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C’era una volta a… Hollywood, di Quentin Tarantino

C’era una volta…

Così cominciano le fiabe e così inizia l’avventura del nuovo lavoro di Quentin Tarantino: dal titolo. Non quello sovrimpresso nell’incipit del film, volutamente assente e significativamente collocato alla fine. Sto parlando di quello che campeggia sui poster che hanno creato l’attesa spasmodica e che richiamano un’altra epoca, l’epoca d’oro del cinema, che lui ama e che noi stessi amiamo, forse ancora di più proprio perché lui la ama così tanto e ce ne rende immancabilmente partecipi.

Ogni volta, il regista di Pulp fiction e The hateful eight ha lo straordinario potere di sospendere lo spettatore tra sogno e realtà, come un papà che, accanto al letto del bambino, inventa e rielabora, perché non ricorda o fa finta di non ricordare o semplicemente perché da grandi poteri derivano grandi responsabilità, sì, ma se hai il dono di raccontare bene forse puoi anche fare qualcosa di più: cambiare il corso della storia anche solo per il tempo di una fiaba affinché sia davvero una buona notte.

Chi legge questa recensione prima di vedere il film troverà, spero, abbastanza criptica questa introduzione. Lungi da me spoilerare la trama o addirittura il finale! Pensate che per molto tempo sul sito di wikipedia, probabilmente per proteggere il piacere della visione, è stata pubblicata una trama dotata di un finto finale! Perciò non aggiungerò niente di più, se non una piccola sinossi della trama per poi analizzare il film quel tanto che si può, senza scendere troppo nei particolari, cosa non certo facile.

Vedendo C’era una volta a… Hollywood capirete che non è tanto la fine ad essere sotto minaccia dello spoiler quanto più tutte quelle citazioni, quei riferimenti palesi o celati, quel sottotesto velato ma intriso di ammiccamenti ai cinefili che Tarantino è un maestro a disseminare anche in questo suo nono lungometraggio. Non manca niente del suo stile inconfondibile neanche stavolta. Come al solito il “collega spettatore” Quentin ha tenuto fede al suo modo estremamente ludico di far vivere l’esperienza cinematografica:

  • camei, riferimenti, citazioni e chicche per veri appassionati disseminati in una ricostruzione maniacale delle scenografie e dei costumi, senza dimenticare di inserire qualcuna delle sue fake brands;
  • il fascino per ciò che concerne la cultura pop, l’universo dei B movie, la golden age of exploitation e la filosofia grindhouse, ingredienti affini ma differenti, mescolati e shakerati, in perfetta adesione al postmodernismo, fino a smarrirne i confini distintivi e a perdere soprattutto la differenza tra verità e finzione, tra desiderio e disillusione, tra sogno plausibile e realistico e realtà dura e cruda ad iniziare dalle tanto amate locandine disegnate alle insegne al neon di una Los Angeles di fine anni Sessanta, passando per i megaposter pubblicitari, copertine di riviste come Mad magazine, i drive-in, le sale cinematografiche old style, la vita dei set al di qua e al di là della macchina da presa;
  • la simpatia nei confronti del mondo underground, del retroscena, del reietto, dell’outsider che viene finalmente illuminato dai riflettori della ribalta; spesso le scene a cui assistiamo sono momenti verosimili di vita da set: Rick si blocca durante le riprese e si fa suggerire le battute, Cliff battibecca con Bruce Lee dietro le quinte de Il calabrone verde e lo stesso palesare la presenza degli stuntmen è già di per sé una prova di questa simpatia; curiosità a margine: la presenza di Kurt Russell (lo stuntman Randy, ma anche voce narrante) e Zoë Bell (sua moglie e collega Janet) come coordinatori degli stuntman, sempre per The Green Hornet, è al tempo stesso una conferma di questa rivalsa dell’ombra e un riferimento alla filmografia del regista di Kill Bill: Russell, suppergiù con lo stesso look, aveva interpretato Stuntman Mike in Grindhouse – A prova di morte (2007) dove recitava come attrice la Bell, che in realtà lavora da sempre come controfigura, soprattutto di Uma Thurman; a tal proposito, bisogna aggiungere che Tarantino accredita loro insieme a Michael Madsen e altri come “The Gang”, praticamente i suoi attori-feticcio (proprio Zoë Bell è la regina delle presenze in 7 lungometraggi del regista). Inoltre, un altro habitué, Tim Roth, ne è accreditato come membro, anche se le sue scene sono state tagliate da questo film;
  • la consueta quantità spropositata di dialoghi e monologhi su argomenti solo apparentemente divaganti, ma che risultano coerenti con quel sottotesto intriso di cinefilia;
  • lo stallo alla messicana, o mexican standoff, che ricorre in più punti con protagonista Cliff Booth; 
  • mentre invece è assente il trunk shot, l’inquadratura da dentro il bagagliaio dell’auto, e dire che ci si arriva davvero vicinissimi al ranch! mi sa che Tarantino si è divertito a farcelo credere, questa volta, mantenendo pertanto la nostra attenzione attiva per tutto il film, salvo non si consideri la ripresa da dentro un’ambulanza, come trunk shot, del resto per Bastardi senza gloria lo si è fatto;
  • il foot fetishism, ovvero l’ossessione per i piedi, in questo caso innalzata da mero elemento ricorrente ed eccentrica firma artistica a filo conduttore nascosto e stilema vero e proprio: pensate che i piedi sono presenti nell’inquadratura in ben 36 scene, per un totale di quasi 10 minuti, senza contare che in una scena al ranch della Manson’s family c’è un tripudio di piedi, se mi passate il gioco di parole;
  • i tecnicismi, per veri intenditori, con movimenti di macchina inconsueti; l’utilizzo di dolly, crane e grandangoli; l’alternanza di vari formati di pellicola che presuppone l’utilizzo di svariati tipi di mdp, anche pezzi d’antiquariato; il montaggio tramite jump cut; lo slow motion; il ricorso al piano-sequenza e al piano nomade a sorpresa e con significati profondi;
  • la colonna sonora, ben nutrita, con 37 brani, tra cui anche uno di Charles Manson, potrebbe essere utilizzata, come al solito, per insegnare ogni funzione che può assumere la musica nell’accostamento con le immagini: si va dal semplice commento allo straniamento, dalla consonanza alla dissonanza e così via.

