lettori e le lettrici oppressi dagli stereotipi di genere.

Allo stesso modo, gran peso assume il tema dei veterani affrontato dall’autore con grande consapevolezza, che gli permette di parlarne senza retorica o eccessivo cinismo. Dopo aver “servito il paese” combattendo in guerra, questi uomini e queste donne sono spesso lasciati allo sbaraglio. Soli, feriti, con poche altre prospettive se non quella di continuare a combattere, gli ex soldati sono la polvere nascosta sotto il tappeto del sistema americano, spesso esperto nel chiudere gli occhi davanti all’orrore.

Anche Sam chiude gli occhi. O, meglio, Sam decide di guardare altrove. “Motor girl” racconta un preciso meccanismo di sostituzione, dove pur di non guardare in faccia l’orrenda realtà, si preferisce inventare mondi fantastici; sostitutivi sono anche i legami che la ragazza si sforza di creare: un alias materno è la padrona di casa Libby, una proiezione paterna il gorilla Mike.

I ricordi, però, non tardano ad affiorare mescolandosi con la pseudo-realtà che la protagonista deve affrontare, insieme ai suoi amici e ai suoi nemici: in questa invasione aliena ai limiti del ridicolo, le uniche cose reali sono il dolore e il suo riscatto.

Nonostante l’importanza dei temi, Moore confeziona un prodotto estremamente scorrevole e divertente. Tavola dopo tavola, il lettore è accompagnato con progressiva rapidità verso la soluzione del mistero di Sam, Mike e degli invasori spaziali, realizzando – alla fine del fumetto – di aver letto molto di più di quanto credesse. Il disegno e l’organizzazione delle tavole godono del tocco magistrale del loro autore, altrettanto efficace nelle scene drammatiche quanto in quelle comiche e dal grande fascino sia nei corpi realistici sia in quelli grotteschi. Degne di nota, per la loro sintesi perfetta, alcune tavole che regalano gradevoli pause estetiche al racconto. Su tutte, la sequenza con cui si apre il quarto albo (nel volume Bao, pagine 68-69-70), un esempio eccezionale di racconto per immagini in cui si legge la stretta connessione tra lo spazio infinito e la sconfinata mente della protagonista (e del suo autore), attraversando i meandri dell’universo per arrivare agli angoli più bui della memoria umana e ai meccanismi salvifici dell’immaginazione.

Un anno senza te, di Luca Vanzella e Giopota

Quando essere lasciati sembra essere l’unico modo per trovare se stessi.

Quante banalità si dicono a un amico che ha appena rotto una relazione? Possono essere frasi giustificate o meno dalla sanità del rapporto in cui era invischiato, ma in ogni caso si prova sempre a lenire le ferite con quelle che, spesso, si dimostrano banalità “dai esci, chiodo schiaccia chiodo” , “solo il tempo riuscirà a fartelo dimenticare” , “la verità è che non ti merita davvero” (ma sua quale sia la verità Ken Kwapis ci ha girato una commedia romantica per certi aspetti illuminante). Antonio, come chiunque abbia vissuto quest’esperienza, lo sa: immaginarsi lontano da Tancredi è uno strazio, figuriamoci concepire la propria vita senza di lui a un anno di distanza. Cade nell’ennesima missione d’amore della sua vita, dandosi anima e corpo all’uomo sbagliato e investendo tutto se stesso in un rapporto a senso unico, dove l’ultimo DJ di turno è in grado “dopo appena sei mesi” come gli urla in faccia per scuoterlo il coinquilino Zeno di lasciarlo a pezzi e senza nemmeno la forza di riattaccarli.

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Un anno senza te sembra la solita storia di amore infranto a cui la televisione, il cinema e secoli di letteratura ci hanno abituato. Verrebbe quindi da chiedersi cosa aggiunge di nuovo a questo filone.

Io dico che aggiunge TUTTO.

