Tratto dal romanzo omonimo di Meg Wolitzer, The wife è un film ordinario nella sua forma più classica, dotato di una certa robustezza emotiva, ma privo di un editing che ne dinamizzi le scene o ne svecchi il decoupage. Qualche tecnicismo di natura registica non avrebbe di certo tolto interesse alla storia in sé. Così, a coinvolgere lo spettatore rimangono “solo” la sceneggiatura, magari non troppo moderna né coraggiosa, della pluripremiata Jane Anderson e la recitazione di tutto il cast, quella davvero al di sopra delle aspettative.
La sorpresa non è tanto nell’interpretazione di Jonathan Pryce, protagonista già in Brazil e in L’uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam, ma forse dalla maggior parte degli spettatori conosciuto per il ruolo dell’Alto Passero nella serie televisiva di gran successo Il Trono di Spade. E di certo nessuno può pensare che Glenn Close [La ragazza che sapeva troppo, Seven Sisters e, ovviamente, Attrazione fatale] possa non rendere qualsiasi interpretazione come qualcosa di memorabile.
L’inaspettato giunge, invece, dai cosiddetti figli d’arte: Max Irons, figlio di Jeremy Irons e dell’attrice irlandese Sinéad Cusack, dopo essere passato un po’ inosservato in film come The host e Cappuccetto rosso sangue, si cala bene nel ruolo di David, il figlio deluso della coppia di protagonisti, aggiungendo forse qualcosa di autobiografico; ancora più sorprendente è stato, invece, poter apprezzare la figlia di Glenn Close, Annie Starke, nata dalla relazione con il produttore John H. Starke. Alla sua prima parte di un certo livello, non fa di certo pensare ad una raccomandazione tra le più classiche. Più di ogni altra considerazione si fa largo il pensiero che buon sangue non menta: Annie interpreta lo stesso personaggio della madre ma la versione giovane nei flashback e riuscire a riconoscere certi sguardi altamente espressivi e vedere quanto possa donare al pubblico, vale già il prezzo del biglietto.
«Io adoro scrivere: è la mia vita».
A completare il cast c’è anche Christian Slater [Intervista col vampiro, Nymphomaniac] che interpreta Nathaniel Bone, un giornalista che aspira a scrivere la biografia dello scrittore e che cerca, perciò, di portare alla luce non i fiori ma le spine di quel roseto che sembra essere la vita dei due protagonisti. Non è Quarto potere di Orson Welles, questo è da dire anche se scontato, ma il giornalista risulta fondamentale come espediente narrativo per scavare all’interno dei personaggi e per scatenare la riflessione.
The wife diventa, così, pretesto per discutere di guerra dei sessi, discriminazione femminile soprattutto in una delle cattedrali della società patriarcale: l’editoria. Assurdo che per certi versi non sia cambiato molto in quell’ambiente da quando la nostra Sibilla Aleramo lottò per pubblicare il suo Una donna e ancor di più per emanciparsi e autodeterminarsi liberamente secondo le proprie volontà. Assurdo anche che un’occasione come questa di trasporre per il cinema il coraggioso romanzo di Meg Wolitzer si riduca ad una tiepida protesta: il pubblico di oggi, abituato a tifare per la libertà di June e delle altre ancelle nella serie tv The handmaid’s tale forse avrebbe bisogno di un po’ più di profondità se non di azione.
«Ho letto i primi lavori giovanili di Joe… strano quanta sia migliorata la sua scrittura dopo aver conosciuto lei!».
The wife è la storia di una donna forte quanto sfortunata, la cui unica colpa risulta essere quella di aver scelto per la vita un uomo che non la merita. Quante storie di questo tipo avrete sentito raccontare da amici o familiari? Addirittura, nella peggiore delle ipotesi, potreste aver vissuto qualcosa di simile.
«Credo che lei sia stufa e stanca di essere invisibile».
La storia, incastrata in un film che purtroppo non si distacca dalle norme del cinema classico americano e dalla sua forma quanto mai rassicurante, ha un sacco di tempi morti che, però, permettono di apprezzarne, appunto, la recitazione e di riflettere. La storia è importante e rispetta i canoni del film da premio Oscar: come sempre si tramanda, giustamente, se non si ha nulla da raccontare è inutile prendere una penna in mano, mettersi davanti ad una tastiera a scrivere o dietro una macchina da presa a girare. Da raccontare E per una valida narrazione che sappia coinvolgere occorre un conflitto. Figuriamoci in un film in cui si parla di narrazione in maniera per nulla marginale.
In The wife il conflitto principale riguarda l’autodeterminazione. Subito è sotto gli occhi dello spettatore come l’equilibrio iniziale sia un mero castello di carte:
un anziano scrittore di romanzi di successo, Joseph Castleman [Jonathan Pryce], sta per essere premiato con il Nobel. Nel viaggio verso il coronamento di una carriera magistrale lo accompagnano la moglie Joan [Glenn Close] e il figlio David [Max Irons]. David aspira a seguire le orme del padre, lo idolatra ma senza ottenere né considerazione né tantomeno l’approvazione desiderata. Joan, per il suo Joe, ha rinunciato a qualcosa di ben più grande, per lui ha vissuto una vita di rinunce, di segreti e di menzogne, da promettente romanziera a figura dimessa e marginale, costretta nel ruolo di moglie devota, pronta a sostenerlo nei momenti difficili, a colmarne le mancanze, a ricucire rapporti, a mediare con estrema diplomazia ogni rottura e ad insabbiare con assoluta discrezione qualsiasi scandalo o scappatella.
«Chi è Hersilia Fry?».
Le luci della ribalta quali scheletri tireranno fuori, in quale mostruoso abisso getteranno il loro sguardo inquisitorio?
Il fatto che l’ostacolo al successo di ognuno dei personaggi sia proprio la persona che sta per essere premiata con la più alta onorificenza nel campo della Letteratura rende la storia ben più complessa di un normale conflitto familiare.
Si dice che dietro ogni eroe si celino angoli bui che è meglio tener nascosti, ma cosa può accadere se l’eroe è solo presunto tale, se si è macchiato di un delitto, seppur figurato, distruggendo i sogni letterari della moglie, e non solo i suoi?
Oltre alle riflessioni sul ruolo femminile e sulle delusioni dei figli d’arte, il film punta a ragionare su cosa possa esserci ancora di vero in un mondo in cui, per aver successo, bisogna scendere a patti con i lati oscuri della propria anima, un mondo per cinici calcolatori, esperti di statistiche e marketing. C’è ancora una speranza di meritocrazia? È possibile una sensibilità indiscriminata nei confronti dell’Altro in quanto diverso da noi, ma egualmente meritevole di opportunità di fortuna, come si domandava in altri tempi Cicerone?
Per quanto riguarda i brani musicali è Jocelyn Pook a commentare le scene per lo più con musica da camera priva di brillantezza. Pook ha acquisito risonanza internazionale componendo la colonna sonora del film di Stanley Kubrick Eyes Wide Shut, celeberrimi i brani relativi alla sequenza del ballo in maschera. Altra perla non sfruttata nella maniera adeguata.
In conclusione, The wife è un film che interessa ma non affascina, che fa riflettere ma non illumina. E nell’ombra è difficile brillare.
Di rilievo, per contro, un tentativo di chiudere una struttura ad anello con la citazione verbale e visiva di un verso di James Joyce:
«La sua anima si dissolse lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti».
Presentato in anteprima mondiale al TIFF 2017, The wife è pronto per approdare nelle sale italiane dal 4 ottobre 2018.