Sei ancora qui dimostra che una storia avvincente, filmicamente ben orchestrata, vale più di centinaia di minuti spesi per un prodotto in CGI con gli attori più in vista del momento a fare i fighi davanti ad un green screen.
Sei ancora qui è un thriller sovrannaturale basato sul romanzo young adult di Daniel Waters Break my heart 1000 times, finora inedito qui da noi; ma niente panico: dal 2 ottobre 2018 il libro sarà disponibile per l’acquisto con lo stesso titolo italiano del film di Scott Speer [Step Up Revolution, Il sole a mezzanotte – Midnight Sun], edito da Sperling & Kupfer, ormai la storica casa editrice di Stephen King e Dean Koontz, per citarne due a tema.
In seguito ad un incidente catastrofico, avvenuto in un laboratorio di ricerche di Chicago, gran parte della popolazione è morta ma non ha abbandonato definitivamente il suo posto.
«Una parte di loro è rimasta. Li chiamiamo “i redivivi”».
Non si tratta dei soliti zombie e nemmeno di ectoplasmi più o meno appiccicosi, né tantomeno di poltergeist che possano infestare i luoghi a cui sono in qualche modo legati. Si tratta invece di presenze, che sono state rese un po’ più materiche di un ologramma dalle particelle sprigionate dall’esplosione nell’atmosfera terrestre, e che, però, si dissolvono come una nuvola di fumo condensato non appena un vivo le sfiora.
«Quando muoriamo lasciamo dietro di noi come una scia. Queste scie sono delle tracce che ci possono condurre indietro per interagire con i vivi».
Una situazione paradossale in cui il bambino protagonista de Il sesto senso di Shayamalan non si sentirebbe di certo più a disagio: è un mondo in cui i morti camminano, mangiano, dormono – in una parola “vivono” – con i vivi.
In questo mondo distopico in cui le barriere tra vita terrena e aldilà hanno subito in qualche modo un cambiamento radicale, le anime sono bloccate in un piccolo loop: appaiono ai vivi in un episodio di routine quotidiana, come il residuo che rimaneva a volte sugli schermi tv catodici quando si spegneva, ma non interagiscono in alcun modo con loro.
Ognuno può continuare a vedere, perciò, i propri cari, ma non solo… Senza interagire, senza poter comunicare e senza che essi possano in alcun modo interferire con i sopravvissuti. Queste sembrano le regole non scritte che valgono per tutti. Tutti tranne uno, che sembra voler a tutti i costi comunicare qualcosa ad una ragazza: Veronica Calder, soprannominata Ronnie, diciassettenne inquieta che non ha mai elaborato il lutto che l’ha colpita, che ogni mattina fa colazione con il padre perso nel famoso Incidente e che tutti i giorni saluta la madre e passa oltre un vicino di casa anch’esso morto oppure, in sella alla sua bicicletta, passa letteralmente attraverso un’anziana che tutti i giorni alla stessa ora cammina in mezzo alla strada nello stesso punto.
Ma Ronnie oltre al compianto papà, e ai vicini, ora vede un’altra presenza in casa. Si tratta di un ragazzo a lei sconosciuto. Lo spirito che vuol comunicare con lei sembra avere uno scopo, una volontà che lo rende diverso dagli altri fantasmi; la segue ovunque, le appare ovunque, non solo nella sua routine residuale. Cosa le vorrà comunicare? Le sue intenzioni saranno meramente platoniche o terribilmente malvagie?
«Ho paura che voglia farmi del male».
Per scoprirlo Ronnie si farà aiutare da un ragazzo asociale ed emarginato come lei, Kirk – interpretato da Richard Harmon [Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo – Il ladro di fulmini, Judas Kiss, Adaline – L’eterna giovinezza], e dal suo insegnante di liceo, il professor Bittner – un convincente Dermot Mulroney [Il matrimonio del mio migliore amico, Insidious 3 – L’inizio, Truth – Il prezzo della verità].
«Sai che qualcosa sta per accadere, vero?».
Ronnie è interpretata da Bella Thorne [La babysitter, Il sole a mezzanotte – Midnight Sun], che aveva già lavorato con il regista e la scelta di affidare a lei il ruolo della protagonista si è rivelata azzeccatissima: l’attrice sa essere convincente nella profonda tristezza che deve trasmettere al pubblico insieme alla frustrazione e al senso di colpa perché all’età di 9 anni ha perso davvero il padre e ha vissuto nascondendo nel profondo dell’animo gli stessi sentimenti del personaggio che è chiamata ad interpretare nel film. Il tocco in più quella parrucca nera che le conferisce un dark mood perenne, quasi voglia reprimere una evidente bellezza per autopunirsi.
