Berlinale 66

Berlinale 66 – Quand on a 17 ans, di André Techiné

L’adolescenza non è sempre la stagione più calda, anzi per alcuni è più simile a un inverno interminabile, in cui i propri passi che affondano nella neve fresca sono l’unico suono suono che culla la solitudine. Questa è l’adolescenza di Thomas, che vive sulle montagne insieme ai suoi animali e ogni giorno deve percorrere chilometri di bosco per raggiungere la sua scuola. Interagire sia fisicamente che spiritualmente con suoi coetanei è complicato, faticoso, e molto spesso la distanza dall’umanità che vive sulle sue montagne gli sembra l’unica vita possibile, un respiro di liberà soffocato da una scuola fatta di lotte quotidiane. A complicare tutto è Damien, l’unico figlio di un medico e di un pilota di arei che si trova in missione in Afghanistan, da sempre coccolato e seguito negli studi dai suoi genitori, che non perde occasione di stuzzicare Thomas durante le lezioni e metterlo in difficoltà davanti ai compagni.

Damien è la nemesi di Thomas, il suo esatto opposto.  I due si scrutano, si urlano contro e si sfidano fino a farsi male, ma l’assurda tensione che li porta a scontrarsi costantemente nasconde un sentimento ben più profondo della mera antipatia, un’attrazione mista a repulsione, che li spinge ad avvicinarsi sempre di più. Le stagioni passano in fretta e il fitto manto di neve che ricopre le montagne e il cuore di Thomas si scioglie, fino a far intravedere il bocciolo di un sentimento nuovo, nascosto, che non ha mai avuto il coraggio di schiudersi.

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La lenta scoperta del corpo durante l’adolescenza va di pari passo con la scoperta dell’identità sessuale, che si trova solo dopo aver attraversato una foresta di sensazioni, di emozioni contrastanti, dopo aver passato inverni di fredda solitudine e estati bollenti di sperimentazioni. Quand on a 17 ans di André Techiné assapora tutte le stagioni dell’adolescenza, sincronizzando il corpo dei ragazzi con la natura e mettendolo al centro della scena. Damien e Thomas cercano ossessivamente il contatto fisico, che sia per picchiarsi o per abbracciarsi, ma non possono fare a meno di respirare l’uno la pelle dell’altro, ed è su questo intensissimo rapporto di amore-odio che Techiné costruisce la sua sceneggiatura, scritta a quattro mani con Céline Sciamma, e costruisce un film pulsante di vita, di amori acerbi e di emozioni dimenticate, da assaporare dolcemente fino all’ultima scena.

Berlinale 66 – Kollektivet, di Thomas Vinterberg

“I don’t really see, Why can’t we go on as three” fa una celebre canzone scritta da David Cosby all’inizio degli anni ’70, che celebra il ménage à trois contro le convenzioni sociali e i condizionamenti mentali. Solo amore, amore libero e gioia infinita. Come lui anche Thomas Vinterberg nel suo Kollektivet canta l’amore in una piccola comune, in cui emergono le luci, ma soprattutto le ombre, di questa orgiastica condivisione del cibo, dello spazio e del sesso.

La scena si apre in Danimarca negli anni ’70, in un momento in cui la filosofia hippie era in pieno fermento e la scelta di entrare a far parte di una comune per sfuggire alle convenzioni sociali era accarezzata da molti, tra cui i genitori dello stesso Vinterberg che per un decennio hanno vissuto questa esperienza. Ma questa non è una storia autobiografica, o almeno non all’apparenza, perché è la storia di Erik, un professore universitario di architettura, e di sua moglie Anna che, dopo aver ereditato una villa a Hellerup a nord di Copenaghen, decidono di dare una svolta alla loro monotona relazione coniugale includendo nella loro casa un piccolo gruppo di sconosciuti, di età ed estrazioni sociali differenti, per dividere le spese, dialogare e godersi la vita.

