Cate Blanchett

Roma FF13 – The House with a Clock in Its Walls, di Eli Roth

Ci sono case che hanno vita propria, che si muovono e cambiano costantemente, proprio come coloro che le abitano. I muri scricchiolano, le poltrone sobbalzano e i quadri cambiano soggetto a loro piacimento, ma non è detto che questi fenomeni fuori dall’umana comprensione siano necessariamente frutto di una presenza oscura o di una possessione demoniaca, spesso si tratta di pura e semplice magia. Certo è però che quando il piccolo Lewis arriva nella casa dell’eccentrico zio Jonathan, dopo aver perso i genitori in un incidente, l’ultima cosa a cui pensa è che i strani eventi a cui assiste siano frutto di magia.

Jonathan, mago di professione, ha scelto di prendersi cura del suo nipotino Lewis insieme alla sua inseparabile amica Mrs Zimmerman, pur non avendo idea di come trattare un ragazzino di dieci anni. Jonathan non ha regole, suona il sassofono in piena notte e mangia biscotti al cioccolato fino a scoppiare, ma questo è niente rispetto a tutte le stramberie a cui assiste Lewis. Tutto in quella casa è magico e Lewis ne è allo stesso tempo attratto e spaventato, ma questo è solo l’inizio dell’avventura più incredibile della sua vita.

Jonathan e Mrs Zimmermann infatti sono da tempo alla ricerca di un misterioso orologio nascosto tra le pareti della casa, appartenente al potente mago che la abitava prima di loro e, pur sforzandosi di proteggere Lewis da qualunque pericolo, non possono impedire al ragazzo di manifestare la sua curiosità e le sue doti innate per la magia. Ed è proprio questa nuova passione ad aiutare il ragazzo a superare i problemi di integrazione nella nuova scuola e a crearsi nuove amicizie. Lewis è il classico outsider, emarginato dai coetanei per il suo look inusuale e il suo interesse spiccato per il mondo della magia ma, per chi riesce a guardare oltre la superficie, Lewis è un ragazzo intelligente e pieno di coraggio, l’amico che chiunque vorrebbe avere al proprio fianco, soprattutto se si devono affrontare zombie, zucche assassine e stregoni malvagi.

Il valore dell’amicizia è uno dei temi fondamentali di The House with a Clock in Its Walls, il leitmotiv di tutta la storia, e coinvolge tutti i personaggi, a partire dallo zio Jonathan e Mrs Zimmermann, che da sempre combattono fianco a fianco le forze del male, ma anche la solitudine, il dolore della perdita e il passare del tempo. Sembra quasi che il potere dell’amicizia superi in forza anche la magia stessa, e che quest’ultima non sia altro che l’espressione di un potere sconosciuto, insito in ognuno di noi, che non aspetta altro che il momento giusto per sprigionarsi.

The House with a Clock in Its Walls è tratto dal romanzo del 1973 La pendola magica, scritto da John Bellairs, scomparso prematuramente all’età di 53 anni, dopo aver pubblicato diciassette romanzi. Eli Roth, una delle voci più originali del cinema horror degli ultimi anni, ha preso questo classico per ragazzi e lo ha trasformato in una commedia surreale e vibrante, capace di combinare gli elementi oscuri tipici del suo cinema con l’elemento fantastico del testo originale. La pendola magica tra le mani di Roth diventa una favola nera, divertente e spaventosa allo stesso tempo, ma perfettamente in grado di mescolare gli ingredienti più disparati in un enorme calderone magico che riesce a lasciare tutti senza fiato.

Song to song, di Terrence Malick

Austin è l’unico posto al mondo in cui la musica si respira, si assapora, e si vive fino in fondo. Non c’è musicista o aspirante tale che non si sia lasciato trasportare dal ritmo di questo luogo straordinario, mitico a tratti, dove un festival musicale ne insegue un’altro e country, folk, blues, new wave, punk o rock si mescolano in un’unica armonia. Talvolta il ritmo frenetico di Austin fa girare la testa, ma l’unica maniera per scoprire la propria identità è perdersi tra le pieghe della capitale mondiale della musica live, farsi risucchiare dal vortice dei concerti e della vita mondana, incontrare gli artisti, innamorarsi, e lasciare che qualcuno di loro ti cambi la vita, che sia con un bacio o con una canzone.

