Commedia

BlacKkKlansman, di Spike Lee

Vincitore del Grand Priz della Giuria a Cannes 2018, BlacKkKlansman di Spike Lee rappresenta una nuova maturazione della poetica del regista di Atlanta. Dopo le prove non certo idilliache degli ultimi anni – è sufficiente ricordare Red hook summer o Il sangue di Cristo, senza arrivare al povero remake di Old boy, mai perdonato dai veri fan del Maestro – con BlacKkKlansman, si ritorna alle tematiche sociali raccontate attraverso storie solo all’apparenza banali e ad un’estetica non più esasperata fino all’insopportabile eccesso, ma funzionale alla trama e, soprattutto, al messaggio che si vuole veicolare attraverso il film. Un messaggio che ha l’effetto di uno schiaffo ben assestato in un turbinio di risate: zittisce ogni superficiale commento populista e fa riflettere anche dopo i titoli di coda. Purché si abbia un cervello, logicamente.

La storia di un poliziotto che deve sgominare i complotti di un’organizzazione criminale è un plot come tanti, tantissimi film, forse migliaia.

Ma aggiungiamo che il poliziotto in questione sia afroamericano e che il Male da sconfiggere sia il famigerato Ku Klux Klan (KKK): ecco che il materiale che può far gola allo Spike Lee di capolavori come Fa’ la cosa giusta e Clockers inizia a prendere forma e a risvegliare quella coscienza forse sopita a causa di un’ispirazione non pervenuta.

Poniamo, poi, il caso che questo detective senta in sé una missione, frutto di un mix di inconscia ambizione e di assurda incoscienza:

Per combattere in prima linea la discriminazione razziale, Ron Stallworth [John David Washington] non è solo determinato ad essere il primo afroamericano ad entrare nel corpo di polizia di Colorado Springs. Vuole realizzare un’impresa mai neanche tentata prima di quel fatidico 1979: ottenere la possibilità di infiltrarsi tra le fila del KKK per smascherare le loro macchinazioni sotto traccia e la copertura politica di cui hanno sempre tacitamente goduto. Per uno come lui, dalla parlantina spigliata e dalla battuta pronta, basta una telefonata, ma una volta ottenuta telefonicamente la fiducia come può presentarsi di persona? Occorreva inventarsi qualcosa di valido ed il colpo di genio, in realtà vecchio come una commedia di Plauto o Terenzio, è la sostituzione, il classico scambio di persona. Così ad entrare in scena al posto suo sarà il collega Flip Zimmerman [Adam Driver], ebreo non praticante, innescando un crescendo di tensione man mano che si disinnescano gli equivoci e si scoprono i piani del nemico.

«Mi sento continuamente come fossi due persone».

Nel frattempo, su un fronte che più parallelo e in contrasto non si può, Ron è impegnato ad indagare sui piani di “rivoluzione” del comitato studentesco del Colorado College, dove una bella quanto forte presidentessa, Patrice Dumas [Laura Harrier], promuove attivamente il Black Power e i comizi di Stokely Carmichael [Corey Hawkins], il leader carismatico del gruppo. Un’organizzazione “alla luce del sole” per la rivendicazione dei diritti della popolazione afroamericana contrapposta ai fautori del White Power, della supremazia bianca, del nazionalismo bianco o come lo si voglia chiamare per dire “razzisti anacronistici e ignoranti”, con il loro cosiddetto “impero invisibile”, capeggiato da un David Duke che, nell’interpretazione di Topher Grace, risulta non meno misero, goffo e insignificante dell’originale dietro quella sua maschera da semplice e pacifico cittadino americano. Il David Duke di BlacKkKlansman è un personaggio che si fa portavoce di tutta quella retorica della politica di Donald Trump, criticata anche nelle immagini di repertorio presenti nell’inserto che conclude il film.

«L’America non eleggerebbe mai uno come David Duke».

Se a questo punto vi svelassero che il film è tratto da una storia vera, che la sceneggiatura è stata costruita a partire dal libro del detective Ron Stallworth, pubblicato nel 2014 proprio con il titolo Black Klansman? Da non credere? No. Ormai, dopo tante esperienze di biopic, mockumentary e meta cinema ci siamo desensibilizzati al punto da non lasciarci impressionare più di tanto. Ma questo, in fondo, più che alla trama giova al messaggio, veicolato ovviamente dall’intero film ma reso esplicito soprattutto da un inserto cinematografico, inteso come insieme d’immagini estraneo allo spazio e al tempo diegetico.

«This joint is based upon some fo’ real, fo’ real shit».

Questa trama, già di per sé estremamente pregna di significanti più o meno evidenti e spunti di riflessioni da trascorrerci ore, è infatti racchiusa in due inserti collegabili “solo” ideologicamente ad essa ed al messaggio insito in essa. Nell’incipit Spike Lee propone un cameo molto particolare: Alec Baldwin [The cooler, Zona d’ombra, Getaway], che ha già abbondantemente ridicolizzato Trump con la sua imitazione da antologia al Saturday Night Live, interpreta un senatore razzista ripreso in stile mockumentary nell’atto di registrare un discorso di propaganda elettorale: mentre esalta i presunti «valori dei bianchi protestanti» e demonizza parità, integrazione e matrimoni misti, viene proiettata sulla sua figura qualche scena del film Nascita di una nazione, di David Wark Griffith, una delle opere più importante della storia del cinema mondiale per aver introdotto e diffuso le regole del montaggio analitico con i suoi raccordi sull’asse, sullo sguardo, sugli oggetti e sui movimenti creando quello che poi è diventato un vero e proprio linguaggio tecnico. Il caso, o più probabilmente, un’assurda macchinazione alle spalle del regista, ha voluto che proprio quando le scene si facevano più dense sul piano tecnico-formale, la trama – si tratta, infatti, del primo film narrativo della storia – deviasse verso un risvolto nichilista, sottolineato dal primo montaggio alternato in parallelo, ponendo i membri incappucciati del KKK nella parte dei cavalieri salvatori della patria in contrapposizione ai neri visti come delle bestie senza regole e senza cultura. Sin dalle prime proiezioni il film ispirò proteste, disordini, persino omicidi. Si dice addirittura che da allora il KKK sia rinato a nuova vita. Profondamente turbato Griffith girerà subito Intolerance che condannava ogni forma di violenza e intolleranza, ma ormai il potere del medium di massa aveva avuto i suoi effetti devastanti.  In BlacKkKlansman, Spike Lee prende coraggiosamente posizione nei confronti di chi continua a strumentalizzare i media e diffonde un nuovo messaggio In questo senso potrebbe essere considerato il capolavoro assoluto del regista, il film della maturità acquisita, come avremo modo di analizzare tra poco. Tornando agli inserti, quello finale, invece, è un vero e proprio schiaffo che risveglia le coscienze: un montaggio giustapposto di immagini di repertorio in cui si documentano gli scontri di Charlottesville che hanno portato alla morte di Heather Heyes e i commenti imbarazzanti e fuoriluogo di Donald Trump e David Duke, quelli reali, ed è davvero il caso di aggiungere un “purtroppo”.

«Mi serve il fascicolo di un “ROSPO».

A parte il cameo del regista, l’ambientazione a Brooklyn e gli end credits evocatici, che stavolta si sarebbero rivelati fuoriposto, tutta la poetica, lo stile e le ossessioni di Spike Lee tornano in questo memorabile BlacKKKlansman. E la maturità sta nel fatto che ogni cifra stilistica o elemento poetico è funzionale alla trama o all’intreccio.

Per quanto riguarda la POETICA:

  • tematiche sociali, in questo caso alleggerite dai temi del doppio, dello scambio di identità e della loro negazione, il mimetismo (da attribuire forse più ai coproduttori Jordan Peele (regista di Scappa – Get out) e Jason Blum della Blumhouse Production (La notte del giudizio – Election year, The visit);
  • lotta al razzismo;
  • personaggi femminili forti;
  • attenzione ai dialoghi, mai banali, ma casomai referenziali o autoreferenziali;
  • attenzione nella scelta della musica, sempre ricercata e significativa (Too late to turn back now, per fare un esempio su tutti)
  • citazioni culturali, cinematografiche, metacinematografiche e riguardanti l’attualità.

Le SCELTE STILISTICHE prevedono:

  • fotografia caratterizzata da colori saturi, senza eccedere stavolta;
  • contrasti marcati, stavolta meno “rumorosi” rispetto al solito.