In primo luogo il tono del testo non è mai triste; la trama della storia è tessuta fittamente di ironia e leggerezza e per questo il fumetto non assume il ruolo di mezzo con cui amplificare il proprio lutto da rottura, ma diventa le lente d’ingrandimento grazie alla quale capire meglio le profonde pieghe del proprio animo. Antonio, del resto, è un giovane laureando e come tale sta attraversando uno dei periodi più difficili e mutevoli della propria vita. Anche una fase di transizione così importante, grazie all’ironia e alla levità del testo, viene, paradossalmente, scandagliata in molti dei suoi aspetti, spingendo il lettore di qualunque età a rimanere completamente coinvolto non solo nelle vicende di Antonio (chi, del resto, non ha mai avuto il cuore a pezzi?), ma di tutti gli studenti della grassa Bologna che appaiono nella storia, direttamente o indirettamente coinvolti nella vita del protagonista. Sono tanti i temi trattati (non approfondisco nemmeno l’omosessualità perché è presentata con la naturalezza che le spetta e, quindi, non risulta particolare), ma tutti appaiono dignitosi e mai banali: disabilità, precarietà, nepotismo accademico, insicurezze per il futuro.

In secondo luogo il disegno di Un anno senza te è tra i più puliti e rilassanti delle ultime mie letture, dove le scale cromatiche sono accostate con sapienza e abilità, le architetture sono definite con precisione quasi maniacale e la suddivisione delle tavole accompagna i sentimenti che scorrono nel testo, spingendo a sfogliare una pagina dopo l’altra senza rendersi conto di come aver raggiunto la fine.

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In terzo luogo la scelta geniale degli autori di Un anno senza te – che, per inciso, sembrano essere due mani sole, talmente coerenti risultano i loro stili di disegno e sceneggiatura – di fondere il realismo prosastico delle giornate passate a spulciare tomi di epigrafia per studiare i Santi dimenticati in preparazione alla tesi di laurea con un’ambientazione surreale e fantastica, in dosi così equilibrare da far apparire normale che cadano conigli bianchi al posto dei fiocchi di neve o che la meta più ambita per l’Erasmus sia Atlantide. Non c’è alcuno stacco straniante tra queste due dimensioni che, tra l’altro, accentuano la levità di Un anno senza te. I due piani si fondono con estrema naturalezza al punto da chiedersi se chiunque, in una fase così complicata e contorta della propria esistenza (e non soltanto perché è stato appena mollato) non tenda a vivere in un proprio mondo, parallelo a quello reale ma autonomo rispetto al primo, in cui è la fantasia a vincere sui turni con i coinquilini per pulire l’appartamento condiviso.

Un modo per sopravvivere? Forse. Io leggo più una tappa obbligata da attraversare per capire meglio se stessi. Poco importa se fatta di cinque, dodici o cento mesi. Prima o poi il mondo non sarà più lo stesso o come lo ricordavi. E lo stesso vale per i lettori di Un anno senza te.

Paper Girls volume 1, di Brian K. Vaughan e Cliff Chiang

Se lo scontro generazionale rappresenta ai nostri occhi di lettori di fumetto un tema oramai scontato, sopratutto da quando l’adolescenza nei comics è stata problematizzata e portata alla ribalta con la versione Ultimate dei supereroi, non ritroviamo la stessa prevedibilità se il conflitto junior/senior va al di là del semplice slogan “da grandi poteri derivano grandi responsabilità” e diventa invece il fulcro, oltre che il nucleo di partenza, di una narrazione fantascientifica.

Anche il recupero delle atmosfere anni ’80 è qualcosa a cui siamo abituati da tanta cinematografia cult e da una certa estetica vintage che non ha mai smesso di irradiare il suo fascino e in questi ultimi tempi la fa un po’ da padrona. Ultimo in ordine cronologico il fenomeno Stranger Things. In fondo, film e fumetti non possono non considerare che i nerd sono nati in quegli anni mitici, da qui un debito inesauribile per quel decennio con tutto il feticismo che ne consegue.