Il regista si diverte – è sicuramente il caso di dirlo – a far sì che tutti questi elementi occupino un’ampia porzione di film, completamente incurante delle ansiose esigenze dello show business e delle regole della comunicazione odierna con la soglia dell’attenzione ridotta ad 8 miseri secondi per l’audiovisivo (per quanto riguarda la lettura avrei già dovuto concludere qualche riga fa per sperare almeno nei fantomatici 25 lettori manzoniani!).

Ambientato nella Los Angeles del 1969, C’era una volta a… Hollywood segue le vicende di un attore in odore di declino, Rick Dalton [Leonardo Di Caprio: Revenant, Django Unchaned], e della sua inseparabile controfigura, Cliff Booth [Brad Pitt: Allied, Bastardi senza gloria]. Tra set, viaggi in macchina, flashback la trama si dipana leggiadra e si fa largo la netta sensazione che l’intero film sia un divertissement di più di 2 ore e mezza, tutt’al più un mockumentary sullo star system dell’epoca, a cavallo tra due periodi fondamentali: l’era del rassicurante cinema classico americano e la cosiddetta Nuova Hollywood, che rinnovava il processo produttivo e contaminava i generi privilegiando il realismo, decretando il successo di personaggi dal carattere complesso e di registi che erano sempre più liberi autori. Un ottimo esempio è proprio il Roman Polanski che, filmicamente parlando, abita proprio accanto a Rick Dalton in Cielo Drive: è rappresentato come l’idolo inarrivabile dell’attore protagonista – ciò lo rende simulacro di un mise-en-abyme di simulacri su cui è meglio non addentrarsi – insieme alla moglie Sharon Tate, interpretata magistralmente da Margot Robbie [Suicide Squad, Tonya], che appare sullo schermo forse meno dei piedi di Di Caprio, ma che riesce con pochi gesti misurati a trasmettere i sentimenti corretti.

Nonostante la sua presenza in scena non sia commisurata a quella dei due protagonisti, il personaggio di Margot Robbie è fondamentale. È suo il compito di far immedesimare appieno lo spettatore. Il momento in cui si giunge addirittura all’identificazione tra le due, anzi, le tre figure è la tenerissima scena in cui Sharon Tate diegetica è al cinema, scalza e con un paio di occhiali più grandi della gonna che indossa – tutto materiale fornito dalla sorella stessa della compianta attrice – a guardare la reale se stessa recitare nel film The wrecking crew (Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm), accucciata sulla poltrona, nel buio della sala, come uno spettatore qualunque, per sbirciare titubante le reazioni del pubblico al frutto delle sue fatiche artistiche.

Carica di significato anche la figura di Cliff, personificazione dell’ombra dietro l’attore. Per Rick è l’alter ego fuori dalle luci dei riflettori e della ribalta ma anche l’amico fraterno che sa consigliare e appoggiare ma anche restare al suo posto, sicuramente più costruttivo del se stesso-villain con cui litiga proprio vestito da villain attraverso lo specchio nella roulotte-camerino in una scena di eccezionale impatto.

Alla luce di tutto questo, C’era una volta a… Hollywood è un evento irrinunciabile per ogni appassionato di cinema, è la summa del processo di maturazione dell’eccentrico Quentin nel Maestro Tarantino. Non più così cinico, ironico e destabilizzante, anche se rimane la predilezione per un montaggio poliedrico e discontinuo dove si connettono spezzoni di film tra veri, falsi e ritoccati ad arte, jump cut, raccordi sugli oggetti e sei movimenti, flashback e inserti. Anche la tanto amata spettacolarizzazione della violenza, con ettolitri di sangue ad invadere lo schermo, lascia spazio all’introspezione, alla riflessione sul cinema e sullo star system. È sicuramente il suo film più personale, passionale e sentimentale pur rifuggendo il sentimentalismo in cui poteva scadere. Chissà se quando ha la sceneggiatura sapeva di mettersi a scrivere una storia per il cinema che riscriveva la storia del cinema!

La matematica annovererà questo come il 9° lungometraggio, ma il sapore che lascia dopo l’attenta analisi di ogni singolo elemento, anche quelli su cui non si può spoilerare, è che C’era una volta a… Hollywood possa tranquillamente rappresentare quello che fu 8e1/2 per Federico Fellini. Dopo The hateful eight quindi ecco il 9e1/2 di Tarantino!

Ma in mezzo ai virtuosismi, al linguaggio metacinematografico, a quel funambolico muoversi sul sottile confine tra sogno e realtà, tra passione sfrenata e malinconia latente, quello che la pellicola trasuda è il medesimo desiderio di rivalsa dei personaggi tarantiniani e così dopo tutto il giro sulla giostra dei ricordi, dopo i giochi di rimandi e citazioni, dopo la semina di quegli elementi ricorrenti e quelle firme autoriali che abbiamo imparato a trovare, il film diventa qualcos’altro: la ricostruzione arriva al momento fatidico, alla sera dell’eccidio di Cielo Drive ma… da questo punto in poi ci si rende conto che tutto ciò che ci è stato mostrato non ha il valore della divagazione – forse il McGuffin più lungo della storia del cinema – e che quell’intersecare sapientemente personaggi realmente esistiti con personaggi fittizi, il declino dietro l’angolo in contrasto con l’ascesa meritata, le ingiustizie della vita reale con le rassicuranti sceneggiature del cinema classico e delle serie tv di allora, porta ad un unico possibile punto di non ritorno, la fiabesca resa dei conti, dove la tensione, cresciuta lenta ma inesorabile per tutto il film, sfocia in un concentrato di assurda violenza – la spettacolare violenza che ci aveva lasciato più di un languorino dopo il breve assaggio al ranch-covo della Manson’s family. È l’equivalente di uno schiaffo che risveglia non, però, dal sogno bensì dalla realtà e nutre il desiderio di rivalsa attraverso un’illusione effimera che viene malinconicamente tarpata dal significativo titolo del film in sovrimpressione. Un piano nomade – espediente tecnico-linguistico già utilizzato in questo film – sottolinea l’artificiosità della storia, ricordando che certamente i sogni son desideri chiusi in fondo al cuor ma che il cinema i sogni li può rendere verosimili solo per il tempo che è concesso dalla visione e per il limitato spazio buio della sala.

