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Valerian e la città dei mille pianeti, di Luc Besson

Sono stati necessari più di dieci anni di lavorazione per realizzarlo, ma Valerian e la città dei mille pianeti, non tradisce le aspettative, neanche quelle del suo fan più esigente: il regista stesso. Sì, perché il nuovo film di Luc Besson, adattamento cinematografico della serie sci-fi a fumetti Valérian et Laureline, ideata dallo scrittore Pierre Christin e illustrata dal disegnatore Jean-Claude Mézières, è stato progettato per far conoscere al grande pubblico un’opera in 22 volumi che dal 1967 al 2010 ha ispirato e continua a influenzare la narrativa di fantascienza di ogni settore.

«Siediti, rilassati e goditi lo spettacolo»

2174. il maggiore Valerian ed il sergente Laureline sono due agenti speciali incaricati di mantenere l’ordine nell’universo. I migliori. L’uno [Dane DeHaan; Chronicle, La cura del benessere] è un soldato valoroso, anche se un po’ approssimativo e svogliato quando si tratta di procedure e regole d’ingaggio, libertino in amore, ha paura solo d’impegnarsi sentimentalmente, cosa che, ovviamente, non è gradita alla sua partner, con la quale ha in piedi una relazione. L’altra [Cara Delevingne; Suicide Squad, Città di carta] è una stratega eccezionale dal temperamento burrascoso, ligia al dovere e ben ferma nelle proprie convinzioni. Il loro rapporto non è, però, la trama principale del film. La loro missione è recuperare un oggetto preziosissimo, l’ultimo trasmutatore esistente, e consegnarlo al comandante Arün Filitt [Clive Owen, Inside man, I figli degli uomini] sulla stazione orbitante Alpha. Scesi dall’Intruder, la loro astronave-factotum, s’imbattono, però, in un difficile intrigo che ha a che fare con una minacciosa Red Zone che, dal nucleo di Alpha, si allarga come un tumore destinato a distruggere la stazione stessa e tutto ciò che essa rappresenti per l’intero universo.

«Chi sapeva è stato ucciso».

Conosciuta come “la città dei mille pianeti”, Alpha è una megalopoli in continua espansione, in cui vivono migliaia di specie provenienti da galassie diverse, anche distrutte dal tempo o dalle guerre. È un vero e proprio cluster intergalattico la cui silente storia è tracciata durante i titoli di testa, accompagnati “soltanto” dal brano Space oddity di David Bowie, che rappresenta non solo un sentito omaggio al camaleontico cantautore britannico e ai suoi futuristici alter ego, ma anche un forte intento di caratterizzazione della stazione orbitante come punto di riferimento privilegiato per ogni pioniere dello spazio e come simbolo supremo di condivisione, unità, fratellanza e pace tra popoli. Questo incipit, molto curato sotto ogni punto di vista, ha la particolarità tecnica di abbinare le immagini del passato con l’aspect ratio tipica dell’epoca (immagini di repertorio in 4:3 per la storica sequenza dell’incontro fra la navicella americana Apollo e la sovietica Soyuz nel 1975; formato 16:9 per la sequenza a episodi che parte dal 2020; fullscreen quando si arriva al 2150).


Il messaggio stesso che è alla base di Valerian e la città dei mille pianeti è veicolato da Alpha che «raccoglie tutta la conoscenza dell’universo – spiega Besson – c’è Wall Street, la Città della Scienza, le Nazioni Unite, Broadway. C’è tutto. E questo la rende il luogo più importante dell’intero universo, dove tutte le razze s’incontrano, portano conoscenza e condividono culture da ogni parte, ma soprattutto hanno imparato a convivere. Se alcuni credono che sia complicato vivere accanto a cinesi o afroamericani, che ne penseranno dei miei alieni? Un proverbio che amo dice “puoi scuotere un albero quanto vuoi, se il frutto non è maturo non cadrà”. Quello che possiamo fare noi artisti è inserire idee qua e là, sta poi al pubblico coglierle. Con i miei cinque figli mi comporto nello stesso modo, cerco di stimolare la loro ricettività».