Fino ad arrivare alle cosiddette “CIFRE STILISTICHE” che diventano delle firme personali dell’autore:

  • attori che parlano verso la mdp e relativo sfondamento della parete “proibita”;
  • la famosa “wake-up-call”, la telefonata che sveglia, immancabile;
  • il “double-dolly-shot”, anch’essa immancabile: si tratta di una sequenza in cui il personaggio è inquadrato con un piano ravvicinato, mentre è immobile sul carrello in movimento. Il risultato è uno straniamento dello spettatore che percepisce l’immobilità del soggetto rispetto al cambiamento dello sfondo intorno.

John David Washington [The Old Man & the Gun, Love Beats Rhymes, Malcolm X], ex giocatore di football americano ma, soprattutto, figlio di quel Denzel Washington [Barriere, The equalizer, I magnifici 7] che è stato protagonista di parecchi Spike Lee’s Joint [Malcolm X, Inside man, He got game], ha conquistato pubblico e critica, donando al suo personaggio la spavalderia tipica della sua gente e il posato raziocinio dell’eroe senza macchia e senza paura che occorreva per rendere più evidente il contrasto tra tematica e messa in scena e tra i toni della commedia e la realtà drammatica dei fatti.

«Improvvisa! Come nel jazz!».

Oltre ai già nominati Adam Driver [L’uomo che uccise Don Chisciotte, Star Wars: Il risveglio della forza, Star Wars: Gli ultimi jedi], Topher Grace [Interstellar, Truth – Il prezzo della verità, Spider-Man 3], Laura Harrier [Spider-Man: Homecoming, Fahrenheit 451 serie tv], Corey Hawkins [Straight outta Compton, Iron Man 3, Kong: Skull Island], del cast, fra new entry e vecchi amici, fanno parte anche Ryan Eggold [La scomparsa di Eleanor Rigby, Padri e figlie, 90210 serie tv], Jasper Pääkkönen [Vikings serie tv], Robert John Burke [Miracolo a Sant’Anna, Person of interest serie tv], Ken Garito [S.O.S. – Summer of Sam], Paul Walter Hauser [Tonya], Ashlie Atkinson [The wolf of Wall Street, Inside man].

A completare il cast due fratelli d’arte. Uno è Michael Buscemi [Animal factory, Insieme per forza] il fratello del più famoso Steve Buscemi. L’altro è una vecchia conoscenza del regista e presente in Fa’ la cosa giusta, Mo’ better blues, Jungle fever e Malcolm X. Si tratta di Nicholas Turturro, fratello di John Turturro, che ha quel ruolo che sin dalla tragedia greca viene definito deus ex machina, ovvero un personaggio, il più delle volte una divinità, che compare improvvisamente sulla scena per dare una risoluzione ad una trama ormai irrisolvibile secondo i classici principi di causa ed effetto; tale espressione è ora, di fatto, assunta per indicare un evento o un personaggio che risolve inaspettatamente la trama di una narrazione, al punto di apparire altamente improbabile o come il risultato di un evento fortuito.

Cameo fondamentale inoltre quello affidato ad Harry Belafonte su un montaggio alternato che crea un parallelo tra il suo intervento all’incontro con gli studenti afroamericani ed il “battesimo” dei nuovi adepti suprematisti del KKK. Un montaggio alternato che può scolpirsi nella memoria come quello de Il padrino, sempre con un battesimo di mezzo, stavolta il rito cristiano è per un neonato, abbinato all’ascesa al potere del nuovo boss.

Dopo la standing ovation di sei minuti, e il premio ovviamente, a Cannes 2018, BlacKkKlansman ha ricevuto un’ottima accoglienza anche negli Stati Uniti, complice anche la scelta di farlo uscire il 10 agosto, anniversario di Charlottesville.

«– Test della verità? Colpi di pistola? Volete coglionarmi? è un dannatissimo bordello! Aaah… teste di cazzo! Mi prendete per il culo? Tu mi stai intortando, tu mi stai intortando, il capo me lo sta mettendo in quel posto: è una grande inculata collettiva! Vi fa ridere? perché se Bridges lo viene a sapere, tutta questa cazzo di operazione verrà chiusa. Sì, fa ridere… E io verrò mandato davanti a una scuola del cazzo nel fottuto ghetto di Five points!
– Ma lo verrà a sapere, Sergente?
– Verrà a sapere che cosa? (buttando il fascicolo in un cassetto)».

BlacKkKlansman è una black comedy dove il riso diventa amarissimo con lo schiaffo della realtà dei fatti di Charlottesville. Per l’intero film si può ridere con le lacrime agli occhi ma sui titoli di testa, viceversa, non ci è permesso piangere con il sorriso: è un pianto di rabbia.

«Non volevo certo che la gente uscisse dal cinema ridendo».

Quello che per altri film di genere costituirebbe l’obiettivo finale, in BlacKkKlansman si trasforma in pochi secondi nel setting di un’altra storia ben più profonda (il riferimento è all’accettazione senza precedenti di un afroamericano nella polizia di Colorado Springs). Il tema del razzismo, tanto caro a Lee, si unisce a quello dell’emancipazione, creando una fitta rete di rimandi. Così il discorso non si limita all’accettazione di un nero nella polizia, ma diventa lotta contro quell’impero invisibile che, celato dietro una maschera da rispettabili membri di una società in giacca e cravatta che non ammette intrusioni esterne, estranee – nemiche, ostili come si tramanda nel termine latino hostes – al loro circolo chiuso, che reputano virtuoso così com’è. Nemmeno le donne vi sono ammesse. Le loro donne. La critica di Spike Lee alla società attuale passa attraverso quest’ambientazione anni ’70, prende come pretesto la storia di Ron Stallworth e poi la trascende, spingendosi a sovrapporre parallelismi forti: l’ebreo non praticante che si trova a dover difendere le proprie origini in un ambiente ostile; l’afroamericano che viene emarginato dai suoi stessi fratelli in quanto poliziotto; il poliziotto nero che deve sentirsi bullizzato nel suo ambiente di lavoro dai suoi stessi colleghi; la donna che non risulta mai abbastanza credibile come sesso forte o che non avere pari opportunità reali sulla scena politica – o terroristica, per giunta! – se non in ruoli secondari, da gregario.

«Sono abbastanza rispettoso per te, agente “ROSPO”?».

BlacKkKlansman è una black comedy dove l’aggettivo non indica il colore della pelle: dietro la farsa, dietro le risate, seppur spesso amare, si fa largo una riflessione profonda sul senso di appartenenza ad una comunità e ad una nazione che finalmente siano unite ed emancipate da ogni forma di intolleranza, sul confine che deve esistere tra rivendicazione dei diritti e terrorismo e su tanti elementi che sembrano insignificanti se non si guarda il quadro generale: la blaxploitation operata dal cinema negli anni ‘70/’80 [si citano Cleopatra Jones, Coffy, Superfly e Shaft, complici, come Tarzan e Via col vento, nella diffusione di dinamiche sociali sbagliate o distorte] o i luoghi comuni che stentano a scomparire sono additati da Lee alla stessa stregua dei discorsi assurdi dei suprematisti bianchi, perché contribuiscono a diffondere immagini che danneggiano il popolo afroamericano. La critica non si limita, quindi, a demonizzare il succitato Nascita di una nazione di Griffith, ma si allarga a puntare il dito sul potere che i media esercitano sulla massa, sulla politica, che è troppo spesso un ulteriore modo di vendere odio, sull’irrazionalità che c’è dietro certi discorsi, certe spiegazioni, sulla giustizia che non esiste senza la verità e su una verità soggettiva che non può generare una giustizia violenta e sommaria. Mai.

Curioso che Adam Driver sia contemporaneamente nelle sale cinematografiche italiane con L’uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam, che tocca alcune tematiche simili: la ricerca di una reale verità e il forte condizionamento – un rumore, un disturbo sarebbe meglio dire – dei mass media sull’opinione del pubblico e sui suoi desideri di felicità.

Lady Bird, di Greta Gerwig

Arriva nelle sale italiane dal 1° marzo 2018 uno dei migliori film americani del 2017: Lady Bird!

Il film d’esordio di Greta Gerwig, attrice di media fama, conosciuta più per aver interpretato e/o scritto alcuni film di Noah BaumBach [Mistress America, Frances Ha, Lo stravagante mondo di Greenberg] piuttosto che per aver preso parte a film più o meno di successo come Jackie o To Rome with love. A quanto pare, però, è una regista di sensibilità e intelligenza notevoli, così la sua commedia introspettiva si posiziona al primo posto nella classifica annuale della rivista Variety, finisce al 19° posto nella classifica dei 25 migliori film dell’anno secondo Sight & Sound e guadagna un onorevole 5° posto sul sito Rotten Tomatoes, che per fama non è mai prodigo di voti, nemmeno con pellicole di indubbio successo.