C’era una volta…

Così iniziano le fiabe e così conclude Tarantino.

BlacKkKlansman, di Spike Lee

Vincitore del Grand Priz della Giuria a Cannes 2018, BlacKkKlansman di Spike Lee rappresenta una nuova maturazione della poetica del regista di Atlanta. Dopo le prove non certo idilliache degli ultimi anni – è sufficiente ricordare Red hook summer o Il sangue di Cristo, senza arrivare al povero remake di Old boy, mai perdonato dai veri fan del Maestro – con BlacKkKlansman, si ritorna alle tematiche sociali raccontate attraverso storie solo all’apparenza banali e ad un’estetica non più esasperata fino all’insopportabile eccesso, ma funzionale alla trama e, soprattutto, al messaggio che si vuole veicolare attraverso il film. Un messaggio che ha l’effetto di uno schiaffo ben assestato in un turbinio di risate: zittisce ogni superficiale commento populista e fa riflettere anche dopo i titoli di coda. Purché si abbia un cervello, logicamente.

La storia di un poliziotto che deve sgominare i complotti di un’organizzazione criminale è un plot come tanti, tantissimi film, forse migliaia.

Ma aggiungiamo che il poliziotto in questione sia afroamericano e che il Male da sconfiggere sia il famigerato Ku Klux Klan (KKK): ecco che il materiale che può far gola allo Spike Lee di capolavori come Fa’ la cosa giusta e Clockers inizia a prendere forma e a risvegliare quella coscienza forse sopita a causa di un’ispirazione non pervenuta.

Poniamo, poi, il caso che questo detective senta in sé una missione, frutto di un mix di inconscia ambizione e di assurda incoscienza:

Per combattere in prima linea la discriminazione razziale, Ron Stallworth [John David Washington] non è solo determinato ad essere il primo afroamericano ad entrare nel corpo di polizia di Colorado Springs. Vuole realizzare un’impresa mai neanche tentata prima di quel fatidico 1979: ottenere la possibilità di infiltrarsi tra le fila del KKK per smascherare le loro macchinazioni sotto traccia e la copertura politica di cui hanno sempre tacitamente goduto. Per uno come lui, dalla parlantina spigliata e dalla battuta pronta, basta una telefonata, ma una volta ottenuta telefonicamente la fiducia come può presentarsi di persona? Occorreva inventarsi qualcosa di valido ed il colpo di genio, in realtà vecchio come una commedia di Plauto o Terenzio, è la sostituzione, il classico scambio di persona. Così ad entrare in scena al posto suo sarà il collega Flip Zimmerman [Adam Driver], ebreo non praticante, innescando un crescendo di tensione man mano che si disinnescano gli equivoci e si scoprono i piani del nemico.

«Mi sento continuamente come fossi due persone».

Nel frattempo, su un fronte che più parallelo e in contrasto non si può, Ron è impegnato ad indagare sui piani di “rivoluzione” del comitato studentesco del Colorado College, dove una bella quanto forte presidentessa, Patrice Dumas [Laura Harrier], promuove attivamente il Black Power e i comizi di Stokely Carmichael [Corey Hawkins], il leader carismatico del gruppo. Un’organizzazione “alla luce del sole” per la rivendicazione dei diritti della popolazione afroamericana contrapposta ai fautori del White Power, della supremazia bianca, del nazionalismo bianco o come lo si voglia chiamare per dire “razzisti anacronistici e ignoranti”, con il loro cosiddetto “impero invisibile”, capeggiato da un David Duke che, nell’interpretazione di Topher Grace, risulta non meno misero, goffo e insignificante dell’originale dietro quella sua maschera da semplice e pacifico cittadino americano. Il David Duke di BlacKkKlansman è un personaggio che si fa portavoce di tutta quella retorica della politica di Donald Trump, criticata anche nelle immagini di repertorio presenti nell’inserto che conclude il film.

«L’America non eleggerebbe mai uno come David Duke».

Se a questo punto vi svelassero che il film è tratto da una storia vera, che la sceneggiatura è stata costruita a partire dal libro del detective Ron Stallworth, pubblicato nel 2014 proprio con il titolo Black Klansman? Da non credere? No. Ormai, dopo tante esperienze di biopic, mockumentary e meta cinema ci siamo desensibilizzati al punto da non lasciarci impressionare più di tanto. Ma questo, in fondo, più che alla trama giova al messaggio, veicolato ovviamente dall’intero film ma reso esplicito soprattutto da un inserto cinematografico, inteso come insieme d’immagini estraneo allo spazio e al tempo diegetico.

«This joint is based upon some fo’ real, fo’ real shit».

Questa trama, già di per sé estremamente pregna di significanti più o meno evidenti e spunti di riflessioni da trascorrerci ore, è infatti racchiusa in due inserti collegabili “solo” ideologicamente ad essa ed al messaggio insito in essa. Nell’incipit Spike Lee propone un cameo molto particolare: Alec Baldwin [The cooler, Zona d’ombra, Getaway], che ha già abbondantemente ridicolizzato Trump con la sua imitazione da antologia al Saturday Night Live, interpreta un senatore razzista ripreso in stile mockumentary nell’atto di registrare un discorso di propaganda elettorale: mentre esalta i presunti «valori dei bianchi protestanti» e demonizza parità, integrazione e matrimoni misti, viene proiettata sulla sua figura qualche scena del film Nascita di una nazione, di David Wark Griffith, una delle opere più importante della storia del cinema mondiale per aver introdotto e diffuso le regole del montaggio analitico con i suoi raccordi sull’asse, sullo sguardo, sugli oggetti e sui movimenti creando quello che poi è diventato un vero e proprio linguaggio tecnico. Il caso, o più probabilmente, un’assurda macchinazione alle spalle del regista, ha voluto che proprio quando le scene si facevano più dense sul piano tecnico-formale, la trama – si tratta, infatti, del primo film narrativo della storia – deviasse verso un risvolto nichilista, sottolineato dal primo montaggio alternato in parallelo, ponendo i membri incappucciati del KKK nella parte dei cavalieri salvatori della patria in contrapposizione ai neri visti come delle bestie senza regole e senza cultura. Sin dalle prime proiezioni il film ispirò proteste, disordini, persino omicidi. Si dice addirittura che da allora il KKK sia rinato a nuova vita. Profondamente turbato Griffith girerà subito Intolerance che condannava ogni forma di violenza e intolleranza, ma ormai il potere del medium di massa aveva avuto i suoi effetti devastanti.  In BlacKkKlansman, Spike Lee prende coraggiosamente posizione nei confronti di chi continua a strumentalizzare i media e diffonde un nuovo messaggio In questo senso potrebbe essere considerato il capolavoro assoluto del regista, il film della maturità acquisita, come avremo modo di analizzare tra poco. Tornando agli inserti, quello finale, invece, è un vero e proprio schiaffo che risveglia le coscienze: un montaggio giustapposto di immagini di repertorio in cui si documentano gli scontri di Charlottesville che hanno portato alla morte di Heather Heyes e i commenti imbarazzanti e fuoriluogo di Donald Trump e David Duke, quelli reali, ed è davvero il caso di aggiungere un “purtroppo”.

