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La battaglia dei sessi, di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Ne La battaglia dei sessi (Battle of sexes), il biopic (l’ultimo amore folle di Hollywood) firmato Jonathan Dayton e Valerie Faris (Will, Ruby Sparks, Little Miss Sunshine), sul cemento del campo da tennis dell’Astrodome di Houston in Texas si fronteggiano Billy Jean Kings (Emma Stone), detentrice di 12 Slam in singolare e di sei trofei a Wimbledon e paladina della lotta all’uguaglianza nel trattamento economico degli atleti, e Bobby Riggs (Steve Carrell) “porco maschilista”, vincitore di 2 U.S. Open e una volta a Wimbledon, e convinto (??) fautore di un mondo rigidamente inquadrato nel dicotomia sessista di ciò che è possibile agli uomini e ciò, molto, che alle donne non è concesso per biologia e capacità. L’esito della partita è noto a tutti (6-4, 6-3, 6-3 per Billy Jean); meno approfondita è stata la storia dei retroscena personali di una partita combattuta più contro se stessi che non contro un avversario contro cui dimostrare il proprio valore di atleta.

Dopo la pubblicazione di Open di Andre Agassi, il tennis è balzato all’attenzione anche dei non appassionati, primi tra tutti gli sceneggiatori del grande schermo (in uscita il 9 novembre la storica rivalità tra Borg e McEnroe). Se per la settima arte i nuovi ritrovati tecnologici che permettono di inquadrare e montare agilmente gli scambi di un grande campo da tennis che in passato potevano risultare difficile da rendere e rappresentare giustificano un progressivo interessamento a questo sport, dal canto suo lo sport in sé, dopo la storia editata da J. R. Moehringer, continua ad essere usato più come metafora di “altre” partite da combattere che non come mero racconto di uno scontro sportivo.

 

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Billy Jean deve lottare e superare il limite imposto dalla società maschilista degli anni Settanta, appena uscita dalle lotte sessantottine, ma per niente maturata alla luce delle battaglie appena combattute: in campo sportivo le donne continuano ad essere volutamente sottopagate rispetto ai colleghi uomini, nonostante il loro peso mediatico sia equivalente. Con ancora più energia deve lottare contro la sua sessualità, di cui conosce inconsciamente conosce da sempre l’orientamento, ma a cui non è mai riuscita a dare apertamente un nome e a dichiararlo pubblicamente (come biasimarla, del resto?), fino a quando la lotta per la parità dei sessi, la partita contro Riggs e l’incontro con Marilyn Barnett (Andrea Riseborough) la spingono a prendere una decisione definitiva, che le cambierà la vita in meglio, facendo però le spese con la sua serenità, anche di atleta (un tormento messo in primo piano da Simon Beaufoy, sceneggiatore di questa pellicola e già premio Oscar nel 2009 per The Millionaire), e con la felicità del marito Larry (Austin Stowell), personaggio tra i meno approfonditi della storia e che avrebbe meritato una caratterizzazione maggiore.

Bobby Riggs, dal canto suo, deve lottare primariamente contro il Bobby Riggs pubblico, quello che tutti conoscono per il vizio del gioco e che non riesce a mantenere un equilibrio sano nelle sue relazioni umane, primariamente con l’ultima moglie Priscilla (Elisabeth Shue), stanca dei suoi eccessi ma mai veramente in grado di slegarsi da lui. Bobby sceglie di indossare la maschera del maschilista convinto e ottuso, ma agli spettatori viene innestato il dubbio che delle sue posizioni non fosse realmente convinto.

La battaglia dei sessi presenta uno dei più banali e usati cliché della lotta di genere, amplificato dal suo avvenire in ambito sportivo. Ci si aspetterebbe, allora, un forte approfondimento della questione sociale in modo da nobilitare quanto possibile la lotta compiuta da Billy Jean, non semplice simbolo mediatico ma vera apripista di un cambiamento radicale. I registi (e lo sceneggiatore, non alla sua migliore scrittura), spostano invece il peso sul piatto della bilancia dedicato alle questioni personali, lasciando le dinamiche storiche a fare da eco sullo sfondo. La battaglia dei sessi è tutto un gioco di sguardi, di sospiri, di mani che si toccano e corpi che si sfiorano. L’agonismo diventa quasi un’ossessione e non la carica con cui innescare i gesti non solo sportivi e il mood complessivo della pellicola è melodrammatico, non cronachistico, nonostante la lotta di genere sia un argomento di cui non è mai abbastanza parlare. Jonathan Dayton e Valerie Faris hanno voluto presentare un film apparentemente indie, confezionando invece una pellicola mainstream a tutti gli effetti, fatta di battute esilaranti del one man show Carrell, fisici femminili in bella vista e pruriginosi gesti saffici.