Stillfoto fra filmen Kollektivet af Thomas Vinterberg. Foto: Henrik Petit
L’idea della comune è elettrizzante, eccitante, e all’inizio tutto sembra funzionare alla perfezione, in un incastro perfetto tra libertà sessuale e rispetto dell’intimità coniugale, ma quando Erik cede al fascino di una sua allieva e la porta a vivere sotto lo stesso tetto di sua moglie, rivendicando il suo diritto all’amore libero, il mondo idilliaco che si sono creati entra inevitabilmente in crisi. L’utopia hippie di un sano rapporto a tre si infrange clamorosamente contro l’esclusività del rapporto di coppia e a farne le spese sono tutti i membri della comune, che dalla vita peace and love che speravano si trovano ad assistere a una serie interminabile attacchi di isteria, tra pianti urla disumane.

La famiglia è in crisi, e ancora di più lo è la coppia, ma Vinterberg come pochi al mondo è in grado di tracciare un ritratto onesto dei rapporti umani all’interno del nucleo familiare, mettendo in luce la complessità del vivere in comune quando stati d’animo eterogenei si accavallano e si alternano nelle diverse fasi della vita. Nessuno è al sicuro, nessuno si salva qui, ma questa bizzarra “festa” della vita ha un fascino innegabile per il regista, che riesce a cogliere la bellezza nella condivisione delle emozioni ed amplifica i pensieri con la musica, vibrante, travolgente e sempre in armonia con lo spazio in cui si sprigiona. Kollektivet rispecchia a pieno il desiderio di Vinterberg di raccontare i turpi pensieri che serpeggiano sotto le acque apparentemente limpide dei rapporti familiari, che siano tradizionali o alternativi, e come nel bellissimo Festen riesce a rappresentare la vita nell’arte con i colori vividi che caratterizzano il suo cinema, realizzando un film prezioso.

Berlinale 66 – Chi-Raq, di Spike Lee

Chicago è il battaglia più cruento della terra, chi osa entrarci non ne esce vivo. Negli ultimi quindici anni sono caduti sotto i colpi delle armi da fuoco più americani qui che in Iraq e in Afghanistan, ma i media hanno accuratamente cancellato le tracce di questa carneficina. Qui dove comprare un’arma è più facile che respirare, la gente vive nel terrore di perdere la vita tra i fuochi incrociati delle gang rivali, e i rapper sono gli unici a urlare a gran voce i crimini di questa folle Chi-Raq, giusta fusione tra Chicago e Iraq. Spike Lee denuncia la violenza del suo paese con i colori più sgargianti della sua tavolozza, alzando a tutto volume la musica hip-hop, che racchiude l’anima afroamericana di questa città insanguinata, ma che qui inneggia alla pace assecondando il ritmo delle rime della Lisistrata di Aristofane.

Cambiano i tempi, i costumi e la lingua, ma non la guerra, che in ogni epoca uccide brutalmente l’amore, lasciando schiere di vedove dal cuore infranto, impotenti al cospetto delle ragioni degli uomini. Aristofane cantava le ingiustizie della Guerra del Peloponneso e l’insofferenza delle donne delle poleis greghe rispetto a questo inutile spargimento di sangue, che le portava ad uno sciopero del sesso forzato in nome della pace. Spike Lee canta la guerra metropolitana che si consuma nei sobborghi di Chicago, provocando uguali dolori negli scontri quotidiani tra gli Spartani, capeggiati dal repper Chi-Raq, e i Troiani, agli ordini di Cyclops, che schierati gli uni contro gli altri per il traffico di droga insozzano le strade con il sangue degli innocenti. Come ad Atene anche qui le donne sono stanche di pulire dalle strade il sangue dei loro figli e decidono di coalizzarsi contro i loro uomini sotto la guida della bellissima Lysistrata, la donna di Chi-Raq, che propone loro di utilizzare l’arma più potente in loro possesso per condizionare la volontà dei loro uomini e convincerli a deporre le armi: “No Peace No Pussy”.

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Chi-Raq è un film esplosivo, arrabbiato, talmente saturato di parole, colori e musica da lasciare disorientati, ma è proprio con le sue scelte estreme che Spike Lee riesce a colpire nel segno. Il suo accostamento della commedia di Aristofane con la questione politica americana è folle, ma allo stesso tempo geniale, e sorprendentemente anche i dialoghi interamente recitati in rima a ritmo di hip-hop non solo funzionano alla perfezione, ma riescono a trasmettere con naturalezza la rabbia dei personaggi attraverso la musica che gli scorre nelle vene.