«Mi serve il fascicolo di un “ROSPO».

A parte il cameo del regista, l’ambientazione a Brooklyn e gli end credits evocatici, che stavolta si sarebbero rivelati fuoriposto, tutta la poetica, lo stile e le ossessioni di Spike Lee tornano in questo memorabile BlacKKKlansman. E la maturità sta nel fatto che ogni cifra stilistica o elemento poetico è funzionale alla trama o all’intreccio.

Per quanto riguarda la POETICA:

  • tematiche sociali, in questo caso alleggerite dai temi del doppio, dello scambio di identità e della loro negazione, il mimetismo (da attribuire forse più ai coproduttori Jordan Peele (regista di Scappa – Get out) e Jason Blum della Blumhouse Production (La notte del giudizio – Election year, The visit);
  • lotta al razzismo;
  • personaggi femminili forti;
  • attenzione ai dialoghi, mai banali, ma casomai referenziali o autoreferenziali;
  • attenzione nella scelta della musica, sempre ricercata e significativa (Too late to turn back now, per fare un esempio su tutti)
  • citazioni culturali, cinematografiche, metacinematografiche e riguardanti l’attualità.

Le SCELTE STILISTICHE prevedono:

  • fotografia caratterizzata da colori saturi, senza eccedere stavolta;
  • contrasti marcati, stavolta meno “rumorosi” rispetto al solito.

Fino ad arrivare alle cosiddette “CIFRE STILISTICHE” che diventano delle firme personali dell’autore:

  • attori che parlano verso la mdp e relativo sfondamento della parete “proibita”;
  • la famosa “wake-up-call”, la telefonata che sveglia, immancabile;
  • il “double-dolly-shot”, anch’essa immancabile: si tratta di una sequenza in cui il personaggio è inquadrato con un piano ravvicinato, mentre è immobile sul carrello in movimento. Il risultato è uno straniamento dello spettatore che percepisce l’immobilità del soggetto rispetto al cambiamento dello sfondo intorno.

John David Washington [The Old Man & the Gun, Love Beats Rhymes, Malcolm X], ex giocatore di football americano ma, soprattutto, figlio di quel Denzel Washington [Barriere, The equalizer, I magnifici 7] che è stato protagonista di parecchi Spike Lee’s Joint [Malcolm X, Inside man, He got game], ha conquistato pubblico e critica, donando al suo personaggio la spavalderia tipica della sua gente e il posato raziocinio dell’eroe senza macchia e senza paura che occorreva per rendere più evidente il contrasto tra tematica e messa in scena e tra i toni della commedia e la realtà drammatica dei fatti.

«Improvvisa! Come nel jazz!».

Oltre ai già nominati Adam Driver [L’uomo che uccise Don Chisciotte, Star Wars: Il risveglio della forza, Star Wars: Gli ultimi jedi], Topher Grace [Interstellar, Truth – Il prezzo della verità, Spider-Man 3], Laura Harrier [Spider-Man: Homecoming, Fahrenheit 451 serie tv], Corey Hawkins [Straight outta Compton, Iron Man 3, Kong: Skull Island], del cast, fra new entry e vecchi amici, fanno parte anche Ryan Eggold [La scomparsa di Eleanor Rigby, Padri e figlie, 90210 serie tv], Jasper Pääkkönen [Vikings serie tv], Robert John Burke [Miracolo a Sant’Anna, Person of interest serie tv], Ken Garito [S.O.S. – Summer of Sam], Paul Walter Hauser [Tonya], Ashlie Atkinson [The wolf of Wall Street, Inside man].

A completare il cast due fratelli d’arte. Uno è Michael Buscemi [Animal factory, Insieme per forza] il fratello del più famoso Steve Buscemi. L’altro è una vecchia conoscenza del regista e presente in Fa’ la cosa giusta, Mo’ better blues, Jungle fever e Malcolm X. Si tratta di Nicholas Turturro, fratello di John Turturro, che ha quel ruolo che sin dalla tragedia greca viene definito deus ex machina, ovvero un personaggio, il più delle volte una divinità, che compare improvvisamente sulla scena per dare una risoluzione ad una trama ormai irrisolvibile secondo i classici principi di causa ed effetto; tale espressione è ora, di fatto, assunta per indicare un evento o un personaggio che risolve inaspettatamente la trama di una narrazione, al punto di apparire altamente improbabile o come il risultato di un evento fortuito.

Cameo fondamentale inoltre quello affidato ad Harry Belafonte su un montaggio alternato che crea un parallelo tra il suo intervento all’incontro con gli studenti afroamericani ed il “battesimo” dei nuovi adepti suprematisti del KKK. Un montaggio alternato che può scolpirsi nella memoria come quello de Il padrino, sempre con un battesimo di mezzo, stavolta il rito cristiano è per un neonato, abbinato all’ascesa al potere del nuovo boss.

Dopo la standing ovation di sei minuti, e il premio ovviamente, a Cannes 2018, BlacKkKlansman ha ricevuto un’ottima accoglienza anche negli Stati Uniti, complice anche la scelta di farlo uscire il 10 agosto, anniversario di Charlottesville.