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Di canzone in canzone e di bacio in bacio, la giovane cantautrice Faye (Rooney Mara) si tuffa a capofitto nella vita musicale di Austin, facendosi rapire prima dalla sensualità esplosiva del suo produttore Cook (Michael Fassbender), impegnato con la cameriera Rhonda (Natalie Portman), e poi dalla dolcezza ingenua di BV (Ryan Gosling), la sua anima gemella musicale. La musica li nutre, li attrae l’uno all’altro più del sesso e li lega in un triangolo amoroso dal quale è impossibile uscire. Ed è proprio in questo momento che il regista Terrence Malick entra nelle loro vite, di soppiatto, senza far rumore, solo per danzare con loro. Sembra quasi che i personaggi vengano scoperti quasi casualmente dalla macchina da presa, che si avvicina ai loro volti tanto da annullare il confine tra l’inquadratura e la loro pelle, ma non tanto da infrangere la loro intimità.

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La loro danza scorre leggera, lenta, come un flusso di adrenalina costante. E loro non fanno altro che volteggiare, attorcigliarsi, abbandonarsi alla bellezza della natura che li ingloba. Ancora una volta Terrence Malick si dimostra un maestro dell’arte mimetica, capace di catturare gli sguardi e i comportamenti discreti e attraverso questi narrare la sua storia. E le immagini mostrate sono talmente magnetiche da ingoiare i dialoghi, lasciando che siano i corpi a parlare, e ancora di più gli spazi in cui si muovono, rappresentazione speculare del loro continua ricerca della perfezione estetica.

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La fotografia fluida di Lubezki impreziosisce la pellicola e riesce a far emergere il lato oscuro e nascosto dei personaggi con un collage di inquadrature studiate in ogni dettaglio, estreme in alcuni casi, ma talmente potenti da risucchiare lo spettatore dentro all’immagine stessa, fino all’abisso in cui sono imprigionati i personaggi. La firma di Malick è evidente in ogni scena, così come la sua capacità di far intravedere l’inferno dietro l’apparenza del paradiso, la corruzione dietro la perfezione, e di affascinare chi nel cinema cerca l’immagine sopra ogni cosa.

Knight of cups, di Terrence Malick

C’era una volta un giovane principe che fu mandato dal padre, il re dell’Est, fino in Egitto, allo scopo di trovare una perla. Quando il principe arrivò la gente versò lui da bere in una coppa. Non appena il principe bevve dimenticò di essere il figlio di un re, perse memoria della perla e cadde in un sonno profondo.

Il padre di Rick gli leggeva spesso questa favola da bambino. Rick (Christian Bale) è un autore di commedie che vive a Santa Monica. Un luogo da sogno ma Rick desidera qualcosa di diverso, che vada oltre la vita a cui è abituato e che conosce, ma non sa cosa sia, né come trovarlo. La morte di suo fratello Billy grava su di lui come un’ombra. Suo padre Joseph (Brian Dennehy) prova a causa di questa perdita degli enormi sensi di colpa. L’altro fratello, Barry (Wes Bentley), sta attraversando un periodo borderline, nonostante si sia appena trasferito a Los Angeles vicino al fratello che prova in tutti i modi (ma forse anche no) a rimetterlo in piedi. Rick sembra trovare la risposta nel suo grande interrogativo della vita nella compagnia delle donne: Della (Imogen Poots); Nancy (Cate Blanchett), una dottoressa con la quale è stato sposato; una modella di nome Helen (Freida Pinto); Elizabeth (Natalie Portman), una donna sposata che lo trasforma nel suo amante e che rimarrà incinta; la spogliarellista Karen (Teresa Palmer); e Isabel (Isabel Lucas), una giovane donna che sembra fermamente intenzionata a farlo guardare avanti, verso una nuova e diversa direzione. Sembra che le donne siano molto più sagge di lui. Lo avvicinano al cuore delle cose, al mistero. Ma è tutto inutile. Le feste, i flirt, la carriera: nulla lo soddisfa. Eppure, ogni donna, ogni uomo che ha incontrato nel corso della sua vita è servito, in qualche modo, come guida, come messaggero.

