Cinderella

Berlinale 65 – Cinderella, di Kenneth Branagh

Sei metri di velo colore del cielo, un paio di scarpette di cristallo, e il sogno diventa realtà nella meravigliosa cornice di un castello incantato in cui le principesse più belle del mondo volteggiano nei loro abiti variopinti. Cinderella è di una bellezza ipnotica e, non appena fa il suo ingresso a palazzo, gli occhi di tutte le fanciulle del regno e dei loro cavalieri sono puntati su di lei, compresi quelli del principe, che da una vita aspettava di incontrare la donna della sua vita. Un solo sguardo basta a riconoscersi l’uno nell’altra, ma a mezzanotte l’incantesimo si spezza e tutto ciò che rimane di quel fantastico sogno è una scarpetta di cristallo nelle mani di un principe disperato e una ragazza vestita di stracci nelle grinfie di una matrigna crudele. La fantasia di una notte di infrange violentemente sulla realtà, come la carrozza d’oro massiccio che si riduce a una zucca frantumata sul ciglio della strada, ma qui la fiaba resta intatta in tutta la sua magia e indossa una veste ancora più grandiosa dell’originale, tempestata di una miriade di preziosi dettagli che disegnano i personaggi e i luoghi in cui si muovono con un’eleganza mai sfiorata prima d’ora. I colori inondano lo sguardo con i loro toni saturati, e le stoffe preziose si accavallano sui fondali damascati e ridondanti di oro dei palazzi, mentre le tonalità pastello si amalgamano con i colori della natura, marcando la distanza universale tra fasullo e autentico, tra bellezza posticcia e dono innato. Questo trionfo di contrasti è una festa per gli occhi, un incanto impresso su pellicola, ma allo stesso tempo ha il potere di rendere la visione reale con dei personaggi meno ingenui rispetto al passato e fortificati da una sofferenza tangibile, che giustifica le loro azioni, empie o sublimi che siano.

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Cinderella prende vita e si svincola dal ruolo di eterna sottomessa in cui l’immaginario fantastico l’ha relegata sin dalla sua nascita, per dare contorni più definiti ad una personalità plasmata nel coraggio e nella gentilezza dai suoi veri genitori, che per la prima volta entrano in scena per mostrare al mondo l’antefatto della tragedia e la  loro vita felice nella cornice fiabesca della loro casa. Prima di Cinderella c’è la piccola Ella, che parla agli animali e mostra gentilezza verso tutte le creature che animano il suo giardino, che si lascia l’infanzia alle spalle con la perdita improvvisa dell’adorata madre e il secondo matrimonio del padre con un’affascinante vedova. “Abbi coraggio, e sii gentile perché questo è il tuo potere più grande, non dimenticarlo mai”, le diceva sempre sua madre, e queste parole continuano a rimbombarle nella testa per tutta la sua vita, ogni qualvolta la sua dignità viene calpestata dalle due sorellastre ingorde di attenzioni o dalla matrigna invidiosa della sua straordinaria bellezza e dell’amore incondizionato di suo padre. Ma il coraggio non basta e la gentilezza è impossibile da sostenere quando i soprusi superano ogni limite, frantumano i sogni e annullano l’ego, ed è allora che l’unica speranza di sopravvivenza vive nella magia, nell’intervento inaspettato di una fata madrina, che con un tocco di bacchetta magica trasforma il brutto in bello e, almeno per una notte, ristabilisce l’ordine delle cose ricompensando Cinderella con un ballo indimenticabile tra le braccia del suo principe.

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Kenneth Branagh con il suo tocco magico porta indietro le lancette dell’orologio all’epoca spensierata in cui si credeva ancora alle favole e, senza lasciarsi mai andare ai quadretti sdolcinati e a inutili orpelli fantastici, rende i suoi personaggi vivi sulla scena, ironici e arroganti all’occorrenza. Così mentre Cinderella si sforza di essere coraggiosa e gentile ad ogni costo, la fata madrina porta nella sua vita la leggerezza che le manca, la frivolezza della bellezza esteriore condita con una deliziosa patina di umorismo British, che allevia immediatamente i dolori del passato al fianco di una matrigna crudele ma irrimediabilmente affascinante, che domina la scena con i suoi costumi grandiosi e la sua cattiveria sottile. La cura per i dettagli e i giochi di parole caratterizzano questo adattamento Branagh che, solo per una manciata di ore come la sua eterea eroina, sembra essere tornato indietro alla magia di un cinema in costume profondamente radicato nella letteratura shakespeariana, in cui ogni personaggio era perfettamente inscritto nel suo ruolo per linguaggio e apparenza, e da qui traeva lo straordinario potere di attirare gli spettatori in una dimensione surreale, al di là del tempo e dello spazio, in cui tutto era possibile, anche entrare nei propri sogni.