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In cosa allora Paper Girls si distingue dalla restante valanga di produzioni artistiche che confezionano ad hoc questi stessi ingredienti? La risposta è semplice ma non banale. Quello che fa la differenza è la geniale intuizione dell’autore di questa serie di remixare tutti gli ingredienti inserendoli in una narrazione scorrevole, interessante e coerente. Sì, coerente. Non è facile infatti, né scontato purtroppo, approcciarsi alla fantascienza, utilizzare facili e immediati elementi di culto e non perdere di vista l’aspetto che rende il fumetto quello che è: la narrazione.

Brian K. Vaughan ci riesce benissimo e crea un mondo in cui la piccola cittadina americana di Cleveland si trova al centro di una serie di fatti surreali a causa dei quali cui scompaiono persone, appaiono navicelle spaziali e spietati soldati vestiti di bianco compiono la loro missione a bordo di giganteschi pterodattili.

Tanti, tantissimi elementi che farebbero pensare all’ultimo sceneggiatore furbo dei tanti in circolazione, invece c’è una Storia dietro tutto questo ed è una storia che sa appassionare, sa sollevare interrogativi su quale sia il team dei buoni e quello dei cattivi (anche meglio di Civil War), sa spiegare perché i protagonisti prima si muovono in una direzione e poi tornano indietro, sa incuriosire il lettore fino all’ultima pagina e anche oltre, quando uno spiazzante colpo di scena trascina l’occhio all’angosciante – ma in fondo anche desiderato – vocabolo “Continua”.

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In mezzo a tanto scalpitio quattro ragazzine, protagoniste della vicenda, magistralmente delineate e caratterizzate e a cui il lettore finisce, se non propriamente per affezionarsi, di certo per conoscere talmente bene da riuscire ad anticiparne battute e reazioni, come accade con dei vecchi amici di cui si conoscono ormai difetti e pregi.

Aggiunge valore al volume lo stile di Cliff Chiang, copertinista e illustratore per la DC Comics, che si esprime con un tratto fresco, dinamico e accattivante sempre proteso a richiamare una certa “scuola” dei vecchi comics americani della Golden Age. Sopratutto quando affronta i tratti delle giovani protagoniste, Chiang ricorda molto il connazionale Terry Moore e, anche se con le dovute differenze, l’illustratore franco-belga Joubert Pierre, famoso negli anni ’30 per una rappresentazione idealizzante dell’adolescenza.

Perfetta infine per la resa dell’atmosfera inquietante e del ritmo serrato con cui si svolgono i fatti, l’alternanza continua e il contrasto netto tra i toni caldi e i toni freddi nei colori usati nelle tavole.

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Da quanto detto finora si capisce che Paper Girls ha tutte le premesse per non essere un banale riuso di certi temi ma per essere piuttosto il punto di partenza di una saga matura in cui fantascienza e virtualità sono uno sfondo scenografico e un fulcro narrativo. Ogni tema apre la strada a importanti sottotesti da non sottovalutare per restituire alla storia il suo valore originale.

L’insolita Armageddon aliena di cui leggiamo la premessa in questo primo volume diventa infatti una metafora, una scusa per parlare di molti altri contenuti: dai pregiudizi e i conflitti che serpeggiano nella provincia americana, al simbolismo esoterico di Halloween, notte in cui prende avvio l’intero vicenda. Dal complicato gioco di simboli e richiami al linguaggio biblico-apocalittico, alla considerazione dei limiti dell’evoluzione tecnologica, fino alla psicologia dei sogni e dell’inconscio. Si creano delle connessioni logico-visive, negli incubi delle protagoniste e nella corso della vicenda ritornano alcune immagini-chiave: la mela del Paradiso terrestre, quella staccata dall’Albero della Conoscenza e causa della dannazione dell’Uomo, diventa quella usata come marchio per eccellenza della tecnologia, simbolo della supremazia dell’intelligenza artificiale, responsabile di un progresso conoscitivo senza precedenti ma anche di un isolamento che ha ulteriormente allargato il divario tra giovani e meno giovani.