Emma Stone, a parte l’incredibile metamorfosi fisica per assomigliare all’androgina bilie Jean, non è alla sua migliore interpretazione (così come vale per Carrell). Ma cosa chiedere, del resto, agli attori quando l’impianto di regia non riesce a sfondare il velo delle banalità?

 

The founder, di John Lee Hancock

The Founder, di John Lee Hancock [Saving Mr. Banks, The Blind Side, The Rookie – Un sogno una vittoria], racconta la storia vera dell’imprenditore Ray Kroc e di come sia riuscito a far diventare McDonald’s la catena di fast food più famosa al mondo. Non solo, è lo scontro tra due imprenditori idealisti e uno senza scrupoli. Così, mentre il produttore Don Handfield [Touchback, Knightfall]romanza l’origine del film legandola all’ascolto della canzone “Boom, like that” scritta da Mark Knopfler, storica chitarra dei Dire Straits, proprio dopo aver letto l’autobiografia di Ray Kroc, un altro produttore, Aaron Ryder [Memento, The prestige, Donnie Darko, Arrival], spiega: «è un film sull’America e sul capitalismo. Parla della determinazione per il raggiungimento del successo, dell’integrità della ricerca e anche della sua perdita. Rappresenta il sogno americano: si può avere successo nonostante tutto grazie alla pura forza di volontà».

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Ray Kroc [Michael Keaton], semplice commesso viaggiatore di una ditta che vende multimixer per frullati, dall’Illinois si precipita ad incontrare i fratelli Dick e Mac McDonald [Nick Offerman e John Carroll Lynch], che stavano tirando su una catena di ristoranti specializzati nella somministrazione del classico menu da fast food: hamburger, patatine e bibita analcolica.

Quello che li contraddistingueva dalla massa durante il boom economico degli anni ’50, in California come nel mondo, era un sistema espresso per preparare e confezionare che avrebbe rivoluzionato il mercato. Kroc, visto il potenziale per un franchise, cerca con qualsiasi manovra di guadagnarsi una posizione nel loro business, sfidando la ritrosia e le regole ferree dei fratelli, inamovibili nel non voler snaturare la genuinità del loro prodotto e del loro brand.

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Ma allora come si è giunti all’attuale status quo? Chi l’ha spuntata lo si sa, senza neanche vedere il film, ma quello che la sceneggiatura avvincente, dinamica e senza sbavature o falsi moralismi riesce a realizzare è di tenere lo spettatore incollato alla poltrona ad aspettare lo svelamento delle macchinazioni.

E se in fondo al cuore l’umanità positiva dei McDonald lo emoziona e lo muove alla protesta, allo stesso tempo, lo spettatore è rapito dalla carismatica figura di Kroc/Keaton che dialoga direttamente in macchina colmando il vuoto che c’è oltre quella barriera invisibile che è la cosiddetta “quarta parete” con la sua determinazione. Interpellando direttamente il pubblico si erge a protagonista indiscusso e, come per incanto le sue azioni immorali diventano lecite e, anzi, desiderate in quanto fulcro della trama intera.

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La sceneggiatura di Robert Siegel [The Wrestler] è indiscutibilmente da Oscar, come lo è anche la ricostruzione storica operata dallo scenografo Michael Corenblith, dalla set decorator Susan Benjamin e dal costume designer Daniel Orlandi per la fotografia di John Schwartzman, ispirata ai dipinti di Edward Hopper e realizzata con macchine Arri Alexa XT equipaggiate con lenti anamorfiche Panavision ed uno spettacolare rapporto 2.39:1.

Oltre a Michael Keaton [Birdman, Il caso Spotlight], Nick Offerman [Knight of Cups] e John Carroll Lynch [The invitation, Zodiac], nel cast anche Linda Cardellini [Avengers: Age of Ultron], Patrick Wilson [Insidious, Oltre i confini del male: Insidious 2, L’evocazione – The Conjuring, The Conjuring – Il caso Enfield], B. J. Novak [Saving Mr. Banks, Reign over me, Bastardi senza gloria] e Laura Dern [Wild, Jurassic Park].