Scritto e diretto dalla stessa Gerwig, Lady Bird ha aperto la sezione Special Presentations al TIFF [Toronto International Film Festival] del 2017, ricevendo una standing ovation dal pubblico estasiato. In tutto il mondo ha ricevuto e riceve tuttora ottimi riscontri da parte anche della critica, riscontri che si sono tradotti in parecchi riconoscimenti tra cui 2 Golden Globe su quattro candidature e le cinque nomination agli Oscar® 2018: miglior film; miglior regista per Greta Gerwig; miglior attrice per Saoirse Ronan; miglior attrice non protagonista per Laurie Metcalf; migliore sceneggiatura originale. Realisticamente a pochissime chance, ma le sorprese possono verificarsi.

«Chiunque parli dell’edonismo californiano non ha mai trascorso un Natale a Sacramento [Joan Didion]».

Ambientato nella città di Sacramento, città natale della regista, Lady Bird racconta un anno della vita di una teenager all’ultimo anno di high school (2002 – 2003), Christine MacPherson [Saoirse Ronan, Amabili resti, Brooklyn]. Christine vuole evadere dalla sua famiglia e dalle restrizioni della provincia americana in modo da avere la possibilità di costruire il proprio futuro in un college che sia lontano dall’asfissiante realtà in cui vive tutti i giorni. Ama farsi chiamare “Lady Bird”, proprio per una più o meno consapevole voglia di spiccare il volo e andarsene via per lasciarsi tutto alle spalle: la città, gli amici, l’amore, la famiglia. Christine vive un periodo di ribellione e contrasto nei confronti dell’autorità e di quanto la vita sembra offrirle e cambiare il nome è un primo atto di emancipazione. Lady Bird desidera l’avventura, vorrebbe «vivere qualcosa di memorabile», l’amore che cambia la vita, un’università di alto livello e frequentata da persone “strafighe”, persegue la raffinatezza o l’eccentricità, tutto pur di farsi notare, e pretende l’opportunità che l’America dovrebbe offrire a ognuno, ma non trova nulla di tutto questo né nel suo liceo cattolico né in tutta la città di Sacramento.

«Odio la California! Preferisco la East Coast»

Ad essere perennemente sotto esame per Christine è il suo rapporto con gli altri, sempre troppo patetici e problematici per una ragazza che sente di meritare di più. Si sente relegata «dal lato sbagliato della ferrovia» e sogna di abbandonare la sua bassa estrazione sociale guadagnandosi un posto migliore nei quartieri alti, poco importa se le sue azioni possono rovinare le sue più antiche amicizie o mortificare ogni dinamica familiare. In questo contesto di ribellione e ansia da prestazione, è soprattutto il rapporto di amore/odio con la madre, la sorprendente Laurie Metcalf [Io e zio Buck, Pappa e ciccia], a tessere la ragnatela di riflessioni psicologiche più fitta. Le due alternano momenti di amorevole tenerezza e gesti d’affetto a periodi di attriti continui e conversazioni asettiche da diplomatici internazionali in tempo di guerra fredda. L’incipit del film è proprio una loro discussione in macchina dopo aver ascoltato Furore di John Steinbeck e la conclusione del diverbio è a dir poco originale ed esilarante.

Questo tipo di spaccati sociali tipici del panorama indie sono da sempre amati dal pubblico americano e dalla critica autorevole delle kermesse cinematografiche, perché raccontano e riflettono una società più vicina alla realtà dello spettatore medio. Nel corso degli anni la differenza tra cinema mainstream e indie si è andata via via assottigliandosi e molte grosse case di produzione hanno investito nel settore con compagnie-satellite o hanno inglobato gli indipendenti originari, ma è bello vedere in Lady Bird quel coraggio di affrontare tematiche complesse come l’omosessualità, le angosce esistenziali, le droghe, la disoccupazione, le malattie, i rapporti difficili con la scuola o con la famiglia attraverso un registro drammatico-introspettivo che mal si abbina alla commerciabilità del prodotto film.

Lady Bird sembra continuare idealmente un viaggio psicanalitico a ritroso delle sceneggiature di Greta Gerwig: Frances Ha è la storia della fortuna altalenante di un’aspirante ballerina di 27 anni e Mistress America racconta l’esperienza poco emozionante di una matricola del college. Magari è presto per parlare di autorialità, ma la “ragazza” va tenuta d’occhio.

Nonostante una sceneggiatura spigliata, velatamente autobiografica, e una recitazione sentita, non si può dire che Lady Bird sia particolarmente curato dal punto di vista formale: non presenta un montaggio accattivante, originale o stilisticamente degno di nota; nemmeno la fotografia brilla e la musica si palesa quel tanto che occorre per alleggerire e commentare le scene. Ma allora, cosa di Lady Bird ha conquistato l’America e il resto del mondo, tanto da far inserire il film nella lista dei migliori film dell’anno o da renderlo meritevole di una statuetta o più agli Oscar® 2018? Pare che negli ultimi tempi sia molto in auge premiare chi segue il detto LESS IS MORE, da intendersi, ovviamente, non nell’interpretazione operata da Downsizing. Greta Gerwig scrive e dirige un’opera che fa dell’essenzialità il suo pregio più grande.


La trama scorre senza divagazioni sterili coinvolgendo gli spettatori, chi più chi meno, in una crisi esistenziale di fine adolescenza, nella quale risulta importante il percorso e non la meta finale, parafrasando la massima di Thomas Stearns Eliot. Il Nobel 1948 per la letteratura non è l’unico ad aver ispirato le riflessioni filosofiche della neoregista americana: l’intero viaggio esistenziale della protagonista richiama alla mente le riflessioni di Marcel Proust, “la scoperta non consiste nel cercare nuovi posti ma nel vedere con occhi diversi”, e di Seneca, per il quale “viaggiare e cambiare luogo infonde nuovo vigore alla mente”. Ma è citando Steinbeck nell’incipit che la regista fornisce la chiave per interpretare il film: L’uomo è un animale che vive d’abitudini. Si affeziona ai luoghi, detesta i cambiamenti. […] Ho finito per persuadermi che un uomo deve lasciarsi vivere. Prendere la vita come viene, e non cercare di modificarla.

«Alcuni non sono fatti per essere felici»

Nota a margine: il compositore di Se mi lasci ti cancello e Ubriaco d’amore, Jon Brion, ha curato la colonna sonora di Lady Bird inserendo anche brani tratti da musical di successo: Being alive [Company], Everybody says don’t [Anyone can whistle] e Giants in the sky [Into the Woods], tutte scritte da Stephen Sondheim, che ha anche composto il musical “Merrily we roll along” in cui si esibiscono Lady Bird e gli altri membri del corso di recitazione.

Fa parte del cast anche Timothée Chalamet, candidato all’Oscar® 2018 per il ruolo di Elio Perlman nel film Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino.

Downsizing – Vivere alla grande, di Alexander Payne

E se la soluzione ai più grandi problemi dell’umanità fosse rimpicciolire l’uomo?

È la tesi portata avanti da Downsizing – Vivere alla grande, il film che ha aperto il Festival di Venezia 2017. Il regista, Alexander Payne, stavolta tira di molto su l’asticella e punta a modernizzare il concetto stesso di commedia innestando ad un plot che parte da un presupposto fantascientifico una ramificazione di riflessioni su concetti che vanno dal concreto materialismo alla filosofica ricerca della felicità, dall’ironia della sorte al sottile confine tra volontà e possibilità.
«La porta per la felicità si apre verso l’esterno».

Payne è stato autore di grandi successi di critica come A proposito di Schmidt, Election, Citizen Ruth o Nebraska, il più recente, che gli è valso la nomination come miglior regia agli Oscar® 2014. Come sceneggiatore invece l’Oscar® l’ha ottenuto: nel 2012 e nel 2005 per le sceneggiature rispettivamente di Paradiso amaro (The descendants) e Sideways – In viaggio con Jack.
«Rimpiccioliscono le persone, vanno su Marte, ma non sanno curare la mia fibromialgia».