Insomma, per Besson vale lo stesso concetto che muove i personaggi di Inception di Christopher Nolan: piantare semi di idee nel subconscio dello spettatore stimolando la sua ricettività in maniera implicita. E questa non è l’unica analogia possibile tra i due autori. Entrambi, infatti, lavorano meticolosamente ad un film anche per moltissimo tempo, soprattutto in fase di preproduzione e amano circondarsi di una crew ampiamente collaudata e affiatata, “famigliare” se consideriamo che per loro le figure di moglie e produttrice coincidono perfettamente. Oltre a lei, Virginie Besson-Silla [Lucy, Revolver], Besson si è avvalso di un team di collaboratori storici come il direttore della fotografia Thierry Arbogast [Lucy, Il quinto elemento], il compositore premio Oscar® Alexandre Desplat [Grand Budapest Hotel, The imitation game], lo scenografo Hugues Tissandier [Lucy, Taken], il montatore Julien Rey [Lucy, Cose nostre – Malavita], il costumista Olivier Bériot [Lucy, Taken] e il supervisore degli effetti speciali visivi, il premio Oscar® Scott Stokdyk [gli Spider-man di Sam Raimi, Il grande e potente Oz, La quinta onda].

«Visivamente è un film mozzafiato – ha dichiarato Cara Delevingne – il pubblico sarà travolto da tutti i personaggi che vede. La quantità di sforzi che sono stati compiuti in ogni singolo aspetto – i costumi, il design, l’arte – hanno dato vita a un film incredibile».

Rispetto ai film precedenti Valerian e la città dei mille pianeti è un progetto molto più personale per Luc Besson, tanto da volerlo dedicare al padre, venuto a mancare durante il periodo di lavorazione: «perché è lui che mi ha dato il fumetto a dieci anni». L’idea di trarre un film dal fumetto Valérian et Laureline è nata fin dai tempi della collaborazione tra il regista e uno dei suoi autori, Jean-Claude Mézières, per la realizzazione del mondo visionario in cui si svolge l’azione de Il quinto elemento.

Per poter ideare le migliaia di specie aliene diverse necessarie per Valerian e la città dei mille pianeti Luc Besson ha iniziato sei anni fa a mandare mail ad artisti in giro per il mondo, senza rendere noto né il titolo del film né di cosa trattasse né, ovviamente, che fosse lui a dirigerlo. «Abbiamo chiesto di mandarci disegni di un alieno, di una nave spaziale e di un mondo. Ci sono arrivate circa seimila proposte, da queste ne abbiamo selezionate venti, sei dei quali hanno lavorato con me personalmente per sviluppare altro materiale. Gli ho dato una lista con descrizioni molto vaghe e poi ho permesso loro di creare in libertà per mesi. Hanno prodotto materiale incredibile, io alla fine ho solo dovuto scegliere i pezzi più adatti per comporre il mio puzzle. Il livello di creatività che ho ottenuto dando loro libertà, non ponendo schemi o confini, è stato semplicemente pazzesco».

Alla fine di queste libere fasi creative, è stato necessario un lento e accurato processo di finalizzazione per adattare tutto il materiale artistico in uno stile unico, quello molto ben caratterizzato e inconfondibile di Luc Besson.«Sarà il percorso più breve ma non è certo il più semplice»

Ispirandosi all’artista di videogame Yoji Shinkawa e al famosissimo disegnatore francese Mobius, l’artista concettuale Ben Mauro [Lucy, The Great Wall] ha basato le sue specie spaziali sulla fisiologia degli animali: «Una volta che hai capito come funziona la biologia, prendi queste leggi fondamentali e le trasformi in qualcosa di completamente diverso. Alcuni alieni del film sono basati su rinoceronti o elefanti. Li studi nel loro ambiente naturale e pensi a come ottenere qualcosa di strano e insolito… mantenendo quel qualcosa che li rende familiari».

In un turbinio di colori, di oggetti futuristici ed elementi disseminati ad arte per favorire il desiderio di una o più visioni successive gli artisti concettuali che hanno lavorato al film hanno creato un fantastico bestiario: dai Doghan Daguis – una rivisitazione deformata di Qui, Quo, Qua – agli organismi acquatici che sembrano disegnati dalle parole di Jules Verne; dai mastodontici bromosauri alle meduse mylea; dal criminale alieno Igon Siruss – che nella versione originale ha la voce di John Goodman [10 Cloverfield Lane, The artist, Kong: Skull Island, Argo, Boston – Caccia all’uomo] – ai freddi e spietati K-Tron.

