Spesso si crede di conoscere a memoria ogni angolo della propria casa, fino al più piccolo anfratto, ma si può dire lo stesso dei suoi abitanti? Chi sono davvero le persone che amiamo, che accudiamo, e che ci stanno accanto ogni giorno? Shut In parla proprio di questo, spalancando le porte più segrete della coscienza umana, i lati più oscuri e più pericolosi, ma per farlo usa il linguaggio del thriller, dell’orrore che si nasconde tra le mura di casa e all’improvviso salta fuori con tutta la brutalità di cui è capace.
Protagonista assoluta della storia è Mary (Naomi Watts), una psicologa infantile che vive e lavora nella sua enorme casa scricchiolante, isolata dal resto del mondo. I suoi piccoli pazienti le fanno visita proprio lì, a due passi dal figliastro diciottenne Stephen (Charlie Heaton), ridotto in stato vegetativo dopo un tragico incidente stradale che è costato la vita al marito Richard. Le sue giornata scorrono una uguale all’altra scandite da una serie infinita di rituali, che la vedono impegnata ad accudire Stephen, ridotto ormai a un tronco immobile e completamente dipendente da sua madre. Tutto questo fino a quando Tom (Jacob Tremblay), uno dei pazienti a cui Mary è più legata, scompare misteriosamente e da allora nulla è più come prima. Mary perde il sonno e non si da pace all’idea di un bambino così fragile disperso chissà dove tra i boschi, nella neve, quasi sicuramente morto di freddo. Ma non è tutto, perché la scomparsa di Tom coincide con una serie di eventi inspiegabili e inquietanti che iniziano a turbare la quiete della sua casa, fino a trasformare quello che fino a poco tempo prima era il suo rifugio, in un luogo ostile, terrificante come un incubo ad occhi aperti.
L’orrore qui è tangibile, e oscilla dal soprannaturale al perturbante, mettendo in campo tutti i cliché del genere, per ingannare i sensi dello spettatore e stupirlo con una serie infinita di colpi di scena. Nulla è quello che sembra in Shut In, eppure tutto sembra già visto un’infinità di volte, imparato a memoria dalla cinematografia precedente. Farren Blackburn mette insieme una macchina del terrore potenzialmente perfetta, che segue le regole del genere alla lettera e regala l’effetto sperato, ma tuttavia non riesce a creare quell’effetto di orrore esplosivo che ci si aspetterebbe da un film come questo. Ed è un vero peccato, perché in questo film non manca davvero nulla, compreso un cast di tutto rispetto, ad eccezione di quel guizzo di originalità di cui il cinema di genere contemporaneo ha un bisogno disperato. Dopo tutto anche questo, ahimè, era prevedibile.