Uno scienziato norvegese trova il modo di ridurre la massa cellulare degli organismi viventi. Questa già enorme scoperta scientifica diventa ancora più significativa quando 36 volontari decidono di sperimentare la vita da un altro punto di vista. Rimpicciolire l’uomo diventa quindi un modo per rimediare in una botta sola a sovrappopolazione, inquinamento, crisi economica e sfruttamento delle risorse energetiche. Questa «sostenibilità a misura d’uomo» giunge all’orecchio di Paul e Audrey Safranek.
Paul [Matt Damon, Sopravvissuto – The Martian, The Zero theorem, The Great Wall] è quello che si sarebbe potuto definire “un piccolo uomo”, senza grandi ambizioni, «tendente al patetico», con un lavoro che ama, ma che non gli fornisce né prestigio né guadagni considerevoli, mentre Audrey [Kristen Wiig, I sogni segreti di Walter Mitty, Sopravvissuto – The Martian, Ghostbusters], invece, vuol fare le cose in grande, ha progetti ambiziosi, fra cui la casa dei sogni che, però, mal si abbina al loro tenore di vita.
Quando scoprono da una coppia di amici già sottoposti al trattamento, i Lonowski, che con il loro misero reddito nelle nuove metropoli possono campare di rendita e permettersi lussi da arcimilionari, i coniugi Safranek decidono di miniaturizzarsi, ma all’alba della loro nuova esperienza dire che qualcosa va storto è un eufemismo (che poi sarebbe minimizzare!).
«Riduciti al minimo. Ottieni il massimo».

Il premio Oscar® Christoph Waltz [Bastardi senza gloria, Django Unchained, The Zero theorem] ha volentieri aderito al progetto ambizioso di Downsizing – Vivere alla grande e interpreta Dušan Mirkovic, il nuovo vicino di Paul nella minimetropoli di Leisureland. Insieme a lui in scena ritroviamo quasi sempre una vecchia gloria del cinema, il caratterista Udo Kier, conoscenza comune di Lars Von Trier e Dario Argento. I già citati coniugi Lonowski sono interpretati da Jason Sudeikis [Come ti spaccio la famiglia, Race – Il colore della vittoria] e Laura Dern [Jurassic Park, The founder]. Solo un breve cammeo, invece, per Neil Patrick Harris, noto per aver preso parte alla serie tv How I met your mother, ma più di recente per essere il nuovo volto del Conte Olaf nella nuova versione di Una serie di sfortunati eventi su Netflix, e per James Van Der Beek, il Dawson Leery della serie tv Dawson’s creek.
Chi ricava il massimo dalla sua partecipazione dal nuovo film di Alexander Payne è Hong Chau [Vizio di forma]: l’attrice di origini thailandesi è candidata con merito a numerosi premi tra cui spicca il Golden Globe 2018 come miglior attrice non protagonista.

Le riflessioni che scaturiscono dalla visione di Downsizing – Vivere alla grande sono tantissime e l’effetto domino dei ragionamenti mantiene costante la soglia dell’attenzione dello spettatore che vive un’avventura cinematografica continuamente sospesa tra la commedia e il dramma sentimentale in un contesto fantascientifico che presenta risvolti romantici di natura squisitamente umanitaria. Quando il personaggio di Matt Damon si miniaturizza è costretto a “riciclarsi” e si trova a guardare il mondo che lo circonda da un’altra prospettiva, ma a cambiare maggiormente è il suo modo di percepire sé stesso e i rapporti con gli altri.


Per compiere imprese grandiose non serve essere un grande uomo, 12 centimetri sono più che sufficienti! questa è il primo messaggio che passa costante nella visione del film. Che la felicità sia nelle piccole cose, quelle di ogni giorno, è una seconda morale, magari all’apparenza anche scontata, che s’intreccia alla forza dei piccoli gesti, quelli che, si sa, sono capaci di accendere sorrisi splendenti in chi rappresenta il gradino più basso della scala sociale. Questo sì che è un risvolto davvero inaspettato, che quasi fa ombra alle mille trovate scenografiche della clinica miniaturizzante e di Leisureland, trovate che riecheggiano i surreali prodotti della fantasia di Terry Gilliam, ma che sostituiscono al gusto retro di quella fantascienza un’estetica nitida e pulita da film classico americano che colma il gap tra finzione e realtà. Probabilmente la scelta di non calcare la mano, di non andare mai sopra le righe né con la fotografia né con un editing maggiormente accattivante e nemmeno con effetti speciali più sbalorditivi serve a non distrarre dalle riflessioni, che rappresentano il vero obiettivo di Downsizing – Vivere alla grande. Il pelo nell’uovo: un pizzico in più di ironia e sarcasmo lo avrebbe reso un piccolo grande capolavoro, ma comunque resta un film da vedere, assolutamente.

Edward Mani di Forbice – Qualche anno dopo, di Kate Leth e Drew Rausch

Quando a maggio 2017 mi è stato chiesto di recensire questo fumetto la mia gioia è stata immensa. Spesso si suggerisce di non giudicare un libro dalla copertina. Ecco, mai consiglio fu più vero! Ho aspettato tanto perché a caldo il mio giudizio sarebbe stato affrettato, figlio naturale di un pregiudizio e di un’aspettativa tradita. Nel frattempo ho meditato, letto e indagato, non proprio in quest’ordine, diciamo in ordine sparso e ho maturato che nel caso di Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo i lettori non possono che trovarsi un po’ spaesati per il contrasto grafico fra la copertina scelta dall’editore e i disegni sulle pagine che poi ci si trova a sfogliare. Per onestà di giudizio, bisogna ammettere che in fin dei conti si tratta di un prodotto che chiaramente vuole ottenere degli obiettivi economici specifici e, probabilmente, lo fa egregiamente, sfruttando quella gran voglia di sequel e remake che caratterizza l’attuale target, la fascia di mercato che detiene in questa fase storica il potere d’acquisto maggiore: la generazione x, che ha visto il film di Tim Burton e che vuol colmare il gap con i figli-screenager.

Negli Stati Uniti Edward Scissorhands è edito dalla IDW Publishing. Il successo delle nostalgiche sceneggiature della canadese Kate Leth e delle avanguardistiche illustrazioni dell’artista californiano Drew Rausch ha spinto la casa editrice californiana a creare una serie di 10 numeri, poi raccolta nella versione deluxe, oversized handcover che ha convinto la Nicola Pesce Editore a pubblicarne la traduzione: Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo è un volume 14×21 cm, brossurato [cartonato in originale], con alette, di 128 pagine tutte a colori. Nessun problema fin qui, se non fosse per la copertina scelta: quella che è una variant cover celebrativa nell’originale, in Italia diventa la copertina ufficiale, creando, di fatto, un’incoerenza grafica molto forte con i disegni che poi caratterizzano l’intero fumetto.

Questo fumetto non è un pedissequo adattamento del film, che di per sé avrebbe avuto poco senso data la perfezione della pellicola. Si tratta invece di una storia nuova, poetica come l’originale, gotica e toccante”, tranquillizza e spiega la descrizione del prodotto sul sito ufficiale della casa editrice e questo è sufficiente per chiudere la questione e pensare a Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo per quello che è: un fumetto per ragazzi che riprende il filo della narrazione di un film che ha fatto epoca per fornirgli una vita più che nuova, in un contesto contemporaneo… è un po’ la storia stessa di Edward, no?

Sono passati tanti anni, Kimberly, l’amore mai dimenticato di Edward, non c’è più, mentre Edward non è invecchiato di un giorno e continua ad essere l’emblema della solitudine, un mostro dal cuore tenero che il mondo non ha mai capito ma isolato nel suo maniero abbandonato, consolato dalla sola compagnia delle sue creazioni artistiche: figure scaturite dal taglio delle siepi o del ghiaccio. Talmente è solo che quando un giorno trova un altro androide, disattivato perché pericolosamente incompleto, Edward lo riattiva pensando di poterlo gestire… Intanto, Megan, una ragazza curiosa e piena di sentimenti positivi, in tutto e per tutto identica a nonna Kimberly, indaga sul passato della sua famiglia e quindi, in cerca di risposte, si avventura nel vecchio maniero dove vive Edward…

I disegni di Drew Rausch sono intriganti e freschi, accattivanti nei loro colori desaturati e segnati da contrasti decisi, sebbene troppo deformati comicamente per il gusto dei burtoniani. Manca una profondità dei neri, e qui ci sarebbe da sviluppare un discorso infinito su quanto il gotico sia legato necessariamente ad un ampio ventaglio di tonalità dark, in questo caso stranamente mancanti. Soprassediamo e torniamo invece ai pro, visto che il contro è ormai chiarissimo: sono bellissime le tavole di intermezzo fra i capitoli con gli a solo di Edward e le siepi tagliate ad arte sotto un cielo stellato; in appendice altre meravigliose tavole realizzate da vari artisti che hanno reinterpretato secondo la loro natura artistica i personaggi creati da Tim Burton; in più bozzetti, bibbia dei personaggi e dei luoghi e le prove di montaggio di alcune tra le pagine più interessanti.