Le inquadrature sono spesso affollate di creature che si vedono anche solo per un attimo: il Grande Mercato sul pianeta Kirian, che ricorda moltissimo il pianeta Naboo di Star wars; le strade e le architetture della stazione Alpha che citano Blade runner e, di nuovo, Star wars ma la trilogia originaria con un inseguimento all’esterno tra corridoi angusti su navicelle ultraveloci – non vi ricorda qualcosa? Vedere per credere.
Le citazioni cinematografiche di Valerian e la città dei mille pianeti non sono finite qui, ovviamente, trattandosi di un maestro del postmodernismo: senza scendere troppo nella pedanteria da nerd o da otaku, mi limito a segnalare una sala riunioni in cui i sedili sono a forma di monoliti neri di kubrickiana memoria; il saluto che Laureline rivolge al maggiore Gibson è tratto da Plan 9 from Outer Space (del 1959, regia di Edward D. Wood Jr.), un supercult per veri appassionati; uno skyjet monoposto che ricorda la moto di Tron ma viaggia seguendo le “traiettorie” di decoupage del miglior George Lucas, di nuovo; non poteva mancare nemmeno un rimando alle fantasie di Philip K. Dick e quindi ecco gli interni in cui dominano i contrasti scenografici con ambienti naturali in luoghi artificiali come nelle trasposizioni di Total recall e gli esterni notturni pieni di insegne al neon e macchine volanti come in Blade runner.

A buona ragione Rutger Hauer, che interpretava il replicante Roy nel film del 1982, è stato coinvolto nel progetto da Luc Besson per un cameo di prestigio con tanto di monologo di fondamentale importanza per il setting del film, che non diventerà un cult come il celebre «Io ne ho viste cose che voi umani…», ma sa scaldare ad hoc il pubblico con il suo grande carisma.
Molto suggestiva e raffinatissima è poi la citazione di uno dei massimi capolavori del cinema francese degli anni ’30, L’Atalante di Jean Vigo: come Jean, il protagonista di quel classico, si tuffa nel fiume per verificare la credenza secondo cui nell’acqua si vede il volto della persona amata (e così accade grazie ad una delle prime sovraimpressioni della storia), così Laureline può “vedere” per osmosi, attraverso il fluido corporeo di una medusa mylea, dove si trova il partner disperso. Una vera chicca per cinefili!

«Voglio una spiaggia!»

Una menzione particolare, infine, va inserita per un riferimento che va ben oltre il gioco di ammiccamenti al fanatico di fantascienza. Oltre al comune desiderio di pace e tranquillità rappresentato dal sogno di una spiaggia incontaminata da parte dei protagonisti maschili, in Valerian e la città dei mille pianeti sono presenti alcune tematiche che sono già state analizzate dalla mente geniale di Terry Gilliam e rielaborate sottoforma di riflessione visionario-filosofica in The Zero Theorem. La virtualità, prima di tutto, è rappresentata in maniera differente dai due registi ma risulta simile la riflessione sul contrasto tra verità presunta e finzione latente ma, soprattutto, la funzione metacinematografica che assume nel momento in cui lo spettatore viene coinvolto in prima persona con sparatorie da gamer in soggettiva o con la stuzzicante performance di trasformismo mimetico della glampod Bubble, interpretata egregiamente da Rihanna [Battleship, Home]. Questa tentazione erotica virtuale ricorda moltissimo quella operata dalla cyberfatina Bainsley ai danni di Qohen Leth nel film di Gilliam, ma lo spettacolo della cantante, come in un Moulin rouge all’ennesima potenza, calamita l’attenzione e diventa un cult da vedere e rivedere all’infinito… e oltre!

Rihanna firma, così, di diritto il voluminoso guestbook delle protagoniste femminili di Luc Besson, pur avendo un ruolo secondario nella trama di Valerian e la città dei mille pianeti e si va ad inserire in un firmamento di stelle che il regista ha contribuito a trasformare in fenomeni del glamour: Milla Jovovic, Natalie Portman, Scarlet Johansson e, da ultima, l’astro nascente Cara Delevingne, che dalle passerelle dell’alta moda è passata con nonchalance sul grande schermo. Come la Jovovic ne Il quinto elemento, Cara ha il phisique du role per indossare un vestiario da applausi a scena aperta, dei costumi stupendamenti assurdi che ben si abbinano alla sua bellezza sofisticata.