Aristofane vive nei sobborghi di Chicago, nell’anima guerriera delle donne e dell’aedo Samuel L. Jackson, che commenta le vicende senza mai prenderne parte come un moderno deus ex machina, e la sua satira politica si cuce alla perfezione su un’America ridotta a brandelli dagli interessi economici dei potenti. Spike Lee è violentemente critico sull’attualità, ma per manifestare il suo disappunto verso lo status quo usa un’arma non violenta, ma incredibilmente efficace: la musica, il cinema, l’arte in tutte le sue forme, che colpisce la coscienza e fa sanguinare il cuore. Chi-Raq racchiude nelle sue forme policrome tutta la rabbia di un mondo stanco di combattere, che agogna la pace ed è disposto a tutto per ottenerla, ma ciò che lo rende memorabile è la forma brillante in cui sceglie di declinare il dramma, così brillante che acceca.

Berlinale 66 – Genius, di Michael Grandage

I registi, gli attori, gli scrittori sono gli eroi del palcoscenico, delle piogge di flash, delle caccie agli autografi, sono coloro a cui è destinato il campo minato del red carpet e devono superare le recensioni spinose dei critici. Ma chi sono quelli che lavorano dietro le quinte, l’esercito di scenografi, sceneggiatori ed editor, senza dei quali nessuna opera potrebbe esistere né tanto meno raggiungere il grande pubblico? Max Perkins è uno di loro, è l’editor di Ernest Hemingway, Francis Scott Fizgerald e Thomas Wolfe, e senza di lui Addio alle armi, Il Grande Gatsby, e Angelo, guarda il passato non sarebbero mai esistiti. Eppure il suo nome si è perso tra le pieghe della storia, negli angoli delle quarte di copertina dei più grandi capolavori del ‘900, nascondendo al mondo uno dei più grandi geni dell’editoria.

Il rapporto di Perkins con gli scrittori che pubblicava era viscerale, più vicino all’amicizia che al rapporto professionale, perché nelle loro opere tormentate ritrovava non solo la loro arte, ma la loro vita e i loro segreti più nascosti, e il suo compito era quello di dipanare i nodi stilistici ed esistenziali, trasformando un fiume frastagliato di pensieri in un’opera d’arte. È incredibile quanto il lavoro di un editor possa essere creativo e, anche se molto spesso rimane in ombra rispetto allo scrittore, il suo ruolo non è meno importante nella gestazione di un capolavoro della letteratura.

Questo film celebra il genio creativo di Perkins, votato a rimanere dietro le quinte rispetto all’eccentrico Thomas Wolfe, e la loro amicizia travagliata in un’America in bilico tra le due guerre in cui la Beat Generation scalpitava per abbattere le impalcature del passato. Perkins è l’editor dei geni, ma Genius di Michael Grandage si concentra sul suo talento, sulla passione per la scrittura che gli infuocava l’anima, ma che non osava emergere in superficie. Perkins è impeccabile nell’aspetto come nel temperamento e qui non potrebbe trovare interprete migliore che Colin Firth, che nel suo completo grigio è l’essenza stessa dell’eleganza e dell’austerità british, mentre Wolfe, interpretato da un tormentato Jude Law, si lascia trascinare dalla vita, dall’alcol e dall’angoscia esistenziale, aprendo la strada a Kerouac. Le loro personalità antitetiche si compensano nell’opera di Grandage, si fondono in unico genio,  ma la sensazione costante è che il loro incontro resti inesploso, sotto la superficie, in perfetta armonia con il temperamento di Perkins ma non abbastanza potente da essere ricordato dal mondo intero.

Berlinale 66 – Saint Amour, di Gustave Kervern e Benoît Delépine

Tre uomini, tre solitudini in cerca d’amore attraversano in lungo e in largo la Francia per degustare i vini più buoni che ha da offrire, la bellezza delle donne e la gioia di vivere. I sensi si risvegliano, il cuore si apre a nuove emozioni e quello che era un tour enologico si trasforma nel viaggio della vita.