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Il sogno di Francesco, di Arnaud Louvet e Reanud Fely

Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi.

Un detto che calza quasi a pennello con l’ambivalente figura di Francesco, santo nazionale ma prima frate di un ordine “minore” nell’essenza e nella dimensione mistica. Una vita battuta da molti biopic sia cinematografici che televisivi (Fratello sole, sorella luna di Franco Zeffirelli al Francesco con Raoul Bova di Michele Soavi), spesso concentrati sulle fasi umane e delle scelte di un uomo che abbandondando la via che la vita aveva pensato per lui ha, in fondo, abbandonato una via storica per intraprenderne un’altra, diversa e rivoluzionaria. Propria questa nuova via battuta dal santo non era mai stata al centro di una pellicola e Il sogno di Francesco, interpretato da Elio Germano approdato all’ennesimo (rischioso) ruolo drammatico profondo e storico, ha primariamente (e forse unicamente) il merito di raccontare una storia ai più sconosciuta. Il film non è tanto il biopic sul santo umbro, ma il racconto dell’incrinarsi di un’amicizia, del consumarsi del tradimento tra Francesco l’utopista ed Elia da Cortona il pragmatico. Quest’ultimo (interpretato da Jeremy Renier) si affannerà per l’intera esistenza, buona parte passata dietro la tonaca di Francesco, a fargli modificare la “Regola” per essere accettati più facilmente da papa Innocenzo III e fare in modo che, finalmente, Francesco e i suoi discepoli non vivano più ai margini della società.

«Il sogno di Francesco è un’avventura sentimentale e politica e queste due cose ne fanno una sola – hanno spiegato i registi – All’opposto del potere dominante, Francesco reinventa una vita libera, spogliata da ogni attaccamento materiale, che rimette il bisogno dell’altro al centro di tutto, cosa che per l’epoca costituiva una vera e propria rivoluzione. Il suo carisma, il suo talento oratorio e la sua autenticità ne attirarono al seguito personaggi di tutti i tipi: letterati, eruditi, crociati pentiti, clerici e laici e persino contadini e miserabili. Tutti questi uomini vivevano insieme. Il movimento si estese, cominciando a creare dei problemi al potere costituito. Questo insieme di rivolta mite, di profondo umanesimo e di utopia collettiva ci sembrava magnifico da raccontare».

Francesco 2All’insolito duo di registi Arnaud Louvet (solitamente produttore e sceneggiatore) e Reanud Fely (al secondo lungometraggio) nessuno deve aver suggerito il vecchio adagio italiano. Il sogno di Francesco infatti ha quell’andamento lento e contemplativo di un’agiografia volontaria e ragionata del santo più amato dal belpaese e non solo. È un Francesco laico quello del grande schermo francese. La coerenza artistica di chi l’ha pensato e realizzato, l’ha voluto – come è ovvio – è distante da una fedeltà storica. D’altronde è un film, non un documentario. Un Francesco laico, non devoto quindi ma all’opposto. È il Francesco in contrapposizione con l’idea di chiesa cattolica, bigotta e chiusa. Il Francesco che non le fa sconti, che l’avversa e la contesta. E in questa dimensione del Francesco laico che alcuni lo vogliono come primo uomo del dialogo tra cattolici e musulmani. Ambasciatore di pace e di fratellanza tra le nazioni. Eppure non c’è tanta vita di Francesco nel film prodotto da Aeternam, Mir Cinematografica, Entre Chien et Loup. Come la ragione di fondo della sua vicenda di santo, la missione primordiale: ‘Va e ripara la mia casa’. La chiamata affinché la Chiesa – appunto «madre Chiesa», per Francesco che le offre sincera obbedienza – sarebbe stata cambiata per non essere mai più quella. Apparizione profetica, parallela al sogno di Papa Onorio III che, in una notte di forti turbamenti, diventa cosciente di come quello ‘straccione’ d’uomo, sarà il pilastro di un nuovo ordine secolare. Ne Il sogno di Francesco ritroviamo prima il racconta di una fratellanza, enfatizzata dal racconto per capitoli ognuno col nome di un fratello e solo una dedicato a Francesco stesso. Più pervasiva invece la presenza dell’enigmatico personaggio di frate Elia, che qualcuno vuole alchimista, altri aspirante numero due di un Francesco tutt’altro che interessato a essere numero uno e, altri ancora, autore della misteriosa sepoltura del santo, grazie alla quale, per secoli, non sarà rinvenuto il suo corpo. Troppo invasiva e fuorviante, nonostante l’ottima interpretazione dell’attore.