«– Test della verità? Colpi di pistola? Volete coglionarmi? è un dannatissimo bordello! Aaah… teste di cazzo! Mi prendete per il culo? Tu mi stai intortando, tu mi stai intortando, il capo me lo sta mettendo in quel posto: è una grande inculata collettiva! Vi fa ridere? perché se Bridges lo viene a sapere, tutta questa cazzo di operazione verrà chiusa. Sì, fa ridere… E io verrò mandato davanti a una scuola del cazzo nel fottuto ghetto di Five points!
– Ma lo verrà a sapere, Sergente?
– Verrà a sapere che cosa? (buttando il fascicolo in un cassetto)».

BlacKkKlansman è una black comedy dove il riso diventa amarissimo con lo schiaffo della realtà dei fatti di Charlottesville. Per l’intero film si può ridere con le lacrime agli occhi ma sui titoli di testa, viceversa, non ci è permesso piangere con il sorriso: è un pianto di rabbia.

«Non volevo certo che la gente uscisse dal cinema ridendo».

Quello che per altri film di genere costituirebbe l’obiettivo finale, in BlacKkKlansman si trasforma in pochi secondi nel setting di un’altra storia ben più profonda (il riferimento è all’accettazione senza precedenti di un afroamericano nella polizia di Colorado Springs). Il tema del razzismo, tanto caro a Lee, si unisce a quello dell’emancipazione, creando una fitta rete di rimandi. Così il discorso non si limita all’accettazione di un nero nella polizia, ma diventa lotta contro quell’impero invisibile che, celato dietro una maschera da rispettabili membri di una società in giacca e cravatta che non ammette intrusioni esterne, estranee – nemiche, ostili come si tramanda nel termine latino hostes – al loro circolo chiuso, che reputano virtuoso così com’è. Nemmeno le donne vi sono ammesse. Le loro donne. La critica di Spike Lee alla società attuale passa attraverso quest’ambientazione anni ’70, prende come pretesto la storia di Ron Stallworth e poi la trascende, spingendosi a sovrapporre parallelismi forti: l’ebreo non praticante che si trova a dover difendere le proprie origini in un ambiente ostile; l’afroamericano che viene emarginato dai suoi stessi fratelli in quanto poliziotto; il poliziotto nero che deve sentirsi bullizzato nel suo ambiente di lavoro dai suoi stessi colleghi; la donna che non risulta mai abbastanza credibile come sesso forte o che non avere pari opportunità reali sulla scena politica – o terroristica, per giunta! – se non in ruoli secondari, da gregario.

«Sono abbastanza rispettoso per te, agente “ROSPO”?».

BlacKkKlansman è una black comedy dove l’aggettivo non indica il colore della pelle: dietro la farsa, dietro le risate, seppur spesso amare, si fa largo una riflessione profonda sul senso di appartenenza ad una comunità e ad una nazione che finalmente siano unite ed emancipate da ogni forma di intolleranza, sul confine che deve esistere tra rivendicazione dei diritti e terrorismo e su tanti elementi che sembrano insignificanti se non si guarda il quadro generale: la blaxploitation operata dal cinema negli anni ‘70/’80 [si citano Cleopatra Jones, Coffy, Superfly e Shaft, complici, come Tarzan e Via col vento, nella diffusione di dinamiche sociali sbagliate o distorte] o i luoghi comuni che stentano a scomparire sono additati da Lee alla stessa stregua dei discorsi assurdi dei suprematisti bianchi, perché contribuiscono a diffondere immagini che danneggiano il popolo afroamericano. La critica non si limita, quindi, a demonizzare il succitato Nascita di una nazione di Griffith, ma si allarga a puntare il dito sul potere che i media esercitano sulla massa, sulla politica, che è troppo spesso un ulteriore modo di vendere odio, sull’irrazionalità che c’è dietro certi discorsi, certe spiegazioni, sulla giustizia che non esiste senza la verità e su una verità soggettiva che non può generare una giustizia violenta e sommaria. Mai.

Curioso che Adam Driver sia contemporaneamente nelle sale cinematografiche italiane con L’uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam, che tocca alcune tematiche simili: la ricerca di una reale verità e il forte condizionamento – un rumore, un disturbo sarebbe meglio dire – dei mass media sull’opinione del pubblico e sui suoi desideri di felicità.

Alien: Covenant, di Ridley Scott

Ambientato 10 anni dopo gli eventi di Prometheus, Alien: Covenant è il sesto capitolo del successo interplanetario ideato da Ridley Scott. Sei film, senza ovviamente contare i crossover con il franchise di Predator, con almeno un altro in lavorazione. Per capire come mai sia giusto scrivere “almeno” l’invito è di arrivare in fondo all’articolo, quando sarà giunto il tempo delle news!
Questo secondo film della nuova trilogia chiude vecchi percorsi narrativi, senza esaurirli del tutto, in realtà, e apre la strada a nuovi scenari, lasciando tutti sulla poltrona con il cuore in gola per la paura e il fiato sospeso per l’immancabile cliffhanger, magari non proprio impensabile, ma che permette di compiere ogni sorta di congettura su come si collegheranno le due trilogie, se avranno un legame le figure femminili che anticipano la venuta di Ripley. E non è forse questo il compito di un’opera d’arte: portare la mente dello spettatore a creare ulteriori prospettive sfruttando la propria immaginazione?

Attraverso una ben ponderata miscellanea di corsi e ricorsi storici conditi da interessanti sorprese narrative, la trama di Alien: Covenant si dipana tra illusioni, inganni e una netta contrapposizione fra istinti di conservazione della specie. Umani, xenomorfi, “Ingegneri” e intelligenze artificiali si contenderanno il predominio sulle altre specie ma prima dovranno lottare contro chi vuole solo un posto al vertice della catena alimentare.

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L’astronave Covenant è in viaggio verso Origae-6. Ibernate al suo interno, 2000 persone sono incaricate di colonizzare il nuovo pianeta e renderlo il nuovo avamposto dell’umanità. Ma la tranquillità del loro sonno indotto è spezzato da un’esplosione stellare che distrugge le vele di navigazione e miete vittime, anche illustri. Il comandante Oram, religioso fin nell’etimologia latina del nome, prende una decisione che innesca una serie di eventi. É così che inizia l’evoluzione di quella creatura che suscita paura, mista a fascino, e che, da quel 1979, infesta le sale cinematografiche mondiali a buona ragione.