Se lo si potesse considerare un fumetto a sé, ossia slegato completamente dal prodotto cinematografico originale, Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo sarebbe passabile, per giunta piacevole per molti aspetti, un modo simpatico per avvicinare nuove generazioni ad uno dei personaggi più iconici del già particolare mondo gotico di Tim Burton.

Il risultato finale dipende quindi da quale sia il pubblico chiamato a comprarlo: se si tratta di un’operazione di mercato tipo “Bambini, venite a conoscere Edward” se ne può anche parlare e, seppur, con una certa riluttanza, accettare, ma se l’obiettivo è “Fan di Edward, guardate un po’ chi è tornato”, beh, non ci siamo proprio, perché a venir meno è lo spirito che era alla base di quel novello Frankenstein in cerca di amore.

Il giudizio molto personale e quindi non certo insindacabile del sottoscritto è che Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo sia un poco riuscito connubio di tematiche horror e mood da commedia adolescenziale con un personaggio talmente fuori dalla sua “naturale” ambientazione gotica da sembrare la caricatura di sé stesso.

Peccato per le incongruenze, peccato per chi si aspettava un fumetto differente, maggiormente conformato all’originale cinematografico.

The founder, di John Lee Hancock

The Founder, di John Lee Hancock [Saving Mr. Banks, The Blind Side, The Rookie – Un sogno una vittoria], racconta la storia vera dell’imprenditore Ray Kroc e di come sia riuscito a far diventare McDonald’s la catena di fast food più famosa al mondo. Non solo, è lo scontro tra due imprenditori idealisti e uno senza scrupoli. Così, mentre il produttore Don Handfield [Touchback, Knightfall]romanza l’origine del film legandola all’ascolto della canzone “Boom, like that” scritta da Mark Knopfler, storica chitarra dei Dire Straits, proprio dopo aver letto l’autobiografia di Ray Kroc, un altro produttore, Aaron Ryder [Memento, The prestige, Donnie Darko, Arrival], spiega: «è un film sull’America e sul capitalismo. Parla della determinazione per il raggiungimento del successo, dell’integrità della ricerca e anche della sua perdita. Rappresenta il sogno americano: si può avere successo nonostante tutto grazie alla pura forza di volontà».

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Ray Kroc [Michael Keaton], semplice commesso viaggiatore di una ditta che vende multimixer per frullati, dall’Illinois si precipita ad incontrare i fratelli Dick e Mac McDonald [Nick Offerman e John Carroll Lynch], che stavano tirando su una catena di ristoranti specializzati nella somministrazione del classico menu da fast food: hamburger, patatine e bibita analcolica.

Quello che li contraddistingueva dalla massa durante il boom economico degli anni ’50, in California come nel mondo, era un sistema espresso per preparare e confezionare che avrebbe rivoluzionato il mercato. Kroc, visto il potenziale per un franchise, cerca con qualsiasi manovra di guadagnarsi una posizione nel loro business, sfidando la ritrosia e le regole ferree dei fratelli, inamovibili nel non voler snaturare la genuinità del loro prodotto e del loro brand.

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Ma allora come si è giunti all’attuale status quo? Chi l’ha spuntata lo si sa, senza neanche vedere il film, ma quello che la sceneggiatura avvincente, dinamica e senza sbavature o falsi moralismi riesce a realizzare è di tenere lo spettatore incollato alla poltrona ad aspettare lo svelamento delle macchinazioni.

E se in fondo al cuore l’umanità positiva dei McDonald lo emoziona e lo muove alla protesta, allo stesso tempo, lo spettatore è rapito dalla carismatica figura di Kroc/Keaton che dialoga direttamente in macchina colmando il vuoto che c’è oltre quella barriera invisibile che è la cosiddetta “quarta parete” con la sua determinazione. Interpellando direttamente il pubblico si erge a protagonista indiscusso e, come per incanto le sue azioni immorali diventano lecite e, anzi, desiderate in quanto fulcro della trama intera.

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La sceneggiatura di Robert Siegel [The Wrestler] è indiscutibilmente da Oscar, come lo è anche la ricostruzione storica operata dallo scenografo Michael Corenblith, dalla set decorator Susan Benjamin e dal costume designer Daniel Orlandi per la fotografia di John Schwartzman, ispirata ai dipinti di Edward Hopper e realizzata con macchine Arri Alexa XT equipaggiate con lenti anamorfiche Panavision ed uno spettacolare rapporto 2.39:1.

Oltre a Michael Keaton [Birdman, Il caso Spotlight], Nick Offerman [Knight of Cups] e John Carroll Lynch [The invitation, Zodiac], nel cast anche Linda Cardellini [Avengers: Age of Ultron], Patrick Wilson [Insidious, Oltre i confini del male: Insidious 2, L’evocazione – The Conjuring, The Conjuring – Il caso Enfield], B. J. Novak [Saving Mr. Banks, Reign over me, Bastardi senza gloria] e Laura Dern [Wild, Jurassic Park].

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La festa prima delle feste, di Will Speck e Josh Gordon

La festa prima delle feste viene organizzata proprio quando il morale è sotto i tacchi alla Zenotek di Chicago, dopo che la risoluta amministratrice delegata e CEO dell’intera azienda e di tutte le sedi negli Stati Uniti, Carol Vanstone (Jennifer Aniston), ha annunciato un piano di chiusura della loro divisione pochi giorni prima di Natale. Consapevole che l’arrivo delle feste non aiuterà a risollevare lo spirito dei suoi dipendenti, l’eccentrico presidente dell’azienda e fratello minore di Carol, Clay Vanstone (T.J. Miller), arruola il Responsabile Tecnico Josh (Jason Bateman) e l’Ingegnere di Sistema Tracey (Olivia Munn) per trasformare la festa di Natale in una miracolosa, epica e indimenticabile festa che possa convincere un cliente di primo livello (Courtney B. Vance) a firmare una nuova commessa e così salvare il lavoro di tutti.

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L’italiano del titolo La festa prima della feste rende meno immediato l’inqadramento del film all’interno di un preciso filone cinematografico rispetto all’originale inglese, Office Christmas Party, cioè “la festa di Natale in ufficio”. I registi Josh Gordon e Will Speck con la sceneggiatura di Jon Lucas, Justin Malen, Scott Moore e Laura Solon, imboccano la strada che parte dai “party movie” più famosi, primo tra tutti la trilogia di Una notte da leoni. Mantenere il meccanismo cambiando solo il “quando” e spostandolo a Natale era un’operazione che prima o poi sarebbe arrivata. L’idea si rivela buona, il film prende una direzione nota, quello della sballo della festa distruttiva, sin da subito, seminando poco prima i conflitti famigliari e lavorativi. Sono opposizioni molto semplici ma efficaci, la scrittura dei personaggi, anche dei comprimari, come l’ingegnere nerd, funzionano sebbene risultino già visti e rivisti e limitino la risata a un primo momento, più stanco alla fine della pellicola. Un ingrediente peculiare di questo genere molto preciso sono le diavolerie messe in campo per la festa, e le gag tipiche di quando si perde il senno dopo la sbronza che, in questo film, passano dalla distruzione totale del luogo di lavoro fino a rocamboleschi inseguimenti destinati alla catastrofe.

Alla fine La festa prima della feste in questa selva di ironiche volgarità, irriverenze e ubriacamenti fa sbocciare pure il suo lato più umano. Questa Notte da Leoni a Chicago diventa anche una simpatica riflessione sulla paura e sulla necessità di osare quando la vita mette alle strette. Un film ben equilibrato che tuttavia non innova ma è una buona, anzi ottima, alternativa ai classici cinepanettoni italiani prodotti in serie.

Un Natale al Sud, di Federico Marsicano

Un Natale al sud di Federico Marsicano è un film sbagliato. Dai cinepanettoni nessuno si  si aspetta una trama elaborata, ma almeno un canovaccio che faccia da collante al tutto, quello sì. Questo film invece è privo anche di quello ed è più accostabile ad un barzelletta movie che ad un cinepanettone. Ma si può parlare poi di un cinepanettone, quando il film è tutto ambientato in estate, ed il Natale è presente solo all’inizio ed alla fine del film, in due scene completamente slegate dal resto? Perché la trama in realtà è tutta ambientata in un villaggio turistico del sud Italia in cui si svolge una vacanza per single iscritti ad una app per cuori solitari “ Cupido 2.0”.

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Con un ritardo incredibile si  cerca di mettere in scena gli amori a distanza creati sulle chat, pensando di riuscire a raccontare la realtà che ci circonda. Cade, così, uno dei primi aspetti positivi  che ha sempre caratterizzato, negli anni, il cinepanettone: l’essere uno specchio cattivo della nostra società, nei suoi aspetti più mostruosi.