«Hai ragione. È uno schianto!»

La popstar Rihanna non è l’unica ospite estirpata dal panorama musicale mondiale. Ad interpretare il Ministro della Difesa è stato chiamato nientepopodimenoché Herbie Hancock, una leggenda del jazz, che ha saputo dire la sua anche nel fusion, nel funk e nell’elettronica a cui va aggiunto il cantante cinese naturalizzato canadese Kris Wu, un volto conosciuto per il target adolescenziale. La partecipazione di cotante ugole famosissime potrebbe aver contribuito a ben disporre i Beatles superstiti ad accordarsi per l’utilizzo della canzone Because nel trailer ufficiale del film. Una concessione senza precedenti. «Ho scoperto in seguito che Paul McCartney è un grande fan della fantascienza, penso ci sia stato un pizzico di fortuna quindi» ha poi spiegato Besson.

Una curiosità a margine, i cammei di alcuni cineasti francesi, amici del regista, in ruoli di ufficiali dell’esercito di Alpha: sono Louis Letterier de L’incredibile Hulk, Olivier Megaton autore di Taken 2 e Benoît Jacquot di Addio, mia regina. Segno evidente di una produttiva relazione professionale senza invidie, segno di una cinematografia in salute che sa creare ogni anno prodotti di eccellente fattura.

Alla luce di tutto questo, Valerian e la città dei mille pianeti è un film meraviglioso in cui la tecnologia 3D diventa un valore aggiunto che amplifica notevolmente le emozioni. Un’indimenticabile spettacolo che sa risvegliare il bambino interiore che è dentro ognuno di noi. Un fantasmagorico caleidoscopio sognante in perfetta armonia fra avventura spaziale e fiaba ecologico-morale.

«Il tempo vola quando ci si diverte»

Festival di Roma 2014 – The Knick, di Steven Soderberg

Follia e metodo: questo gli strumenti con cui il dottor Thackery opera i suoi pazienti, scavando nei loro corpi inermi per indagare i meccanismi delicatissimi che li muovono e sperimentando tecniche inimmaginabili per il panorama scientifico dei primi anni del Novecento, in cui si opera a mani nude tastando il ritmo del cuore con le dita. La follia di Thackery sta nel rischio che corre ogni volta che sperimenta le sue trovate sul tavolo operatorio, molti pazienti muoiono sotto la sua mano, ma ogni perdita più che una sconfitta è un passo avanti nella conoscenza del corpo umano e un sacrificio che in futuro potrebbe valere migliaia di vite. Il metodo sta nella sua applicazione maniacale allo studio e alla continua ricerca e invenzione di congegni funzionali a facilitare i medici nelle operazioni, che si nutre del sonno, e lo tiene sveglio con l’aiuto di cospicue dosi di cocaina. Come un dr House ante litteram, il genio di Thackery non può fare a meno della droga, che inietta in ogni anfratto del suo corpo per trovare le energie e il coraggio per essere il direttore del reparto di chirurgia del Knick, l’ospedale più acclamato di New York, e di portare sulle spalle il peso di centinaia di vite sacrificate al dio della scienza.  Tutta la sua vita gira intorno alla droga, ne è intrisa fino al midollo, e non risparmia nessun momento della sua giornata, dalle sedute nel teatro operatorio ai torbidi amplessi consumati nel bordello locale.

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Thackery è un eroe imperfetto, un professionista illuminato che recita alla perfezione la sua parte di scienziato in pubblico, per poi crollare miseramente quando cala il sipario sullo spettacolo chirurgico. Egocentrico e interamente proiettato verso il progresso scientifico, non riesce a lasciarsi andare alle passioni, considerando i rapporti umani un intralcio al suo lavoro, e lascia ai colleghi più ingenui il compito di correre dietro alle gonne delle infermiere, mentre lui si trastulla con le fiale di cocaina e si lascia stordire dall’oppio. Ma la sua personalità predominante concede ben poco spazio di manovra agli altri personaggi, che girano tutti intorno a questa figura ambigua alla costante ricerca di un cenno di approvazione, e del privilegio di entrare nella cerchia dei chirurghi eletti a cui e concesso operare su un suo paziente. L’esperienza e la purezza della razza sono i requisiti necessari per entrare al Knick che, nonostante le costanti sperimentazioni di cui si fregia, non riesce ad elevarsi dalle impalcature di una New York ormai multirazziale, ma ancora stagnante dal punto di vista ideologico in una stratificazione sociale che impedisce ai pazienti di colore di ricevere la stessa assistenza dei bianchi, e fa rabbrividire i pazienti bianchi al solo pensiero di essere sfiorati da un medico di colore, presumibilmente meno preparato di un loro connazionale e destinato per natura a svolgere lavori manuali. Tackery e tutta la sua equipe non fanno eccezione e seguono alla lettera questa corrente di pensiero, collocandosi a pennello nel contesto storico in cui si muovono, ricostruito in ogni minimo dettaglio dalla mano esperta di Soderbergh, che fotografa quest’epoca di grandi rivoluzioni senza risparmiare i dettagli più indigesti.