I protagonisti di questa bizzarra avventura sono Jean (Gerard Depardieu), che con il suo possente Nabuchodonosor sogna di vincere la gara per il toro più bello alla fiera dell’agricoltura di Parigi, e suo figlio Bruno (Benoît Poelvoorde) che invece è stanco di fare l’allevatore e vuole abbandonare l’impresa di famiglia al più presto. La prima tappa del loro viaggio è la fiera di Prigi, dove incontrano l’autista di taxi Mike (Vincent Lacoste), anche lui in cerca di una svolta nella vita, e lo coinvolgono nel loro tour the road attraverso le vigne francesi. In una miriade di situazioni paradossali, che li mettono alla prova emotivamente e psicologicamente, i tre uomini passano attraverso fasi diverse, in cui perdono la loro identità per poi ritrovarla nell’amore tra padre e figlio e verso le donne che li mettono al mondo per la prima volta.

Saint Amour è una commedia spassosa, intessuta nei rapporti profondi tra i personaggi, in cui si ride di gusto ma si riflette anche sulla vita, sulle occasioni perse per cambiarla e sul coraggio di mettersi in viaggio verso l’ignoto. E se a qualcuno dovesse venire in mente Sideways – In viaggio con Jack di Alexander Payne e il tour vinicolo di Paul Giamatti attraverso la California, sarebbe fuori strada, perché il film di Gustave Kervern e Benoît Delépine ha un sapore completamente diverso, quello della commedia che non cerca la comicità ad ogni costo, ma trae ispirazione dall’assurdità della realtà. Saint Amour è un film onesto, forgiato nella terra come i suoi protagonisti e appassionato, ed è proprio questo che lo rende unico.

Berlinale 66 – Shelley, di Alì Abbasi

Nel ventre oscuro della foresta danese una giovane coppia vive seguendo il ritmo della natura, senza energia elettrica e acqua corrente, facendo il bagno nel lago e nutrendosi dei prodotti dell’orto. In questa piccola casa di legno il tempo sembra essersi fermato a un passato in cui si passavano le giornate lavorando nei campi, per poi scaldarsi accanto al fuoco con un buon libro, e gli sciamani curavano i mali allontanando le energie negative dal corpo. Sembra che nulla possa turbare la felicità di questo microcosmo bucolico, eccetto il fatto che Louise e Kasper desiderano ardentemente un bambino e non possono averlo.

Per realizzare il loro sogno, chiedono a una ragazza romena che li aiuta nei lavori di casa di utilizzare il suo corpo per partorire il bambino, in cambio potrà avere tutti i soldi che le servono per tornare a casa da sua madre e andare a vivere con suo figlio. Elena accetta volentieri, ma dal momento in cui questa nuova vita entra dentro di lei il suo corpo inizia a cambiare, la pelle del viso si spacca come terra al sole e l’acqua le brucia addosso come se fosse incandescente. Una creatura inumana sta crescendo dentro di lei, che le ruba il sonno per lasciarla in preda a visioni spaventose e che ogni notte la fa vagare per i boschi per soddisfare la sua sete di sangue.

L’eco di Rosmary’s Baby è forte ma la pellicola di Abbasi non vuole citare in alcun modo ciò che è stato già fatto magistralmente da altri, ma creare qualcosa di nuovo in una casa in riva al lago, nascosta dagli alberi e dal mondo. L’atmosfera oscura è tutto ciò di cui è fatto Shelley, il sangue, le visioni il rapporto ossessivo con il corpo femminile: questo è il suo orrore. Il male non si palesa, ma si respira. Non ci sono demoni, sette, o fantasmi sotto i letti, ma soltanto la percezione che un’energia malvagia sta divorando il corpo di Elena dall’interno, infestando i boschi e i pensieri di tutti coloro che le si avvicinano. Nel non detto Abbasi trova la sua espressività, nella straordinaria capacità di evocare l’orrore senza mostrarlo, portando anche lo spettatore a perdersi nell’oscurità di quei boschi in preda alle visioni, sentendo sul collo per tutto il tempo l’alito di una presenza malvagia.