Invece qui, ad eccezione del personaggio di Conticini, nulla del mondo in cui viviamo, viene raccontato.  E se un cinepanettone perde la sua capacità di mettere in evidenza i nostri difetti, al punto che neanche noi riusciamo a riconoscerci in ciò che vediamo e a ridere di noi, inevitabilmente cade anche il secondo aspetto più importante del genere: il far ridere. Tutto il film si muove infatti per scene improbabili e gag impossibili, che non fanno altro che contraddirsi, e neanche la comicità più bassa, quella fatta di gas intestinali, puzza di piedi e  alitosi, stavolta sembra funzionare.

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Anche i tre comici principali, Boldi, De Sica e Izzo, che grazie all’esperienza e alla bravura che li contraddistingue, sono sempre riusciti a strappare una risata, sono completamente fuori parte, a causa una sceneggiatura poco ispirata e ad una regia che non è riuscita a padroneggiare perfettamente il genere. Per Boldi, forse, è arrivato il momento di seguire quel percorso evolutivo già intrapreso da De Sica, abbandonando un prodotto che ormai ha fatto il suo tempo e puntare a film con una costruzione drammaturgica più elaborata, visto che l’attore con il testo giusto ha la capacità di fare fare molto di più.

Quel bravo ragazzo – Intervista esclusiva allo sceneggiatore Andrea Agnello

Il 17 novembre uscirà Quel bravo ragazzo, di Enrico Lando, e la Redazione di ShakeMovies ha colto l’occasione per un’intervista in esclusiva ad Andrea Agnello, uno degli sceneggiatori del film, uno dei fiori all’occhiello del cinema italiano, professionista della scrittura cinematografica, scaturito dalla fucina del Centro Sperimentale di Cinematografia (CSC) ed eccellente firma di molti successi cinematografici e televisivi di ultima generazione: tra i film ricordiamo Ma che ci faccio qui!, di Francesco Amato, premiato con David di Donatello e Globo d’Oro; Com’è bello far l’amore, regia di Fausto Brizzi, in testa al box office per due settimane; I più grandi di tutti, regia di Carlo Virzì; Italians, Genitori & figli – Agitare bene prima dell’uso, riconosciuto di interesse culturale dal Ministero dei Beni Culturali, Manuale d’amore 2 e Manuale d’amore 3, tutti di Giovanni Veronesi e tutti campioni d’incassi; tra le serie TV: I licealiPiper, Benvenuti a tavola – Nord vs Sud, Fuoriclasse.

L’intervista esclusiva diventa una stupenda occasione per parlare anche del cinema a tutto tondo e per immaginare un futuro per il cinema italiano, che porti al raggiungimento di uno stile inconfondibile, che sappia di nuovo lasciare un segno indelebile, non sporadico, nel panorama mondiale per far esprimere sempre di più le eccellenze e le professionalità come quella di Andrea Agnello. Una storia, la sua, che è quella di tanti scrittori, filmmaker, direttori della fotografia. Una storia che vive di abnegazione e fede in una passione, quella per il cinema, che vale sempre i “rischi” lavorativi e che sa dare soddisfazioni enormi, se alimentata costantemente.

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1 – Come nasce il soggetto di Quel bravo ragazzo? Qual è il nucleo da cui è partito tutto?

Il soggetto nasce da un’idea di Ciro Zecca, un giovane ex-allievo del corso di produzione al CSC, molto bravo nel fare i “pitch”, cioè nel raccontare uno spunto con poche parole ma molto efficaci. Gli do una mano a tirare giù una paginetta di numero. Scriviamo solo l’incidente scatenante, lo spunto da cui tutta la storia prende le mosse, dopodiché lui un giorno mi chiama e mi dice che l’ha mandata in lettura alla Lotus di Marco Belardi. In cuor mio, la prima cosa che penso è che non la leggeranno mai; e invece – caso unico più che raro – ci chiamano per farci un contratto!

2 – Da fonti certe (IMDB, wikipedia) risulta: soggetto scritto da 3 persone e sceneggiatura scritta da 5. Perché? Come vi siete divisi il lavoro? com’è stato il lavoro in team? Vi siete divisi i personaggi? Quali sono stati i vostri ruoli? Tu hai scritto soggetto e sceneggiatura, ma i dialoghi?

2) Allora, il soggetto lo firmiamo in tre perché sin da subito Belardi ci ha affiancato Gianluca Ansanelli, lo sceneggiatore di fiducia di Alessandro Siani. Lui e Herbert già stavano lavorando da un po’, credo su un’altra idea. Tiriamo giù in tre una scaletta abbastanza dettagliata del film, costruendolo bene sul personaggio di Herbert, anche se effettivamente già l’idea originaria sembrava davvero cucita a misura su di lui. A questo punto passiamo in sceneggiatura e si aggiungono i contributi di Herbert e Enrico: Herbert ha fatto diverse riunioni con noi, molte battute di dialogo sono sue e ci ha dato tanti spunti esilaranti per costruire scene; Enrico è invece entrato sul progetto un po’ dopo ma ha comunque suggerito diverse cose che si sono rivelate molto efficaci. A dire il vero non c’è stata una vera divisione del lavoro, abbiamo sempre lavorato insieme, a sei, poi otto e poi dieci mani, cosa non semplice ma per un film comico spesso vitale.

3 – Sei soddisfatto del processo realizzativo di Quel bravo ragazzo? Hai avuto modo di vedere almeno in parte il film o sarà una sorpresa anche per te?

Ma sai che non ho visto ancora nemmeno una scena? Anche questo è un caso finora unico, non mi era mai capitato con gli altri film che ho sceneggiato, e sinceramente sono anche contento così: vederlo in sala sarà una sorpresa.

4 – Quel bravo ragazzo è chiaramente una commedia divertente, ma di che tipo? Del genere one shot (stacchi, ridi ridi ridi e ti dimentichi della realtà e poi torni alla realtà e ti dimentichi del film) oppure è una commedia che vedi e rivedi e non ti stanchi mai di rivedere?

Diciamo che già se Quel bravo ragazzo appartenesse al primo genere di film sarei strafelice. E poi penso che in realtà se un film ti fa ridere a crepapelle non te lo dimentichi e magari ti viene anche voglia di rivederlo dopo poco tempo. A me spesso succede così.

5 – Il lavoro di scrittura nasce libero da vincoli e viene adattato quando Herbert Ballerina viene scelto per il ruolo di protagonista di Quel bravo ragazzo o il personaggio è costruito intorno a lui fin dal principio?

L’idea è nata sicuramente libera da vincoli, io e Ciro – al momento di mandare in giro la famosa paginetta – non avevamo in mente un attore preciso, ma già nel nostro primo incontro col produttore Belardi ci è stato detto che il film avrebbe avuto Herbert per protagonista, e da lì abbiamo iniziato a ragionare pensando a lui. Ma non è stato uno sforzo né una costrizione, anzi: Herbert è veramente perfetto per questo ruolo, ed ha un umorismo che non esito a definire geniale.

6 – Quando crei i tuoi personaggi li immagini interpretati da qualcuno in particolare, magari i tuoi attori preferiti?

Sì spesso sì, mi aiuta visualizzare un volto, focalizzo la scrittura su qualcosa di concreto. Anche se a dire il vero quasi sempre in fase di sceneggiatura si sa già con buona probabilità chi saranno gli attori del film.

7 – Film preferito in assoluto?

Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola: visto decine di volte, un film unico, irripetibile secondo me. Unisce tutto: alto e basso, autoriale e popolare, e con un Nino Manfredi veramente da applauso.

8 – Film preferito tra quelli scritti da te?

Sono affezionato a tutti allo stesso modo, difficile sceglierne uno. Forse Ma che ci faccio qui! di Francesco Amato, ma solo perché tutto è cominciato da lì.

9 – Regista preferito in assoluto?

Tra i viventi, David Lynch. Tra i defunti Mario Monicelli.

10 – Regista preferito, con il quale ti sei trovato meglio a lavorare?

Tutti, fortunatamente!

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11 – Leggi la Bibbia? La domanda, a trabocchetto, in realtà riguarda simpaticamente il processo creativo ed è “crei/create una bibbia dei personaggi che poi seguite nella stesura definitiva?”

Purtroppo no: è vero che sono ateo convinto, ma mi dicono che sia imprescindibile per uno sceneggiatore.

12 – La tua formazione professionale avviene al CSC. Avrai avuto modo di conoscere anche altri professionisti in erba in quell’occasione. Avremo mai in Italia un Tarantino o un Nolan? E qualora ciò avvenisse, abbiamo qualche produttore che ne riconoscerebbe il talento?