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Soderberg non fa sconti, e mette il realismo dell’immagine al di sopra di tutto per entrare a fondo nella realtà cruda del Knick e di tutti i medici che hanno guadagnato terreno nel campo delle scoperte scientifiche lentamente e a un prezzo altissimo. Il tavolo operatorio è sempre al centro dell’immagine, facendo da sfondo alle patologie più disparate, curate con metodi che oggi considereremmo barbari, ma che per l’epoca erano rivoluzionari. La camera indugia sui particolari, segue il fluire del sangue e non prova disgusto, mostrando i suoi personaggi nella cruda quotidianità di un lavoro in cui lo spazio tra la vita e la morte si colloca sul filo di un bisturi. Al Knick non esistono il bene e il male assoluto e ognuno cerca di tenersi in equilibrio tra queste due forze, osando e sfidando gli dei nella speranza di rimettere in moto un cuore ormai spento. Ma fino che punto è giusto spingersi, sperimentando l’impossibile e utilizzando i pazienti come cavie, per un bene superiore? Soderbergh non esprime giudizi e lascia al buonismo dell’uomo contemporaneo il compito di rispondere, senza mai smettere di ricordargli, con il suo fascino perverso per il tavolo operatorio, che la scienza che ritiene infallibile non è altro che il frutto della mente umana e pertanto intrinsecamente votata all’errore.

Festival di Roma 2014 – Conversazione con Clive Owen su The Knick

L’attore britannico Clive Owen ha presentato al Festival Internazionale del Film di Roma la serie tv di 10 epsodi, The Knick, diretta dal premio Oscar Steven Soderbergh, che sarà trasmessa a partire dall’11 novembre su Sky Atlantic.

Dopo una lunga carriera cinematografica, come è stato il passaggio alla televisione?

Le serie tv in alcuni casi sono più interessanti dei lungometraggi, specialmente se sono dirette da ottimi registi. C’è più tempo per esplorare i personaggi, si può essere più liberi di osare, e correre rischi, perché non c’è l’obbligo di restare compressi nelle due ore di film o nei vincoli della produzione.  Di solito evito di ripetermi e non mi piace vestire lo stesso ruolo per troppo tempo, per questo non ho mai recitato in una serie, ma quando ho letto questa sceneggiatura sono rimasto molto impressionato dalla scrittura perfetta.

Il chirurgo John Thackery, protagonista assoluto di The Knick, è un personaggio arrogante e brillante allo stesso tempo, ma di sicuro non risulta immediatamente simpatico. È stata una sfida renderlo gradevole?
Di sicuro il personaggio non è simpatico, ma non è mia abitudine scegliere un ruolo in base alla simpatia del personaggio. Per prima cosa bisogna conoscerlo, studiarne la psicologia e comprendere cosa muove le sue azioni. Questo medico è un personaggio estremamente interessante e affascinante, perché è razzista, fa uso di droghe, ma allo stesso tempo non si ferma davanti a nulla ed è un genio nel suo campo, un pioniere. In ogni scena dovevo stare in equilibrio su un filo sottile, ma la sfida era proprio capire fino a che punto si poteva arrivare.

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I medical drama vedono spesso come protagonisti medici scontrosi, arroganti e tossici, ma anche geniali. Perché?