Con l’intento di spaventare utilizzando una sceneggiatura intelligente e sofisticata, Ridley Scott ripropone lo xenomorfo gigeriano con tutte le sue irrinunciabili fasi biologiche: attesa dell’ospite, infezione dell’ospite, gestazione-lampo, nascita dell’ibrido e atroce morte dell’ospite. L’uomo, come al solito, può ottenere indistintamente i ruoli di cibo o di incubatrice, ma sarà sempre e comunque preda ma, come in ogni film, la produzione gioca sulle variazioni del tema, talora tradendo talora assecondando le aspettative del pubblico. Lo spettatore-fan, infatti, conosce perfettamente la creatura inventata da Scott e le propensioni dell’una e le abitudini registiche dell’altro. Proprio per questo si è reso necessario curare l’interpretazione autoriale affidandola a chi sa fornire una vasta gamma di colori sentimentali. Privilegiando, ovviamente, il colore del sangue: «Se non ricordo male  – racconta uno dei produttori, Mark Huffam [Prometheus, Sopravvissuto – The Martian] – la prima frase di Ridley è stata: ‘Faremo un film tosto vietato ai minori, e ci servirà un sacco di rosso’, che è il nostro modo di dire sangue».

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Anche il resto del cast è stato scelto in modo da contribuire alla realizzazione di un crescendo di tensione in grado di sostenere il confronto con il capostipite del 1979. I risultati sono davvero notevoli! «Non puoi continuare a fare inseguire gente da un mostro in un corridoio, è noioso. – dichiara Scott – Mi è venuto in mente che nessuno si era posto la domanda: chi ha fatto questo e perché. Potresti dire che sono mostri dello spazio, o divinità spaziali o ancora degli “Ingegneri” dello spazio esterno che li hanno inventati.. non è così. ALIEN: COVENANT stravolgerà tutto».

La trilogia-prequel continua a dar spessore alla trama, a costruire una cosmogonia mostruosa, a popolare con nuove forme di ibridi una mitologia già densamente “nutrita”. L’Alien originale resta uno degli horror più memorabili, un film molto curato dal punto di vista psicologico e a dir poco claustrofobico, una sceneggiatura asciutta ed efficace. «E’ divertente, perché in un certo senso, ho sempre pensato ad Alien come a un B movie davvero ben riuscito. – dice Scott – Il plot era piuttosto semplice: sette persone chiuse in una vecchia casa oscura e si trattava di chi morisse prima e di chi sarebbe sopravvissuto». Per quanto riguarda, invece, Alien: Covenant si può subito notare come anche il sottotesto sia diventato sofisticato con un’esplosione di tematiche trasversali che trascendono il film stesso:

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    • sull’astronave Covenant l’equipaggio è composto da coppie già formate, come un’arca biblica, per favorire una rapida colonizzazione del nuovo pianeta, senza però escludere dal discorso l’omosessualità (Hallett e Lope), un chiaro messaggio di speranza per un futuro migliore in cui non si etichettano le persone in base a criteri arbitrari per il solo gusto di discriminarle ed emarginarle;
    • la figura femminile rimane, come sempre, il vero protagonista del film e rappresentata in modo onesto e credibile con un’evoluzione del personaggio che porta, in questo specifico caso, Daniels [Katherine Waterston; Vizio di formaSteve Jobs], la responsabile delle operazioni di terraformazione, dapprima a chiudersi come in un bozzolo nei panni del partner quasi a volersi far proteggere da quei vestiti più grandi di lei, come a voler tradire un’inadeguatezza insormontabile, per poi reagire alla crisi tirando fuori un carattere coriaceo e deciso che ricorda molto da vicino la migliore Ripley, una metamorfosi che fa da contraltare a quella della famelica creatura;

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      • la prevaricazione di una specie sulle altre senza rispettare gli equilibri naturali: lo xenomorfo, come l’uomo sulla Terra, non si cura del suo impatto ambientale e divora inesorabilmente senza pensare alla conseguente scarsità di risorse;
      • la delinazione della riflessione sulla xenofobia, intesa come paura dello straniero o di un corpo estraneo, di un invasore, l’uomo colonizzatore di pianeti che si ritrova a dover temere una controinvasione che lo attacca sottopelle oltre che esternamente;
      • il sacrificio degli agnelli per permettere ad un solo predatore di nascere e dominare sconsideratamente su tutto;

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    • il rapporto conflittuale che intercorre fra Daniels e Oram esprime una lotta tra l’innato istinto di conservazione mischiato al desiderio di portare a termine la missione scientifico-militare da una parte e la fredda e cieca fede nelle coincidenze come espressione del trascendente dall’altra;
    • l’annosa riflessione sull’intelligenza artificiale e la sua fedeltà servile all’uomo-creatore è ben rappresentata dalla contrapposizione Walter vs David, entrambi interpretati da Michael Fassbender [Assassin’s creed, MacBeth]: Walter è l’evoluzione di David 8, l’organismo sintetico già presente in Prometheus;
    • la dicotomia delle A.I. introduce ad un ultimo tema, il più diffuso in Alien: Covenant, il tema del doppio. Molti degli elementi significativi del film sono raddoppiati: non solo David e Walter, ma anche i Neomorfi sono due; il pianeta su cui la Covenant atterra è simile a quello verso il quale stavano viaggiando; l’equipaggio, com’è noto, è diviso in coppie; il rapporto privilegiato fra Daniels e Walter ricorda quello tra Shaw e David in Prometheus…

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Dal confronto di Walter con David emergono anche dei riferimenti di alta cultura come le citazioni del Paradiso perduto [il titolo provvisorio di Alien: Covenant è stato proprio questo], il poema di John Milton, riguardanti il dilemma di Lucifero che si domanda se sia «meglio regnare all’Inferno che servire in Paradiso». Oltre alle citazioni letterarie non mancano quelle cinematografiche (il personaggio di Tenneessee liberamente ispirato al maggiore TJ “King” Kong de Il Dottor Stranamore ovvero come ho imparato a non preoccuparmi ed amare la bomba di Stanley Kubrick) e delle opere liriche di Richard Wagner con L’olandese volante e soprattutto L’oro del Reno, il prologo de L’anello dei Nibelunghi, nonché la citazione di un celebre dipinto di Füssli con il Neomorfo al posto dell’incubo e David a sostituire la spettrale giumenta che si muove e osserva dietro le quinte.