Io mi sono diplomato in sceneggiatura al CSC nel 2005, e nel mio triennio il corso di regia ha sfornato Edoardo De Angelis [Indivisibili], Matteo Oleotto [Zoran], Claudio Giovannesi [Fiore], Francesco Amato [Cosimo e Nicole], insomma direi una bella classe di regia. Io penso francamente che il cinema italiano sia pieno di professionisti di talento, il problema sta nel dar loro fiducia, ed è un problema per lo più produttivo. Solo così potranno emergere personalità davvero innovatrici, che ripeto non mancano.

13 – In Italia si producono principalmente commedie e drammi esistenziali (“lacrime strappastoria” per dirlo alla Maccio Capatonda), trascurando generi come horror, fantascienza, western. Sono generi in cui abbiamo in passato ricevuto premi, di cui abbiamo fatto la storia, film che abbiamo insegnato a fare, a  realizzare a prescindere dal budget (spesso si dice che non se ne realizzano per gli alti costi, ma esiste The invitation che è solo il primo esempio che mi viene in mente di low budget di successo). La domanda è: nessuno scrive soggetti validi in chiave horror, sci-fi, western… o si fermano allo spoglio della sceneggiatura (si dice così, no?) da parte del settore produzione che investe solo in un prodotto che può vendere meglio alla televisione?

È vero, si producono solo commedie e drammi d’autore. Ciò è dovuto secondo me in parte a un doppio retaggio, della commedia all’italiana e del neorealismo, e – per quanto riguarda la commedia – anche e soprattutto per un dato di fatto: sarà banale dirlo, ma il pubblico al cinema ci va per ridere. Ieri sera ho visto un esordio italiano in una sala piena, storia drammaticissima eppure il pubblico come poteva rideva.

È vero anche che il cinema italiano ha anche un glorioso passato di spaghetti western e horror, ma forse non una vera tradizione, a parte Sergio Leone e Dario Argento non abbiamo sfornato maestri in nessuno dei due generi.

Di recente però qualche segnale incoraggiante verso altre strade c’è stato: il caso eclatante di Lo chiamavano Jeeg Robot, film riuscitissimo, potrebbe aprire un nuovo filone, essere un po’ l’inizio di un cinema più spettacolare ed esportabile, se vogliamo…

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14 – Scriveresti o hai scritto soggetti di generi come horror, sci-fi…?

Horror sicuramente, e credo che mi divertirei anche tantissimo, è un genere che adoro.

15 – C’è un soggetto, realizzato da altri, che avresti voluto scrivere tu?

Tra quelli recenti, trovo che Perfetti sconosciuti sia un soggetto fantastico, e la sceneggiatura un perfetto congegno a orologeria.

16 – Tra i tuoi lavori c’è qualcosa che senti avrebbe meritato più di quanto abbia ottenuto, che avresti voluto far fruttare meglio?

Come incassi sono andati tutti molto bene, quindi son più che soddisfatto!

17 – Il target di riferimento per i tuoi lavori liberi è diverso da quelli su commissione? Si scrive molto, quasi totalmente, per le “massaie”, come diceva Mike Bongiorno, che seguono la TV come fosse un’amica chiacchierona che parla del più e del meno con pathos da soap opera o alla Barbara D’urso, mentre il pubblico giovane, che dovrebbe essere il futuro dell’economia, emigra su Netflix, dove hai un’ampia varietà di generi, tra cui quelli bistrattati dai produttori cinematografici standard (De Laurentiis, Ferrero…). Che futuro si prospetta? È auspicabile un cambio di rotta? Si testa una scrittura che si avvicini al target degli “emigrati” su Netflix e Sky?

Secondo me sì, anche perché Netflix e Sky finanziano sempre più il cinema italiano, quindi credo che in breve questo gap qualitativo tra tv generalista da un lato e nuove piattaforme dall’altro si assottiglierà sempre più.

18 – Che anticipazioni puoi/vuoi fornirci riguardo i tuoi progetti cinematografici/televisivi futuri?

Sto scrivendo l’opera prima di un giovane regista appena diplomato al CSC: è una commedia on the road, che tocca però corde più intimistiche e malinconiche rispetto ai film che ho scritto di recente. Sto poi lavorando a due serie tv ma siamo ancora alle primissime battute, è presto per parlarne.

19 – Quale sceneggiatura ti ha colpito in questo anno solare. Chi pensi che vedremo lottare per l’oscar nel tuo settore?

Tra i film italiani, le sceneggiature più solide sono quelle di Perfetti sconosciuti e Lo chiamavano Jeeg Robot, film che non avrebbero affatto sfigurato nella cinquina come miglior film straniero.

20 – C’è una domanda che avresti voluto ti facessi ma non ti ho fatto?

Qual è il film che più di tutti ti ha fatto schifo tra quelli degli ultimi cinque anni? Scherzo, per fortuna non me l’hai fatta!

Grazie, Andrea! 

Bad moms – Mamme molto cattive, di Jon Lucas e Scott Moore

Bad moms è una frizzante commedia diretta da Jon Lucas e Scott Moore, i registi di Wanted, I guardiani della notte, I guardiani del giorno, ma soprattutto del gigionesco Abraham Lincoln: Vampire Hunter. Passati alla storia più che altro per aver scritto le trionfali sceneggiature che sono alla base di successi come la saga di The Hangover, meglio conosciuto in Italia con il titolo Una notte da leoni, o la piacevole rivisitazione del Canto di Natale di Dickens realizzata in occasione de La rivolta delle ex, Lucas e Moore si cimentano stavolta in qualcosa di più profondo, nonostante lo spunto di partenza sia indissolubilmente legato ad una partitura comica, che procede con passi studiati, dallo slapstick style alla satira più sottile.

«Leggendo la sceneggiatura, si potrebbe pensare che sia stata scritta da una donna, ma parlando con Jon e Scott, ci si rende conto che è un omaggio alle loro mogli» afferma Mila Kunis, mentre Moore confessa: «sgobbano tutto il giorno, mentre noi lavoriamo da casa, davanti al nostro computer. Stanno in giro, accompagnano i bambini, preparano il pranzo… C’è un sacco di materiale drammatico alle spalle, il che è un terreno fertile per la commedia».

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Amy [Mila Kunis], mamma lavoratrice, infaticabile, estremamente stressata, cerca di incastrare ogni attività sua e dei due figli adolescenti, Dylan [Emjay Anthony, Il libro della giungla, Krampus] e Jane [Oona Laurence, Il drago invisibile], nell’arco della giornata, con l’obiettivo di rendere la loro vita il più possibile perfetta. Ma se, nella peggiore delle giornate, decidesse di scendere dalla giostra della perfezione e diventare una “cattiva mamma”? Mai più sveglia all’alba per preparare la colazione a tutti, nessun aiuto nei compiti e nelle ricerche, niente assistenzialismo o zerbinismo sul posto di lavoro o a scuola. E poi, via il marito immaturo ormai diventato un terzo figlio e più spazio per curare la propria persona e, perché no, uscire e andarsi a divertire con due nuove amiche, Kiki [Kristen Bell] e Carla [Kathryn Hahn], due outsider come lei. Ma non ha fatto i conti con la presidente dell’Associazione Genitori, Gwendolyn [Christina Applegate] che vuole tutelare la figura della leggendaria madre modello a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo, bullizzando chiunque si frapponga fra lei e il mantenimento dello status quo.

«Quando scrivi di mamme e dell’essere madre – afferma Annie Mumolo –, cammini su una linea molto sottile. Questa è una delle prime sceneggiature che ho letto che avesse risonanza emotiva e personaggi con cui potersi relazionare. È tagliente e divertente, irriverente quanto basta da indurre a riflettere».

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I registi non avevano preventivato di ingaggiare, per i ruoli delle protagoniste di Bad moms, sei attrici che fossero anche mamme, ma alla fine così è andata e il loro apporto è stato fondamentale per un risultato definitivo davvero realistico.

In Bad moms, i personaggi sono sapientemente disposti secondo una simmetria che fornisce un avvincente equilibrio alla trama: se da un lato abbiamo Amy con le sue amiche Kiki, casalinga sfruttata e bistrattata, e Carla, madre single dall’insaziabile appetito sessuale, che portano avanti una forma di ribellione alla figura materna convenzionale, dall’altro Gwendolyn ha altrettante “scagnozze” in Stacy [Jada Pinkett Smith], che reprime la Carla che è in lei, e Vicky [Annie Mumolo], la cui sbadataggine fa il paio con la personalità un po’ naif di Kiki.