Berlinale 66 – Gerard Depardieu racconta Saint Amour

Saint Amour, la briosa commedia diretta da Gustave Kervern e Benoît Delépine, ha chiuso la 66 edizione del Festival del cinema di Berlino tra applausi e risate liberatorie. Gerard Depardieu è volato nella capitale tedesca per presentare il film insieme ai registi e raccontare la sua esperienza sul set. “La commedia francese contemporanea è fatta peri giovani, per essere amata dai giovani, e per questo motivo non esistono più le vere commedie. Saint Amour parla del viaggio di padre e figlio attraverso la Francia, che gli permette di ritrovare il loro rapporto. È un film divertente ma anche introspettivo, che parla della perdita dell’identità e del suo ritrovamento con l’amore. Parla della vita ed è per questo che è un film straordinario, come non se ne fanno più, o meglio come non arrivano più nelle sale”. E con queste parole Depardieu dichiara il suo amore per il cinema e il suo rimpianto per un’arte che si piega sempre più all’andamento del mercato: “Amo questo tipo cinema, ma oggi non ci sono molti attori che sanno mostrare la loro sensibilità e la loro cultura, che siano abbastanza coraggiosi e intelligenti da mostrare la vita”.

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Ma come ha affrontato l’attore francese Sant Amour? “Di solito non leggo nulla prima di iniziare le riprese perché preferisco non essere influenzato dallo script e conoscere prima le persone con cui devo recitare, e l’ambiente in cui devo muovermi. Ho fatto lo stesso anche quando ho interpretato Cyrano de Bergerac e Tartuffe, ho imparato il testo nelle prove, basandomi sulle battute degli altri. Per essere dei bravi attori bisogna dedicare del tempo a quest’arte e credo che conoscere il testo a memoria prima di iniziare a recitare privi l’attore di uno dei piaceri di questo mestiere. E non è un caso che anche John Malkovich e Bruce Willis la pensino come me”.

Berlinale 66 – Incontro con Colin Firth e Jude Law

Il regista Michael Grandage ha presentato a Berlino Genius al fianco dei suoi interpreti Colin Firth e Jude Law. Genius è la storia dell’editor americano Max Perkins, qui interpretato da Colin Firth, a cui si deve la pubblicazione dei più grandi autori della letteratura americana del ‘900, da Hemingway a Scott Fitzgerald, fino a Thomas Wolfe, che nel film ha il volto di Jude Law. Perkins e Wolfe negli anni in cui hanno lavorato fianco a fianco hanno coltivato uno splendida amicizia ed è proprio dal rapporto tra le loro personalità agli antipodi, una introversa l’altra esplosiva, che nasce Genius. “Entrambi sono i geni del film – ha sottolineato Grandage – Wolfe per la sua scrittura potente e calata nella sua epoca e Perkins per la volontà di preservare l’integrità delle parole e la struttura, senza perdere di vista lo spirito dell’opera”.

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“Tom Wolfe ha scritto principalmente opere autobiografiche – ha detto Law – ma ciò che mi ha colpito di più della sua scrittura, oltre che il suo straordinario talento, è che combatte per trovare l’onestà ad ogni costo”. Ma nella scoperta di questo autore Max Perkins è stato fondamentale come ha sottolineato Firth: “Perkins lavora dietro le quinte e questo è l’aspetto più affascinate di questo personaggio, che vuole rimanere invisibile ad ogni costo. Perché dimostra che essere un eroe non serve essere in prima linea. Anche il suo costume è molto interessante, trasmette il mistero della sua personalità, qualcosa di terribile e inespresso accade sotto l’apparenza. E dopotutto anche per la scrittura vale lo stesso, quella migliore non è quella che dice ciò che vuole dire, ma quella che nasconde qualcosa”.

Berlinale 66 – Incontro con Emma Thompson, Daniel Brühl e Vincent Perez

Alone in Berlin, il film di Vincent Perez tratto dal romanzo Jeder stirbt für sich allein dello scrittore tedesco Hans Fallada, porta la Germania nazista al Festival di Berlino. “Credo che questo sia un tema ancora attuale, perché la Germania sta ancora combattendo con il senso di colpa per i crimini perpetrati durante la guerra – ha affermato Perez – Io stesso ho ereditato questa sensazione da mia madre, che è tedesca, e più volte ho interrogato lei e mia nonna sulla questione senza avere mai una risposta. Questo film è la risposta alle domande a cui loro non hanno mai risposto”. Ma la vera sfida del film era trasmettere il valore di una ribellione semplice, fatta di parole senza cadere nella trappola dell’artefatto. “La mia intenzione era trovare un compromesso tra estetica e realtà, e per farlo mi sono ispirato al neorealismo italiano e a Una giornata particolare di Ettore Scola”.