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E ancora: la paura irrazionale dell’invasione aliena, la minaccia del comunismo e la perdita della supremazia tecnologica derivata dal lancio dello Sputinik, la speranza salvifica del progresso scientifico e la fascinazione dei viaggi nello spaziotempo. Nel fumetto vengono nominati tre titoli,  La guerra dei mondi, Dietro la maschera e Star Trek, che fanno riferimento a un preciso universo  cinematografico, quello fantascientifico, da sempre luogo privilegiato della cultura americana per esorcizzare queste paure.

Infine c’è un interessante parallelismo tra la criticità del sogno americano, quello che ha idealizzato l’affermazione della pax definitiva grazie al controllo semi-imperiale del pianeta, e la consapevolezza della potenza distruttrice nella figura del predicatore carismatico che si eleva al di sopra della legge e della storia. Tema, dopo le ultime elezioni presidenziali, più attuale che mai.

Edito in Italia dalla Bao, Paper Girls – vol. 1 è un sorprendente esempio di come sia possibile arricchire un nucleo narrativo semplice fatto di ingredienti decisamente non originali e mainstream, inserendo al suo interno molteplici significati e sviluppando illimitate modalità di percezione.

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INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE:

Paper Girls – vol.1
di Brian K. Vaughan e Cliff Chiang
Bao Publishing, 2016
144 pagine a colori, € 18

John Doe – Volume 1, di R. Recchioni e L. Bartoli

La morte è un business, lo sanno bene anche i quattro Cavalieri dell’Apocalisse (Morte, Pestilenza, Fame, Guerra) che sulla Terra hanno un’agenzia per gestire i decessi, la Trapassati Inc. appunto. Le Alte Sfere (Fato e il Grande Capo) stabiliscono data, luogo e modalità della morte di ogni essere vivente, spetta a John Doe far sì che non intervenga nulla a modificare tali eventi, evitando, quindi, che qualcosa vada come non dovrebbe. Durante quello che all’apparenza sembrerebbe essere un normale giorno di lavoro, il tenebroso e affascinante direttore Doe nota alcune anomalie, alcune persone schedate sotto la classificazione omega. Non manca ingegno e arguzia al nostro che ben presto viene a capo di questo mistero: come spesso accade anche la Trapassati Inc. sta imbrogliando sulle cifre, commettendo un falso in bilancio. La seducente Morte, infatti, sta arruolando un esercito di persone in vista di quello che sarà il giorno del giudizio e per compensare questi ammanchi di cassa sta architettando, insieme agli altri tre cavalieri, un olocausto che metta tutto in pareggio. Una volta scoperto il piano, John priverà Morte della sua arma e inizierà una fuga attraverso gli Stati Uniti d’America.

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Uno dei più innovativi aspetti nella struttura narrativa di John Doe è la sua serialità. I due autori, infatti, avevano stabilito a priori che la pubblicazione sarebbe stata suddivisa in stagioni, elemento ereditato dalle serie TV americane. John Doe nasce come opera che ha un inizio e soprattutto una fine pur suddiviso nella serialità dei diversi volumi. Il protagonista vive avventure che lo portano a evolvere, crescere, incontrare personaggi nuovi che sovente hanno vita breve (in fondo Morte incombe) senza restare ancorato a un cast fisso di comprimari. Questo permette un’interazione tra i personaggi dinamica, capace di variare i toni numero dopo numero, di dare completa libertà agli autori.

Grande attenzione viene riposta anche alla caratterizzazione dei protagonisti. John può essere considerato un poco di buono in continuo bilico tra gesti di altruismo e machiavelliche orchestrazioni, sorrisi ammalianti e profondo amore. Intorno a lui ruota un cast di comprimari surreali, entità astratte alle quali il tandem creativo riesce a conferire tratti umani ben riconoscibili, in un macabro gioco di allegorie e richiami. L’empatia è immediata e risulterà facile restare travolti dal fascino di questo personaggio che, a distanza di 13 anni, risulta ancora credibile e funzionante.

