Casa di Bambola, dramma scritto da Henrik Ibsen nel 1879, è per molti versi un testo di sconcertante attualità: ancora oggi, la riflessione sul ruolo della donna nella famiglia e, per esteso, nella società, nonché le valenze del concetto di libertà personale sono tutto fuorché argomenti scontati e pacifici.
Roberto Valerio, regista e attore (è lui ad interpretare Torvald Helmer), riscrive la pièce per un pubblico contemporaneo, ma senza tradire le intenzioni dell’autore: solamente sul finale la riscrittura lascia spazio al dubbio, ad una attesa che si consegna come tale, senza confortanti soluzioni.
La scena si apre sul salottino di una dimora dalle forme arrotondate e sbilenche, tranquillizzanti e inquietanti al contempo, che evocano la soporifera abitudine della tranquillità borghese ma anche le sue profonde contraddizioni. Nora Helmer, interpretata da una Valentina Sperlì perfettamente a suo agio sul palco, incarna tutto questo: una donna che si è adattata al ruolo che il padre prima e il marito poi hanno ritenuto adatto a lei, quello della moglie/madre perfetta (rigorosamente inseparabili in una società di stampo patriarcale) ma senza personalità, una bambola bella da guardare ma priva del diritto di essere. Eppure, Nora è destinata a un doloroso percorso di crescita che le offre l’opportunità di capire che il suo “meraviglioso”, termine con il quale esprime l’anelito alla felicità, non si esaurisce tra le mura domestiche, né tantomeno nella figura del marito, Torvald Helmer. Per salvargli la vita, infatti, la devota Nora falsifica la firma del padre, ottenendo così, illecitamente, un prestito dall’infido Krogstad (Michele Nani), impiegato bancario per professione ma usuraio per necessità. Divenuto direttore di banca, Torvald è intenzionato a licenziare Krogstad, ma la scoperta dell’inganno della moglie lo mette nella posizione di dover cedere ai ricatti del sottoposto, per timore di perdere la faccia. Sentendosi ormai messo con le spalle al muro, l’uomo perde il controllo e inveisce rabbiosamente contro Nora, accusandola di essere una moglie indegna e minacciandola di allontanarla dai figli, perché incapace di assolvere compiutamente il suo ruolo di madre. Tuttavia, quando Krogstad, innamoratosi di un’amica di Nora, ritira le sue minacce, Torvald, cambia repentinamente umore: comprendendo di essere ormai salvo, si precipita a rassicurare sua moglie, offrendole il suo perdono. Ma nella vita di Nora, da quel momento in poi, niente sarà più lo stesso: tutte le certezze su cui aveva edificato la sua identità di sposa ideale crollano inesorabilmente di fronte alla vigliaccheria di quello che credeva essere un uomo nobile e coraggioso. La donna, precedentemente considerata graziosa come una docile marionetta e trattata alla stregua di un uccellino da appartamento (un’allodola, come la apostrofa spesso Torvald), prende coscienza di sé e decide di intraprendere un solitario cammino di autoconoscenza e di realizzazione personale, anche a costo di abbandonare il marito e i suoi figli.
Lo farà davvero? Roberto Valerio sceglie di non offrire risposte univoche, né facili conclusioni: qualunque sia la scelta di Nora, lo spettatore sa di aver assistito a un processo irreversibile di liberazione, che consiste nella riscoperta del proprio valore, nel superamento delle illusioni infantili come della consapevolezza che, per imporre la propria presenza nel mondo, non è necessario dipendere né dal denaro altrui, né da una posizione sociale, né dall’immagine idealizzata di un uomo-padrone che desidera per sé solo una bambola priva di aspettative e capacità di autodeterminazione. La Nora fragile ma imponente di Valentina Sperlì, che si riveste con dignità prima di dire addio alla prigione dorata in cui ha vissuto per tutta la vita, si volta verso il pubblico: è uno sguardo penetrante, il suo. Vibra della forza di chi, attraverso la pena, ha scoperto cosa può, cosa vuole diventare. Si toglie la parrucca, poi la indossa di nuovo. Nora è lì, in ginocchio, con il volto tra le mani. La sua vecchia identità le rimane appoggiata addosso, sui vestiti, sul capo, ma della bambola che era non rimane altro che una desolata ed effimera apparenza.
Applausi.