I temi della perdita degli affetti e della pena autoinflitta, della presenza casuale a fronte di un’assenza forzata, dell’impossibilità di costruire legami terreni come di spezzare i vincoli con ciò che non c’è più assumono l’aspetto di una punizione estrema, potenzialmente infinita sia per i vivi sia per i morti. Come questo continuo trovarsi davanti il proprio oggetto dell’elaborazione del lutto non porti alla pazzia i personaggi lo sanno solo scrittore e sceneggiatore.
La reiterazione dell’episodio vitale dei cosiddetti “redivivi” congela una loro scena quotidiana come il cinema “immortala” una sequenza di fotogrammi. Un famoso critico dei Cahiers du cinéma, André Bazin, nel suo saggio Morte ogni pomeriggio, si scagliava contro chi spettacolarizzava la morte come fosse un atto superficiale e teorizzava un’origine psicanalitica di questa ossessione delle arti plastiche, e quindi anche del cinema, per la morte e la considerava legata ad un “complesso della mummia”: l’uomo avrebbe infatti il bisogno primordiale di difendersi dal tempo e il cinema assolve questa esigenza, perché “fissa artificialmente le apparenze carnali dell’essere” per “strapparlo al flusso della durata: ricondurlo alla vita”, realizzando il nostro inconscio desiderio di “rimpiazzare il mondo esterno con il suo doppio” e avere l’illusione di sconfiggere il tempo.
Oltre a tutte queste tematiche legate alla morte, in Sei ancora qui è presente un riferimento neanche troppo velato all’11 settembre. Forse anche più di uno, ma lascio che sia la sensibilità dello spettatore a cogliere questo genere di connessioni tra film e vita reale.
Al fine di ottenere il massimo impatto drammatico, in scene che dovevano esprimere anche epicità e mistero, sono stati adoperati gli obiettivi anamorfici Hawk, montati su una immancabile ARRI® Alexa, ed è stata fatta una scelta non si sa quanto dettata dall’economia, ma sicuramente ben giustificata dal regista: «non volevamo fare un film interamente in CGI – spiega Speer – volevamo un film drammatico portato avanti dalla recitazione dei protagonisti in cui ogni tanto potevano comparire degli effetti speciali» e per le sequenze in cui compaiono alcuni personaggi che poi spariscono nel nulla «giravamo l’intera sequenza e poi, con la mdp che ancora registrava, chiedevo all’attore che impersonava il fantasma di camminare fuori dall’inquadratura. La mdp così poteva riprendere tutto ciò che si trovava sullo sfondo. Dopodiché mandavamo tutto alla VFX Cloud di Vancouver. Quelle scene le abbiamo girate in digitale, ma avresti potuto farle anche 100 anni fa, perché fondamentalmente si tratta di una semplice doppia esposizione».
Curioso che dopo i passi in avanti delle tecniche CGI per avere effetti speciali strabilianti si torni indietro nel tempo alla sovraesposizione. Ma non è il solo elemento vintage addicted molto evidente inserito dal regista, che ha reso palesi i suoi riferimenti cinematografici di genere: «Alfred Hitchcock è stato il mio punto di riferimento per quello che riguarda la messa in moto dei sentimenti di paura e per bilanciare al meglio la tensione tra le emozioni; c’è molto di Vertigo – La donna che visse due volte e alcune influenze di Psycho. Gli horror odierni sono ben fatti ma alla fine, per far spaventare davvero, mi sono dovuto ispirare alla vecchia scuola». Come dargli torto?
Molto lontano dall’essere un capolavoro da rivedere spesso, il Sei ancora qui di Scott Speer, grazie a tutta questa attenzione nei confronti della storia, dei sentimenti e del mistero, si segue volentieri e riesce nell’intento di suscitare qualche riflessione, magari non sul senso della vita ma sicuramente sull’ossessione: che sia per la morte, per la conoscenza o per la verità è un’ossessione che probabilmente avrà un seguito…
In molti si sono chiesti perché far uscire film e libro a settembre e non in un periodo horror-friendly o sfruttando il clima invernale da neve, dato che il film cerca dichiaratamente «quella sensazione di inverno permanente» che c’è in Se7en di David Fincher.
La scelta di far uscire il film di 27 settembre non convince ma è spiegabile con dei ragionamenti di marketing basilari: Sei ancora qui si svolge più che altro in ambiente e periodo scolastico; a settembre il ritorno tra i banchi di scuola spinge il target giovanile di riferimento verso un luogo di evasione che può essere il cinema; pur non essendo ben marcata è presente una venatura horror, ma non tale da propendere per il periodo di Halloween quando in un film si cerca qualcosa di meno profondo e più goliardico; in più, uscendo in sala ora, può puntare a fare cassa a febbraio con il mercato homevideo.
Tutto ha una spiegazione tranne la morte.