Anche le due figure maschili principali sono in contrapposizione con un Jay Hernandez [Suicide Squad] che interpreta il padre più figo della scuola, un atletico vedovo che sa anche essere dolce e premuroso, diametralmente opposto al pusillanime sposato da Amy.

In un simpatico cameo i fan della NFL avranno riconosciuto J. J. Watt, estremo difensore degli Houston Texans, ridotto quasi ad una macchietta nei panni dell’allenatore-bamboccione della squadra di calcio della scuola: sembra quasi star lì a significare che nemmeno lui può nulla contro una madre imbestialita che difende la felicità del proprio figlio. Chi ne ha vista almeno una all’opera sa che è vero.

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Ironica, per chi conosce la sua storia, invece, è la partecipazione di Martha Stewart, conduttrice televisiva e intrattenitrice di origini polacche, conosciuta nel mondo televisivo e dei magazine statunitensi per i suoi progetti di cucina, giardinaggio, bon ton, fai-da-te, e, in generale, come modello-guida per il lifestyle femminile e per la corretta convivenza domestica, ha finito da poco di scontare una condanna per complotto, intralcio alla giustizia e falsa testimonianza. Incarcerata nella prigione federale di Alderson e poi messa agli arresti domiciliari nella sua casa di New York si è vista prolungare la pena di tre settimane, per aver violato i termini della prigionia. Insomma, rientra a pieno diritto tra le Bad moms!

Essere “madri molto cattive” non è essere delle cattive madri, sia ben chiaro e non bisogna commettere l’errore di sottovalutare questo film pensando sia destinata ad un ristretto ed esclusivo target di giovani madri che vogliono evadere e svagarsi, immedesimandosi nei loro alter ego su grande schermo. Bad moms è un po’ Hangover, un po’ Project X, ma non si allontana poi molto dalla morale di Mrs. Doubtfire: è nell’imperfezione che si trova la perfezione e anche se così non fosse, l’imperfezione è sempre divertente ed intrigante, perlomeno.

Trafficanti, di Todd Phillips

E se per qualcuno il sogno americano andasse a braccetto con l’incubo della guerra?

Trafficanti, nella versione originale War Dogs, diretto da Todd Phillips, parte proprio da questo presupposto.

«I tipi come noi li chiamavano “cani da guerra”: avvoltoi che fanno soldi con le guerre senza mai mettere piede sui campi di battaglia. Era dispregiativo nelle intenzioni, ma a noi piaceva».

Phillips ci ha divertito con commedie spassose come Starsky & Hutch, Parto col folle, ma soprattutto con la saga di The Hangover – Una notte da leoni. Con Trafficanti, basato su fatti realmente accaduti, riesce nell’intento di plasmare ciò che è ormai materia giornalistica, di riflettere sui retroscena neanche troppo celati di ogni guerra, mantenendo quello che è ormai il suo stile visivo e narrativo, giocato su forti contrasti, sulle decisioni sbagliate, che inesorabilmente hanno effetti esponenzialmente più grandi delle cause scatenanti e delle aspettative dei protagonisti, e sull’ironia della vita che, come ha sempre sostenuto il regista fin dagli esordi da documentarista, riesce spesso ad essere più assurda, bizzarra e pazzesca della fantasia.

La sceneggiatura, frizzante e dal ritmo incalzante, è opera dello stesso Phillips, affiancato da Stephen Chin [Un altro giorno in paradiso, Gummo] e Jason Smilovic [Slevin – Patto criminale e Kidnapped (serie TV)], e trae spunto da un articolo scritto da Guy Lawson e successivamente pubblicato in un libro diventato bestseller con il titolo Arms and the Dudes.

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«Quando la vita mi prendeva a calci, io rimanevo a terra. Efraim no: la prendeva a calci lui».

Due amici di Miami Beach, ex compagni di scuola e di scorribande, i ventenni David Packouz [Miles Teller] e Efraim Diveroli [Jonah Hill] inseguono a loro modo il sogno americano, tirando su in poco tempo un’impresa di traffico d’armi che si elevi «dalle briciole all’intera torta». I guai iniziano quando, all’apice del successo, ottengono un contratto governativo da 300 milioni di dollari per armare fino ai denti l’esercito afghano. Bugie, sotterfugi e truffe andranno ben oltre i limiti della moralità.

Ironia e divertimento sono assicurati e, anche se i fatti ormai sono di dominio pubblico e la storia bene o male si conosce, Todd Phillips sa come raccontare per immagini in maniera avvincente e spettacolare. Si ride davvero di gusto ed in maniera intelligente.

«David, siamo trafficanti. Andiamo a trafficare!»

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Miles Teller [Whiplash, The Divergent Series e il pessimo reboot de I Fantastici 4] interpreta il massaggiatore professionista David Packouz e rappresenta il punto di vista privilegiato dello spettatore ideale.

Jonah Hill [The Wolf of Wall Street, Ave, Cesare!, Superbad, 21 Jump Street e successivi] è il camaleontico Efraim Diveroli, la mente strapensante e straparlante della ditta AEY, genio e sregolatezza, cresciuto con il mito dello Scarface interpretato da Al Pacino, di cui imita inizialmente il vestiario finché l’evoluzione del personaggio non si spinge verso tute griffate e un abbigliamento da gangster moderno curato dal costumista Michael Kaplan [premio BAFTA per Blade runner, da una sua idea nasce il look di Alex in Flashdance, una moda che ha stregato un’intera generazione].

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È parte del cast, anche come produttore, con la neonata compagnia Joint Effort, il pluricandidato agli Oscar® Bradley Cooper [Una notte da leoni, American sniper, Il lato positivo, Joy], che svolge un ruolo fondamentale nella vicenda.

Dulcis in fundo, la bravissima Ana de Armas, la cui solarità recitativa si fonde con una disarmante bellezza che vale da sola il prezzo del biglietto. Una stupenda conferma dopo il successo di Knock Knock. L’abbiamo ammirata nel biopic drammatico Hands of stone sulla vita del pugile Roberto Duran presentato al Festival di Cannes 2016 da Jonathan Jakubowicz e la rivedremo prestissimo – e speriamo sempre più spesso – nel sequel ancora senza titolo di Blade runner, con Ryan Goslin e Harrison Ford.

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Girato tra Bucarest, Casablanca, Las Vegas, Miami e California, con Arri Alexa XT Plus, Panavision Primo, Primo V e lenti PCZ Lenses, Trafficanti viene portato in sala dalla Warner con un’aspect ratio molto ampia, secondo il rapporto 2.35 : 1, che esalta la spettacolarità delle riprese in esterni e soprattutto la scena top dell’inseguimento alla stazione di servizio di Falluja, girata nel deserto del Marocco, che per Trafficanti è l’Iraq filmico, coerenti con una delle massime di Efraim: «Dire la verità ha mai aiutato qualcuno?». Lo stesso accade per le scene in Albania, in realtà filmate in Romania.

Il commento musicale è affidato ad un’altra vecchia conoscenza di Phillips, Cliff Martinez, vincitore del Soundtrack Award come miglior compositore al Festival di Cannes per The neon demon, che però, per Trafficanti, si limita a riciclare solo due dei suoi brani più versatili, uno dal film Contagion e l’altro da Presagio finale – First snow, forse era lecito aspettarsi qualcosa in più.

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Ben nutrita e martellante, invece, il resto della colonna sonora, che risulta davvero poliedrica, spaziando tra canzoni profondamente distanti nel genere e nel tempo: dal gangsta rap alla Carmen di Bizet, da Dean Martin agli UB40, da Haddaway a Pitbull, passando per evergreen strafamosi e strautilizzati dal cinema come Fortunate son dei Creedence Clearwater Revival, Wish you were here dei Pink Floyd, Sweet emotion degli Aerosmith e Behind blue eyes firmata The Who.

Tanti i riferimenti ad altre pellicole “di genere” a partire dallo Scarface di Brian De Palma, quasi un’ossessione per Efraim e citato anche nella grafica della locandina ufficiale del film, per finire con Traffic, passando per Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese, ma anche per Rain Man – L’uomo della pioggia e The Social Network, omaggiato quasi al punto di creare un parallelismo tra le due coppie di giovani rampanti Packouz-Diveroli e Zuckerberg-Parker.

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«VegasX… è come un Comicon con le granate!»

Curioso, poi, che David Packouz abbia acconsentito a partecipare al film in un ironico cameo musicale, nel quale interpreta Don’t fear the Reaper dei Blue Oyster Cult in versione acustica, mentre Efraim Diveroli non si sia prestato alla causa.

«I soldi si fanno tra le righe».