Il fotogramma cita il celebre dipinto Incubo, di Johann Heinrich Füssli
Il fotogramma cita il celebre dipinto Incubo, di Johann Heinrich Füssli

Sul piano visivo si fanno notare, inoltre, nel mezzo della scenografia nel laboratorio approntato da David sul pianeta di approdo, anche i bellissimi disegni dello stesso Ridley Scott che, da perfezionista qual è, ama realizzare da sé gli storyboard per la preparazione delle riprese, «fantastici, incredibilmente precisi – spiega Charley Henley, VFX Supervisor – praticamente è come se guardassi attraverso l’obiettivo».

Regia classica con una sceneggiatura stratificata e moderna. Eccellente fotografia di Dariusz Wolski [The Walk, Sopravvissuto – The Martian] che trasforma ogni fotogramma in un capolavoro assoluto sfruttando nel migliore dei modi lo standard tecnico di alto livello raggiunto dalle riprese con la ARRI Alexa.

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A completare il settore squisitamente tecnico un audio avvolgente che contribuisce a mantenere vivo il terrore anche nei momenti di presunta quiete filmica.
Anche il silenzio gioca un ruolo fondamentale nell’economia emotiva del film e saperlo rendere filmicamente non è impresa da poco. Alla celebre tagline «Nello spazio nessuno può sentirti urlare», infatti, si aggiungono tutta una serie di linee di dialogo che rimangono scolpite nella memoria fin dal trailer, tra cui «Senti? Il niente: niente uccelli, nessun animale… Niente!». Non impeccabile il montaggio [peraltro del Premio Oscar® Pietro Scalia; Black Hawk Down, JFK] che si lascia sfuggire un errore abbastanza grossolano, un’inversione di tagli che non inficia un lavoro d’equipe colossale in cui ogni settore si è messo in gara per ottenere il massimo.

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costumi di Janty Yates [Prometheus, Sopravvissuto – The Martian, Il gladiatore] possono essere fieri del loro contributo al valore artistico del film con la loro tuta spaziale gialla, veramente bellissima, e con la scelta di non vestire tutto l’equipaggio con una stessa divisa ma di fornire loro un abbigliamento che fosse funzionale al loro ruolo nell’astronave o nell’esplorazione del pianeta.
La scenografia, ideata dal production designer Chris Seagers [Deepwater: Inferno sull’oceano, X-Men – L’inizio] e messa in atto da Victor J. Zolfo [Premio Oscar per Il curioso caso di Benjamin Button], come sempre curatissima nel dettaglio, ha la doppia funzione di dare concretezza alla realtà filmica per lo spettatore e di fornire all’attore una base realmente fisica in contrasto con gli standard attuali che prevedono un larghissimo uso di green screen che non facilitano di certo una recitazione sentita e verosimile.
Il commento musicale di Jed Kurzel [Babadook, Assassin’s creed, MacBeth] sottolinea la tensione e l’incalzante crescendo di terrore con una colonna sonora che prevede campane distorte, flauti dal suono artigianale, accompagnati dalle note del già citato Wagner e, non da ultimo, l’evergreen country di John Denver Take Me Home, Country Roads, che sarà la prima fondamentale svolta narrativa.

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Per la campagna promozionale del film sono stati realizzati due cortometraggi, diretti da Ridley Scott, che fungono da prologo al film: in Last Supper [L’ultima cena] viene introdotto l’equipaggio della Covenant tra cui appare ancora James Franco nei panni di Jacob Branson, il capitano originale della Covenant; The Crossing, un prologo interpretato da Michael Fassbender e Noomi Rapace, nei rispettivi ruoli dell’androide David 8 e della Dr. Elizabeth Shaw, che funge da ponte tra Prometheus e Alien: Covenant. Entrambi i corti sono disponibili sul canale YouTube ufficiale della 20th Century Fox.

Questo è tutto, per ora! Non è al momento conosciuta la data d’inizio riprese del prossimo capitolo della saga, ma in un’intervista al The Sydney Morning Herald, rilasciata il 3 marzo 2017, il regista Ridley Scott dichiara qualcosa che va ben oltre il seguito di Alien: Covenant:

«Fino a un certo punto, devi quasi dare per scontato il successo del film e, proprio per questo, devi essere pronto. Non vuoi una pausa di due anni. Per cui sono pronto a cominciare le riprese il prossimo anno. Se volete davvero un franchise posso mandare avanti l’ingranaggio per sei film. Non ho intenzione di fermarlo di nuovo, nel modo più assoluto».

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The green inferno, di Eli Roth in DVD

Il regista di Cabin fever e Hostel, sei anni dopo aver girato Hostel: Part II, lascia momentaneamente da parte gli ambiziosi progetti dell’amico Quentin Tarantino per tornare dietro la macchina da presa. Come farà successivamente con Knock Knock, Eli Roth, in The green inferno, sceglie di omaggiare i suoi modelli di riferimento, per poi distaccarsene, sviluppando un film particolarmente originale, attinente alla sua ironica filosofia di vita e alla riflessione ricorrente sull’isolamento e sull’incomunicabilità, senza, ovviamente, tralasciare l’efferatezza delle uccisioni, la suspense del survival movie, il cinismo delle torture e il sangue leitmotiv stavolta più che mai, dato che è indossato come un normale vestito da tutti i giorni.

«Avete mai sognato di proteggere una tribù in via d’estinzione? Di proteggerla dall’arrivo della civilizzazione? Beh, si presenta l’occasione di trasformare questa fantasia in realtà».

L’incipit del film è emblematico del “niente è come sembra”: due inespressivi indigeni tinti di rosso, presumibilmente nonno e nipote, a piedi nudi, silenziosi e misurati nei gesti, camminano per la foresta nel profondo rispetto per la natura circostante, fino all’irrompere prepotente dei bulldozer nell’inquadratura.

Cosa è giusto fare se la presunta civiltà contemporanea minaccia di calpestarne una antichissima, deturpando un territorio incontaminato – non è il caso di usare il termine “vergine”, in questo caso troppo coerente – per arricchire le solite multinazionali? Combattere il sistema al fianco di attivisti con proteste come lo sciopero della fame, può sembrare una buona idea, ma…

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Lorenza Izzo [Knock Knock, Aftershock], ora moglie del regista, interpreta Justine, studentessa alla Columbia University e figlia di un avvocato delle Nazioni Unite, si unisce ad un gruppo di studenti ambientalisti per raggiungere l’Amazzonia peruviana. Le loro ridicole paure da newyorkesi figli di papà, dovranno presto fare i conti con la durissima realtà, farcita di menzogne, di non-detti e sotterfugi.