Knight of cups

Knight of cups si presenta come un film di Malick a tutti gli effetti, e come nel caso di The New World – Il nuovo mondo e di To the wonder si rimane indecisi sulla sensazione da provare nel corso della visione: è più forte il desiderio che il film duri per sempre, ben oltre i 118 minuti previsti, dato che non è sufficiente questo lasso di tempo per comprendere fino in fondo cosa una pellicola del regista di The Tree of Life voglia davvero comunicare, suggerire, evocare o spingere a riflettere, oppure è più pressante l’insofferenza e il desiderio che tutto finisca in un attimo, per porre fino a quell’imbarazzante masturbazione estetica che è ogni montaggio di Malick, tutti i film, nessuno escluso? Al regista si dà sempre una chance, ma si viene sempre delusi e in Knight of cups più che negli altri casi (o forse la colpa è delle aspettative di chi scrive): estetica, montaggi azzardati, soggettive al limite (con un’ossessione invadente delle scene subacquee), taglia e cuci di momenti che stordiscono e che, per di più, non vengono controbilanciati da una forza di sentimenti senza misura. L’amore raccontato da Malick è sempre uguale a se stesso e viene presentato come l’unico modo possibile d’amare, in maniera distruttiva, totalizzante ma per questo alienante, in una dinamica di coppia dove non si fa altro che discutere sui temi profondi della vita e sul senso dell’esistenza umana, crogiolandosi tra le lenzuola o passeggiando in riva al mare senza meta e dimentichi degli ordinari ritmi di vita.

Qualcuno chiamerà questa dinamica di racconto geniale, innovativa e destabilizzante e, in effetti, il quantitativo di tempo trascorso durante la visione a chiedersi cosa fosse quella spiacevole sensazione di oppressione potrebbe essere il sintomo di una tale immedesimazione da superare il filtro della macchina da presa. Altri ricorderanno la pellicola non per il contenuto, non per la performance degli attori, non giudicabile dato che la loro presenza viene ridotta a frase sconnesse pronunciate fuori campo, ma per la splendida fotografia che porta un nome, Emmanuel Lubezki identificabile come il vero maestro dei crepuscoli e delle luci in declino.

Malick ha un po’ stancato, ma forse non smetteremo, ancora una volta, di correre in sala per masturbarci esteticamente insieme a lui.

Truth – Il prezzo della verità, di James Vanderbilt

«La curiosità è tutto!»

Il giornalista è l’ultimo baluardo di quell’istituzione che permette al cittadino di ricevere un’informazione completa e veritiera circa il Bene comune.

Lo sa bene il regista James Vanderbilt, sceneggiatore del capolavoro Zodiac, il thriller investigativo incentrato sull’omonimo assassino seriale che sconvolse San Francisco tra gli anni sessanta e gli anni settanta: «Il cinema e il giornalismo rappresentano modi diversi di raccontare una storia. Sono cresciuto con Tutti gli uomini del presidente e ho scritto e co-prodotto Zodiac, e sono sempre stato molto attratto da quello che accade nelle redazioni giornalistiche. Quando esplode una nuova storia a 60 Minutes, come succede? Come nasce tutto?»

Lo sa benissimo il Premio Oscar® Robert Redford, che è stato il giovane cronista del Washington Post che indaga sullo scandalo Watergate nel classico senza tempo Tutti gli uomini del presidente, ma anche il fiducioso professore di scienze politiche di Leoni per agnelli, con la tenace giornalista Meryl Streep al suo fianco.

In Truth la duplice tenacia, femminile e giornalistica, è affidata alla professionale ed energica Cate Blanchett, emozionante anche in questo ruolo che non fornisce molto spazio ai sentimenti ben manifesti. L’attrice Premio Oscar® è sorprendente: il suo lavoro sul personaggio della giornalista Mary Mapes è volto a ricostruire non solo le macroazioni ma anche i piccoli atteggiamenti, le abitudini, i gesti che somigliano quasi a riflessi incondizionati di una donna estremamente preparata, intelligente e carismatica che ha vinto il Peabody Award proprio l’anno successivo ai fatti narrati dal film.

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Nel settembre 2004 un servizio della CBS alza un polverone in piena campagna per la rielezione ai danni di George W. Bush. Il reportage investigativo riporta a galla le manovre dell’allora Presidente per evitare la guerra in Vietnam ed ottenere invece un trattamento di favore durante l’intero periodo di servizio militare. Per una sorta di Effetto Farfalla, però, dal momento della messa in onda, chi ha avuto ruoli di rilievo nell’indagine giornalista sarà messo sotto pressione, a sua volta indagato e costretto a difendersi da accuse che vanno dalla diffamazione alla cospirazione contro il proprio Paese. Soprattutto la brillante Mary Mapes, produttrice del servizio incriminato, subisce un’inesorabile caccia alla «strega […] femminista e […] liberale».