Altra peculiarità di quest’opera è l’alternanza in ogni capitolo al tavolo da disegno di autori dallo stile grafico completamente diverso. In questo primo volume troviamo le matite di Emiliano Mammucari, Walter Venturi, Giuseppe Manunta, Marco Cedric Farinelli e Luca Bertelè. Le peculiarità di ognuno di loro caratterizzano ed esaltano la narrazione. Lo schema delle tavole, poi, è regolare, il numero di vignette varia e si adatta alle diverse fasi dello storytelling, lasciandosi andare a illustrazioni a tutta pagina in grado si sublimare paesaggi onirici o passaggi fondamentali della storia. La spigolosità di Mammucari, il tratto debitore del grande Magnus di Venturi, la delicatezza di Manunta e la sua scelta di proporre tavole senza china per evidenziare i flashback, la versatilità di Farinelli e Bertelè impreziosiscono questo volume, rimarcando, qualora ce ne fosse ancora bisogno, la grande componente sperimentale di John Doe, evidente tanto in fase di scrittura quanto in quella illustrativa.

A distanza di oltre 13 anni da quella prima pubblicazione possiamo affermare che la bontà del progetto artistico portato avanti da Lorenzo Bartoli e Roberto Recchioni è sicuramente comprovata e i successivi lavori di Recchioni sono figli del laboratorio creativo che è stato John Doe; merito va riconosciuto a BAO Publishing che con lo stesso coraggio decide di riportare sugli scaffali delle librerie un’opera imprescindibile, rimasterizzata con il supporto dello stesso Recchioni.

Patience, di Daniel Clowes

Patience è l’ultima fatica di Daniel Clowes, autore americano già conosciuto per le famose graphic novel precedentemente pubblicate in Italia da Coconino Press: Wilson e Ghost World. In questa storia Clowes riversa tutto il suo spirito visionario e delirante per trasformare una storia d’amore in un viaggio atemporale, di crescita e formazione personale. Perché Patience è questo, una storia d’amore incondizionato e devoto, che l’autore dedica a sua moglie Erika, interpretando la parte di Jack Barlow.

La vicenda di Jack e sua moglie Patience si apre con l’annuncio di una nuova vita: i due giovani coniugi scoprono di aspettare un figlio e vogliono far in modo di regalare al bambino una realtà diversa da quella squallida e sporca che stanno vivendo. Patience però sarà uccisa e sarà proprio la sua morte a dare il “la” a Jack, trasformandolo da distributore di volantini in viaggiatore del tempo, al fine di scoprire l’identità dell’assassino.

Non fatevi ingannare dalle premesse, Patience non è una storia di fantascienza ma una vicenda umana, ambientata tra epoche diverse tuttavia uguali tra loro. I colori usati da Clowes per ritrarre persone e architetture sono completamente sfasati, sbagliati, spaesanti, espediente che aiuta a farci osservare il mondo come lo vede Jack, che vive ormai la sua vita come fosse un interminabile trip psichedelico. Un incubo da cui Jack non può svegliarsi, in cui è lui stesso a ricalcare le orme del suo destino.

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Il protagonista si interrogherà sulle sue azioni, condividendo lo stesso scetticismo che qualsiasi lettore (già sazio di storie che parlano di viaggi nel tempo) potrebbe nutrire: sarà vero che incontrando me stesso creerei un vortice di anti-materia? Potrebbe essere che secondo i paradossi temporali le mie azioni siano già state compiute? E se il destino fosse già scritto?

“Riuscirò a cambiare in meglio la mia vita e quella della persona che amo?”

Lo svolgimento della trama è altalenante, a volte tremendamente statico nei passaggi più introspettivi e a volte sincopato, per ricalcare la confusione psicofisica di Jack. Ma il finale è appagante, per nulla scontato. Se all’inizio vi sembrerà che il mondo-spazzatura di Jack e Patience sia un pozzo di tristezza da cui non è possibile uscire, piano piano vi accorgerete di quanto vivere quella realtà sia stato importante per Jack. E potrete accompagnarlo con pazienza nel suo viaggio, sperando anche voi che l’incubo finisca prima possibile.