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De Il sogno di Francesco rimangono le immagini di una Assisi medioevale, non carica come in edizioni precedenti di film sul santo. La fotografia (firmata Leo Hinstin) è studiata su una dimensione intima dell’uomo Francesco, degli uomini frati, con soggettive e primi piani, in contesti quasi sempre all’aperto. La ‘pellicola’ lascia che le immagini dicano più di quanto i personaggi stessi esprimano. Così una suggestiva costellazione racconta la passione dei frati per l’esplorazione del cosmo. E così Chiara (Alba Rohrwacher), appare in un rapporto molto complice con Francesco, come qualcuno ha scritto, e tanti creduto, fino a farsene fascinare. Carne viva sono le figure e le riprese di scene che giocano d’effetto. Mentre la gioia di Francesco, dei frati, è allegrezza e leggiadria. Piuttosto che ilaritas, ovvero sentimento di pienezza per tramite di Dio. Questo aspetto è delegato invece a momenti di intensa preghiera e canto, dove la commozione arriva a trasfigurare il volto di Francesco, fino a trasformare un’Ave Maria in grido d’amore.

Il trailer di Love & Mercy, di Bill Pohland

Love & Mercy è il biopic dai toni intimi e dal linguaggio non convenzionale, diretto e co-prodotto da Bill Pohlad, su Brian Douglas Wilson, enigmatico cantautore, musicista, compositore, arrangiatore e produttore discografico, soprattutto noto come leader, cantante e fondatore del gruppo musicale californiano The Beach Boys. Ad interpretare quello che è unanimemente considerato uno dei più grandi geni della musica contemporanea, l’innovativa star che, con il suo continuo sperimentare, ha profondamente influenzato la musica pop/rock negli ultimi decenni, nei diversi momenti della sua vita sono Paul Dano [Little Miss Sunshine, Il petroliere, Prisoners], molto apprezzato dalla critica, e John Cusack [Non per soldi… ma per amore, Essere John Malkovich, Alta fedeltà].

Percorrendo più di trenta anni della sua vita, il film rivela il lato oscuro e complesso che si nasconde dietro quella musica all’apparenza spensierata, che parla di amori sotto il sole e sulle spiagge, di colui che definì il “California sound” attraverso sontuose armonie e visioni d’estate infinite tra sabbia, surf e belle ragazze in bikini.

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Negli anni sessanta, il giovane cantautore Brian Wilson si ritrova nel bel mezzo di un successo straordinario dopo aver battuto numerosi record con la sua band. A seguito di un attacco di panico, Wilson decide di rinunciare al tour e di impegnarsi a registrare in studio «il più grande album mai registrato». Mentre tenta disperatamente di far fronte alle opprimenti voci nella sua testa, il suo contatto con la realtà si attenua sempre più.

A fare da controcanto alla vita di Brian da musicista saranno la sua battaglia contro la malattia mentale e gli abusi di droga.

Negli anni ottanta, Wilson si è trasformato in un fragile e confuso uomo di mezza età, soggiogato legalmente e psicologicamente dal suo terapista – abusivo -, il dottor Eugene Landy [Paul Giamatti]. La provvidenziale relazione con la venditrice di Cadillac Melinda Ledbetter [Elizabeth Banks] lo salverà dalle manipolazioni di Landy o peggiorerà la situazione?

Da che è stata presentata al Toronto International Film Festival nel 2014 la pellicola ha fatto il giro dei festival di tutto il mondo e sarà ora distribuita nelle sale a partire dal 21 aprile 2016.

Realizzato con la piena collaborazione del musicista e della moglie, Love & Mercy offre un ritratto inedito del ragazzo prodigio che co-compose alcune delle hit più spumeggianti del pop come “Surfin’ USA” e “Fun, fun, fun” e capolavori che hanno cambiato la storia della musica come “Good vibrations”, “Wouldn’t it be nice” e “God only knows”, prima di ritirarsi dalla scena pubblica per molti anni.

Ma ben al di là di ogni inquadratura, linea di dialogo e ricostruzione storica, sarà sicuramente la musica la vera protagonista del film! Cosa catturerà di più la vostra attenzione?

In anteprima la recensione di Love and Mercy