La compagna di stanza di Justine, KC, interpretata dalla cantante-attrice Sky Ferreira [The trust, Elvis & Nixon], si fa portavoce degli inevitabili pensieri di “simpatia” che lo spettatore gradualmente nutre nei confronti del gruppo di future vittime sacrificali: «Meriterebbero i lacrimogeni per averci svegliato così presto di domenica», «Spero che muoiano di fame». Non mancano, poi, battute a sfondo politico, che rivelano un sottotesto da non sottovalutare per i parallelismi con l’attualità, giocati sui forti contrasti vittime-carnefici e bugie-verità e sul meccanismo ignoranza-disinformazione-controllo: «Fosse così semplice! Ci sono delle procedure. Non possiamo andare and invadere un Paese perché fa qualcosa che pensiamo sia illegale o immorale. Non più…».

Scritto, prodotto e diretto da Eli Roth, The green inferno, ha lo stesso titolo del sequel di Cannibal Holocaust, il cannibal movie più conosciuto. Per questo suo omaggio a Ruggero Deodato, a cui è dedicato il film, e al filone cannibal, che ha goduto del suo massimo successo tra il 1972, anno de Il paese del sesso selvaggio, e il 1985, come gli end credits di The green inferno ricordano, Eli Roth ha voluto nel cast attori fidati come Aaron Burns [Knock Knock, Aftershock], al quale è riservata la prima e più sanguinaria delle uccisioni, “tagliata” nella versione censurata. Gli altri interpreti, tutti ben calati nella parte, sono, poi, ben consapevoli di quello a cui vanno incontro, a giudicare dalla loro filmografia: Ariel Levy [Aftershock, Promedio rojo], Kirby Bliss Blanton [Project X, Suicide note], Daryl Sabara [Spy Kids saga, Il miglior padre del mondo], Magda Apanowicz [Slither, The butterfly effect], Ignacia Allamand [Knock Knock, Aftershock], Richard Burgi [Hostel: Part II, No letting go], Nicolás Martínez [Aftershock].

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L’epilogo, ironico e non scontato, e preannuncia un seguito, Beyond the Green Inferno, programmato per il 2018. Inutile dire che il regista è già al lavoro per nuovi truculenti banchetti, preparati da espertissime anziane che canticchiano allegramente mentre insegnano alle nuove generazioni i “1001 modi per cucinare gli invasori”! Proprio una popolazione “indifesa” e “in via d’estinzione”. Se non è ironia questa!

Non mancano nemmeno le citazioni cinematografiche, vere chicche per cinefili competenti, come quella che fa riferimento a The Mission, di Roland Joffé, o la criptica presenza nella camera di Justine del poster del film Betty Blue, che ha il duplice scopo di caratterizzare meglio il personaggio, tramite il parallelismo tra le protagoniste, entrambe idealiste e sognatrici fino alla fine, e di ammiccare ai fan che ricordano che la Betty in questione, Béatrice Dalle, è stata l’antropofaga di Cannibal love – Mangiata viva. Stratificare le informazioni nel film è un’arte che in pochi sanno fare così bene.

In Italia è stato vietato ai minori di 18 anni per l’eccessiva crudeltà di alcune immagini e presenza di contenuti esplicitamente violenti. Per questo motivo Koch Media propone anche le edizioni DVD e BluRay censurate di ben 7 minuti, senza smembramenti e macabri banchetti a base di frattaglie umane. La domanda è: riuscirete a fare a meno dell’orrendo spettacolo per cui avete pagato? Se siete davvero un fan degli horror, la domanda è chiaramente retorica!

IL DVD

 

REGIA: Eli Roth INTERPRETI: Lorenza Izzo, Ignacia Allamand, Daryl Sabara, Ariel Levy, Sky Ferreira, Aaron Burns, Kirby Bliss Blanton, Magda Apanowicz, Nicolás Martínez TITOLO ORIGINALE: The green inferno GENERE: horror DURATA: 93’ (rated) e 101’ (uncut)  ORIGINE: USA, 2014 LINGUE: Italiano 5.1 DTS, Italiano 5.1 Dolby Digital, Inglese 5.1 Dolby Digital SOTTOTITOLI: Italiano EXTRA: Eli Roth & DJ Ashba presentano: “Escape from The Green Inferno” [videoclip] – Speciali: Location – Gli abitanti del villaggio – Justine – Amazzonia – Trailer – Credits DISTRIBUZIONE: Koch Media COLLANA: Midnight Factory

“Midnight Factory è una nuova collana di classici contemporanei di cinema horror, thriller e fantasy mondiale. La serie si propone di portare in Italia il meglio della produzione internazionale del genere: film inediti, indipendenti, dei grandi maestri, delle giovani promesse, classici del passato, pellicole bizzarre ed estreme, piccole chicche e sequel di successi conclamati che si mescoleranno insieme secondo il comune denominatore della qualità” [cfr. booklet interno].

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Nel caso di The green inferno, il film è stato selezionato da Midnight Factory, in quanto opera di un maestro di nuova generazione, per avere un’edizione UNCUT limitata di prestigio con packaging versione slip case, ovvero una classica custodia amaray all’interno di un involucro di cartone con apertura laterale. Disco unico, audio multicanale, sia in DTS sia in Dolby Digital, in italiano e inglese, mentre il formato video è uno spettacolare anamorphic widescreen (2.35:1). DJ Ashba, come si evince esplorando gli extra , compone per l’occasione una musica coinvolgente che mescola chitarra elettrica, ritmi tribali ed elettronica. Tra gli extra si dimostrano, inoltre, particolarmente interessanti, seppur fugaci nella loro breve durata, gli speciali che approfondiscono le riprese: Eli Roth realizza il suo reboot del filone cannibal in un vero villaggio dell’Amazzonia con autentici nativi che si sono dimostrati particolarmente collaborativi e solidali, nonché calati nei personaggi, ironico o inquietante? Come insegna il film, fare una scelta sbagliata potrebbe esservi fatale!