Tobiko, di Maurizia Rubino

Tobiko è il primo graphic novel di Maurizia Rubino: un esordio sorprendentemente tenero e profondo

L’unica colpa di Tobiko e Pop è quella di essere nati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sulla terra vige uno scenario apocalittico dove tutti gli esseri viventi sono scomparsi, annientandosi a vicenda a partire proprio dalla specie umana che si è dimenticata del ruolo dell’amore anteponendo alle ragioni del cuore quelle del potere. Solo due fazioni sono sopravvissute alla devastazione: quella degli orsi polari, a cui Pop appartiene, e quella dei corvi, che hanno allevato come una di loro la piccola Tobiko, l’unica umana rimasta sulla terra. In mezzo a questa lotta all’ultimo sangue per la supremazia, Tobiko e Pop vivono la loro storia di amicizia, iniziata per caso ed evolutasi in un legame in grado di abbattere anche le spesse e insormontabili barriere dell’odio. E qui si interrompe la mia trattazione della trama: così come nelle migliori storie che lasciano il lettore con il naso immerso nelle pagine, anche Tobiko avrà mille soprese da svelare tavola dopo tavola. Maurizia Rubino esordisce nel mondo dei graphic novel e lo fa col botto, entrando a pieno titolo nell’Olimpo delle nuove generazioni di disegnatori sensibili e profondi ma al tempo stesso consapevoli della necessità di trovare forme espressive nuove e, perché no, contaminate. Quello che apparentemente sembra un graphic novel destinato ai lettori più giovani, in realtà calza perfettamente a pennello con il titolo di libro per tutti.

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I bambini e i giovani adolescenti capiranno il valore della tenerezza, in Tobiko in forte contrasto con la desolazione circostante, nelle relazioni che si vivono ogni giorno. Questi lettori, bombardati da mille stimoli materiali e consumistici nell’era della comunicazione digitale, apriranno nella loro quotidianità una parentesi di delicatezza e levità in grado di educarli al rispetto del prossimo.

Gli adulti, dal canto loro, scopriranno una veste inedita dell’amore, sentimento che diventa il detonatore di un’arma di distruzione (usata subdolamente dal partito dei corvi in grado di superare in crudeltà i predecessori umani). Leggendo di Pop e Tobiko si apriranno nuove porte sui recessi reconditi del sentimento più complicato e affascinante del mondo. Procedendo attraverso vignette pennellate di azzurro viola e nero, colori così contrastanti tra loro che in nessun altro modo si sarebbe potuto rappresentare un mondo di sentimenti così forti, la piuma che accompagna tutta la storia (la novella Icaro Tobiko incontra il dolce Pop proprio durante la ricerca di piume per costruire le ali in grado di farla volare accanto ai suoi amici corvi) diventa la metafora dell’amore: un sentimento così delicato e prezioso che si può tenere tra le mani per evitare di farlo andare via solo senza stringere troppo, per non correre il rischio di spezzarlo. Tobiko

Tobiko rappresenta perfettamente il modo nuovo di raccontare storie nel mondo dei fumetti italiani contemporanei, mischiando suggestioni orientali (il tratto ricorda molto quello dei supercute manga kawaii) alle contrastate forze interiori che caratterizzano le storie di matrice occidentali. Una lettura che mi sento di consigliare a chiunque: non è mai abbastanza profonda l’educazione alla bellezza.

Descender, di Jeff Lemire e Dustin Nguyen

Da dicembre 2015 anche gli appassionati italiani della nona arte hanno potuto gustare il primo volume, Stelle di latta, della serie fantascientifica Descender creata da Jeff Lemire e Dustin Nguyen, edita oltreoceano da Image Comics. Bao Publishing ha portato in Italia il volume che raccoglie il primo story-arc in un cartonato che, finalmente, rispetta il formato standard dei comic book made in USA, senza ridimensionarne le pagine come era stato già fatto per Saga, Black Science o Pretty Deadly.