Truth è tratto dal memoriale scritto dalla stessa Mapes, intitolato Truth and Duty: The Press, the President and the Privilege of Power e pubblicato da St. Martin’s Press nel 2015.

«Catturare il caos e l’intensità di una redazione televisiva sotto stress per l’avvicinarsi di una scadenza – racconta il regista – è stato come girare un film in un sottomarino: c’è un manipolo di persone tutte assieme in una scatola di sardine, e tutti parlano un loro linguaggio arcano, ma il film non si sofferma a spiegare punto per punto», anzi, tirando le somme si tratta di un film sofisticato e, inaspettatamente, avvincente. Lo spazio per i sentimenti fondamentali è davvero poco, ma quelli che riescono a farsi largo arrivano dritti al punto: il rapporto padre-figlia instauratosi tra la Mapes e il Dan Rather, anchorman storico di CBS News, interpretato da Redford, è un valore aggiunto alle caratteristiche decisamente drammatiche e coinvolgenti del film. Una pellicola che porta lo spettatore dietro le quinte delle redazioni giornalistiche, offrendo, allo stesso tempo, suspense, fasi investigative e di indagine giudiziaria.

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«Non volevo trattare nessun personaggio come cattivo – spiega Vanderbilt – Tutti cercano solo di fare il miglior lavoro possibile in un momento di crisi. Avevamo bisogno di grandi artisti in grado di conferire tutte queste nuance». Ed è proprio di grandi caratteristi che viene circondata Cate Blanchett: l’impassibile Delmot Mulroney, che si è completamente affrancato dalle vecchie commedie rosa; poi, il frizzante Topher Grace al quale viene affidato un monologo memorabile e significativo ma purtroppo troppo scollegato dal contesto; e, dulcis in fundo, il versatile Dennis Quaid, che costruisce un personaggio di ex-marine, membro del team investigativo della Mapes, ben caratterizzato dal punto di vista psicologico, con tanto di mimica e gergo militare, un lavoro raffinato, simile a quello prodotto su Doc Holliday e che gli valse gli elogi della critica in Wyatt Earp, speriamo possa non andar perduto nella traduzione italiana come l’acronimo FEA [“Fuck ‘em all”, tradotto nei sottotitoli come un ADT, cioè “Al diavolo tutti”.

Quello di James Vanderbilt che rivedremo presto con Independence Day – Rigenerazione, di prossima uscita, e con il già annunciato Independence Day 3, ancora senza un sottotitolo evocativo, è un cinema classico, senza virtuosismi né dal punto di vista dell’editing audio-video né per quanto riguarda la fotografia o la scelta del commento musicale, comunque affidate ad un veterano, Brian Tyler, che ha composto musiche per oltre 70 film [John Rambo, molte pellicole del Marvel Universe e i prossimi Now you see me 2 e Criminal, previsti entro la fine del 2016]

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«Non si può avere una repubblica costituzionale basata sui principi di libertà e democrazia senza la verità giornalistica, perché l’informazione per il cittadino è imperativa. Libertà e democrazia vengono spazzate via quando il giornalismo viene spazzato via. Ma il giornalismo non è stato spazzato via solamente nel caso della storia della leva di Bush nella Guardia Nazionale, di cui mi sono occupato. Viene spazzato via ogni singola sera, proprio ora, qui dietro l’angolo, nelle redazioni dei network nazionali e delle emittenti locali, in tutta l’America». – Dan Rather, USA agosto 2015, ma potrebbe benissimo essere un discorso universale. È tempo di meditare, come, del resto, Truth spinge a fare.

Tutte le notizie su Truth: Il prezzo della verità

È basato su uno dei più controversi casi della storia americana, Truth: Il prezzo della verità, il film d’esordio alla regia di James Vanderbilt, sceneggiatore e produttore, capace di alternare capolavori assoluti e coinvolgenti come Zodiac a blockbusters caciaroni ma di poco spessore come White house down o la nuova saga di Amazing Spider-man, per non parlare di horror flop come Al calar delle tenebre.