Le serie tv ambientate negli ospedali hanno successo perché qui la posta in gioco è alta, si tratta di vita o di morte. La tensione è sempre alta e lo spettatore si identifica facilmente con le situazioni trattate. Thackery è un personaggio molto ambiguo, un pioniere nel suo settore, ma anche una persona imperfetta che gestisce la pressione quotidiana a cui è sottoposto facendo uso costante di cocaina, che però al tempo era comunemente usata in medicina ed era frequente che i medici che ne facevano uso ne diventassero dipendenti. A mio parere è proprio questa ambiguità a rendere questo personaggio interessante, se fosse stato perfetto non lo sarebbe stato altrettanto.

La scena è molto curata e ed estremamente realistica, anche nei dettagli più cruenti. Questo ha facilitato l’immedesimazione nella New York dei primi del Novecento?

Soderbergh è stato incredibile nella cura dei dettagli, abbiamo lavorato ad un ritmo frenetico e la squadra di scenografi ha fatto un lavoro incredibile. I set erano realistici e ricchi. Quando si entrava in una stanza sembrava reale, c’era tutto, e se si apriva un cassetto spuntavano gli strumenti chirurgici dell’epoca. Inoltre, pur non essendoci il tempo per un’adeguata preparazione medica un team di esperti ci ha costantemente sottoposto le fotografie delle operazioni dell’epoca e i libretti. Dopotutto eravamo nella New York dei primi anni del Novecento ed era necessario essere il più possibile fedeli alla realtà per essere credibili.

Robert Rodriguez e Frank Miller presentano Sin City 3D – Una donna per cui uccidere

Dal fumetto al cinema, Sin City 3D – Una donna per cui uccidere è stato presentato in anteprima a Roma da Frank Miller, l’autore della graphic novel che ha ispirato il film, e il regista Robert Rodriguez, che hanno svelato i segreti di questo straordinario adattamento.

Quando Frank Miller ha scritto e disegnato Sin City non avrebbe mai immaginato di vedere il suo lavoro trasposto sul grande schermo, ma l’incontro con Robert Rodriguez e con la sua immaginazione visionaria ha fatto balzare i personaggi di china fuori dalle pagine della graphic novel, e gli ha conferito tridimensionalità con la tecnica del green screening. L’universo grafico di Miller ha preso vita e ha reso possibile l’inimmaginabile senza snaturare la storia e la tecnica di Miller. “Sin City è il Sin City di Miller – ha detto Rodriguez – e la mia intenzione era rimanere il più possibile fedele alla storia, perché la graphic novel ha già in sé una storia completa e profonda, e volevo che diventasse un film, non un semplice adattamento”.

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Ed è proprio la fusione tra il fumetto e il film, tra l’immagine statica e l’immagine in movimento, che hanno reso Sin City un’esperimento cinematografico unico nel suo genere. “Spesso mi chiedono perché non lavoro a Hollywood – ha ammesso Miller –  ma con Rodriguez ho capito che le mie opere potevano essere adattate per il cinema senza passare per il tritacarne di Hollywood, che rende gli adattamenti simili gli uni agli altri e li appiattisce. I film migliori sono quelli più vicini al materiale di partenza, e anche se è difficile mantenere l’integrità dell’originale, bisogna rimanete fedeli alla storia, sempre”.

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L’universo di Sin City ormai  inestricabile dall’immaginario cinematografico, al punto che  l’immagine dei personaggi sul grande schermo e la fisicità degli attori sono diventati d’ispirazione per il lavoro di Miller. “Quando ho creato il personaggio di Marv – ha dichiarato Miller – sono partito dall’immagine di un “Conan con addosso un trench”, un barbaro in un contesto metropolitano, ma oggi pensare al personaggio di Marv senza pensare a Mickey Rourke per me sarebbe impossibile”.

L’uso del 3D ha portato il disegno ad un livello superiore, scomponendo l’immagine su una serie infinita di quinte teatrali che portano in primo piano gli elementi che caratterizzano la scena, da un particolare sul corpo dei protagonisti ad uno sullo sfondo. Robert Rodriguez ha spiegato: “Il 3D aiuta tantissimo la narrazione perché l’universo di Miller è astratto, e il 3D è in grado di trasformare un puntino bianco in un fiocco di neve.  Il 3D aiuta a concentrarsi sugli elementi fondamentali della storia” e Frank Miller ha aggiunto: “La storia è tutto sia per il cinema che per la TV. Di sicuro il 3D aiuta gli occhi a focalizzare l’attenzione e a concentrarsi su ciò che serve, ma non bisogna mai dimenticare l’importanza della storia”.