Descender racconta un universo ambientato in un futuro imprecisato, dove tantissimi mondi diversi vivono in pace organizzati nel Consiglio Galattico Unito (GCU) e nel quale la molteplicità razziale e “planetaria” non minano la pacifica convivenza. A regolare l’ordine pubblico quotidiano sono delle Intelligenze Artificiali, che, tuttavia, non assolvono esclusivamente al compito di controllori ma spesso sono usati come accompagnatori, maggiordomi o semplici compagni di vita. Improvvisamente questo utopico universo viene spezzato dall’apparizione di nove diversi e giganteschi robot, i Mietitori, uno per ognuno dei nove pianeti principali del Consiglio, che scatenano la loro terribile furia distruttiva su tutte le forme di vita, graziando solo le esistenze robotiche presenti. Invano il dottor Quon, massimo esperto nel campo I.A. e primo creatore dei soggetti in circolazione, tenta un intervento di soccorso: il GCU viene completamente distrutto. Dopo dieci anni la storia riprende su un piccolo pianeta minerario, dove il bambino-robot TIM-21 si risveglia da un lungo sonno. Un trauma lo coglie inesorabile: è rimasto solo in compagnia del suo cane robot Bandit perché tutti i suoi più cari affetti sono morti a causa di un incidente. Cosa è successo? E perché alcuni membri sopravvissuti del CGU sono alla sua caccia? Chi sono i Rottamatori che gli stanno alle calcagna?

Descender - Vol. 1 Cover

Discender rappresenta il perfetto connubio tra la componente della sceneggiatura e quella del disegno, in un’armonia profonda che accompagna l’intensità della lettura in ogni sua fase.

Jeff Lemire (autore Vertigo e DC, sceneggiatore di The Nobody, Essex County Trilogy, Sweet Tooth, Animal Man), esprime magistralmente la sua arte per almeno due ragioni su tutte. In primo luogo, l’artista canadese si è dimostrato capace di creare, letteralmente, un vero e proprio universo narrativo, composto da svariati pianeti precisamente caratterizzati, e altrettante forme di vita: qualsiasi opera di fantascienza con un’ambientazione cosmica non può prescindere da questo. In secondo luogo ogni personaggio è stato creato con una specifica attitudine e un preciso ruolo nell’ambio di questo moderno “space drama”. Tra tutti, il protagonista: TIM-21 è sì un robot, ma prima di tutto è un bambino, una giovane creatura che ha perso tutti coloro che amava e che lo amavano, che si trova praticamente da solo in una galassia crepuscolare e cattiva, braccato da tutte le parti. Il personaggio saprà entrare nel cuore del lettore con grandissima facilità, poiché in possesso di alcuni di quegli elementi costitutivi di tanti personaggi che sono stati sicuramente fonte d’ispirazione nella sua creazione (vi ricorda qualcosa un altro piccolo extraterrestre smarrito nell’universo e che vuole chiamare casa?).

Dustin Nguyen (The Auothority, Wildcats, Batman) dimostra una consistente evoluzione del suo stile, grazie a una costruzione più dinamica e a tratti quasi sperimentale dello storytelling, e a una cura particolare dedicata ai dettagli delle varie location cosmiche entro le quali la storia si svolge. Ancora, Nguyen si occupa, in questa serie, anche dei colori, riuscendo a fare davvero magie con la tavolozza, infondendo ulteriore dinamismo e carica emozionale con le sue scelte cromatiche. Descender è decisamente un piacere per gli occhi, un’opera d’arte futuristica a tutti gli effetti.

Descender, Vol.1 Tavola

Descender va oltre l’inflazionato tema del conflitto uomo vs macchina per raccontare la vicenda di un bambino perduto nella spazio, un’epopea fantascientifica in cui risulta preponderante il tono malinconico (pur miscelato con un pizzico di azione). Nonostante il protagonista e tutta l’atmosfera appartengano al mondo delle creazioni tecnologiche e artificiali, in questo graphic novel i sentimenti sono così forti da non avere nulla da invidiare ai testi più “umani” scritti nel mondo della letteratura contemporanea.