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Come mette in evidenza Emma Thompson: “Questo film non è la storia della Germania, ma è la storia di un matrimonio, che torna in vita in seguito a un grande dolore e alla complicità in un’azione di protesta che potrebbe costare la vita alla coppia in caso in cui dovesse venire alla luce. Ma come riporta anche il libro che ha ispirato il film, la morte è una certezza, ciò che conta è morire sapendo di aver fatto la cosa giusta. E loro fanno questa scelta”. Non fa eccezione il commissario interpretato da Daniel Brül che, se all’inizio segue scrupolosamente gli ordini della Gestapo, mentre va avanti nella risoluzione del caso cambia atteggiamento. “Il mio personaggio subisce uni sviluppo graduale – dice Brül – e con il passare del tempo si rende conto di non poter sopportare il senso di colpa per le sue azioni e per quelle del regime quindi anche lui decide di fare la cosa giusta”.

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Berlinale 66 – Maggie’s Plan, di Rebecca Miller

Maggie con il suo sguardo perso nei suoi libri e le calze di lana gialle, arrotolate fino senza cura fino al cappotto carta da zucchero, ha un’aria dolcemente naive e incredibilmente innocente. Ma l’apparenza goffa nasconde una maniaca del controllo, che sa perfettamente cosa vuole in questo momento della sua vita ed è disposta a tutto per ottenerlo. Maggie (Greta Gerwig) sente l’urgenza di diventare madre nonostante la sua incapacità di far durare una relazione per più di sei mesi. Tutto ciò che le serve è un donatore, disposto a darle il suo seme senza implicazioni sentimentali. Guy, il suo amico appassionato di matematica che ha fatto fortuna nell’industria dei cetrioli, è il candidato ideale. Ma il fascino della vita è proprio nelle sorprese che riserva dietro l’angolo, nella facilità con cui sfugge al controllo degli uomini. Così il piano perfetto di Maggie si infrange nell’incontro con John (Ethan Hawke), un affascinante professore di antropologia sposato con due figli, che studia da anni le dinamiche familiari ma non è in grado di gestire la propria. John è rapito da Maggie e lascia su due piedi la moglie Georgette (Jullianne Moore) per creare una famiglia con lei.

Tutto è perfetto, persino più bello di ciò che Maggie aveva immaginato per sé stessa, o almeno lo è fino a quando la coppia non inizia a scricchiolare. A questo Maggie inventa un nuovo piano di vita per uscire incolume e senza sensi di colpa dalla relazione con John: lo farà tornare insieme alla moglie Georgette e tutti avranno il lieto fine che meritano. Ma se la casualità della vita si mettesse di nuovo di mezzo per rovinare ogni cosa?

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Divertente, brillante e ben scritto, Maggie’s Plan è una delle commedie più belle degli ultimi anni. Perfettamente bilanciata tra ironia e tenerezza, descrive la complessità dei rapporti umani in una società liquida, in cui è impossibile fare piani per il futuro e i sentimenti prendono costantemente il sopravvento sulle buone intenzioni. Maggie, Georgette e Ethan non sono solo un singolare triangolo amoroso, ma anche il ritratto della famiglia moderna, che ignora le tradizioni conservatrici in favore del benessere personale e dell’armonia del focolare domestico. Rebecca Miller ha interpretato la famiglia del nuovo millennio con intelligenza, senza giudicare le scelte dei protagonisti egoiste o profondamente innovative, ma si è messa nei loro panni e ha cercato di comprenderli nella maniera più empatica possibile. Il punto di vista femminile è predominante e si percepisce in ogni fotogramma, dalla scelta dei costumi a quella delle parole, da cui emergono le differenze tra le due donne che si contendono John e allo stesso tempo i tratti comuni nella manifestazione dei sentimenti. Tutto fluisce armoniosamente, con la delicatezza di cui solo una donna è capace, e funziona incredibilmente bene.