La mattina del 9 settembre 2004 la produttrice della CBS News Mary Mapes [Cate Blanchett] aveva tutte le ragioni per essere orgogliosa del suo servizio giornalistico. Ma alla fine di quella giornata, non solo lei, ma anche la CBS News e il famoso conduttore di “60 Minutes”, Dan Rather [Robert Redford], furono messi al centro di una bufera. Questo perché la sera precedente avevano trasmesso un reportage investigativo secondo il quale il Presidente George W. Bush aveva trascurato il suo dovere nel periodo in cui prestava servizio come pilota nella Guardia Nazionale dell’Aeronautica del Texas, dal 1968 al 1974, e che addirittura potesse avere dei legami comprovati con il movimento di Al-Qaeda. Una notizia basata su dei documenti che si sospettò fossero stati falsificati. In pochi giorni dallo scandalo, i registri del servizio militare di Bush smisero di essere al centro dell’attenzione dei media e del pubblico che, da quel momento in poi, puntarono il dito contro la trasmissione, la giornalista e il conduttore, rovinando carriere, reputazioni e vite private.

Truth: Il prezzo della verità è tratto dal memoriale scritto dalla stessa Mary Mapes e intitolato proprio “Truth and Duty: The Press, the President, and the Privilege of Power”, pubblicato da St. Martin’s Press solo nel 2015.

Un cast che, oltre al Premio Oscar® Robert Redford e alla due volte Premio Oscar® Cate Blanchett, può vantare anche la presenza di un altro grande interprete che ha raccolto finora troppo poco dalla sua carriera, Dennis Quaid.

Girato totalmente in Australia, per venire incontro alle esigenze della protagonista, con la ARRI Alexa e in formato widescreen con l’aspect ratio da 2,35 : 1. Spettacolare, nonostante la tematica drammatico-biografica.

Ecco il TRAILER italiano:

Carol, di Todd Haynes

A volte la vera bellezza si nasconde in luoghi inaspettati, dietro la vetrina appannata di un negozio di bambole d’epoca, sulle labbra scarlatte di una donna che attorciglia graziosamente i suoi riccioli biondi o nelle maglie di una pellicola delicatamente sgranata che incornicia i volti come in quadro di Hopper. La bellezza di Carol vive tra le pieghe degli abiti di seta, nella polvere di cipria e nell’eleganza formale dei corpi e degli ambienti in cui si muovono, ricostruiti con grazia e dovizia di particolari da Todd Haynes, il regista che meglio sa dipingere l’alta borghesia degli anni Cinquanta, così perfetta nelle apparenze quanto imperfetta nelle azioni.

Carol (Cate Blanchett) è una donna bellissima, sposata senza amore con un ricco banchiere newyorkese, innamorata della sua bambina ma non di suo marito. Sotto la maschera di moglie e madre perfetta, con i capelli sempre impeccabili e la vita fasciata da abiti di sartoria all’ultima moda, nasconde un trasporto inconfessabile per una giovane donna, Therese Belivet (Rooney Mara), che ha visto per la prima volta in un negozio di giocattoli la vigilia di Natale. Therese appartiene a un ambiente sociale diverso da Carol, e si sta appena affacciando al mondo adulto, ma stranamente rimane incanta da questa donna così bella e sicura di sé e fa di tutto per entrare nella sua vita.

(L-R) KYLE CHANDLER and CATE BLANCHETT star in CAROL
L’attrazione tra Carol e Therese è magnetica, brucia sotto la pelle e freme ogni volta che si toccano con lo sguardo, ma si sforza di rimanere sopita più a lungo possibile agli occhi di una società, che inizia ad accarezzare l’emancipazione della donna, ma non è ancora abbastanza coraggiosa da rompere le convenzioni che la imbrigliano nei ruolo di moglie e madre. Carol è l’America del dopoguerra, la personificazione del sentimento contrastante che freme verso il futuro ma rimane bloccato dal retaggio del passato, mentre Therese è una donna indipendente e determinata a seguire le sue passioni, ma ancora troppo insicura per scegliere per sé un amore omosessuale.

Il loro incontro nel 1952 ha acceso l’America, trasformando Carol, il romanzo di Patricia Highsmith, in un caso letterario, per aver descritto per la prima volta l’amore tra due donne newyorkesi, e oggi le parole dell’opera si sublimano in una scena elegante e perfetta nella sua compostezza. Todd Haynes dipinge la passione tra le due donne con la cura di un pittore che si sofferma sui dettagli estetici per raccontare i sentimenti che si dibattono sotto la superficie, ma rimane a guardare i suoi personaggi da lontano, attraverso una finestra invisibile, per non turbare la perfezione della casa di bambole che ha costruito per loro. Questa è la vera bellezza.