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Marguerite e Julien – La leggenda degli amanti impossibili, di Valérie Donzelli

Marguerite [Anaïs Demoustier] e Julien de Ravalet [Jérémie Elkaim] si amano fin da bambini e, divenuti ragazzi il loro sentimento non si stabilizza su un registro affettivo familiare. Fratello e sorella non desiderano altro che stare l’uno accanto all’altro. Tutti si accorgono del rischio dell’incesto, così li separano più volte con matrimoni combinati o facendoli sorvegliare da governanti, che finiscono con il simpatizzare con i due amanti infelici. Ogni ostacolo diventa una prova da superare che rinnova il loro legame fino a renderlo indissolubile. L’avrà vinta la ragione o il sentimento?

«Che cosa siamo?
Qualcosa che non esiste
Allora va bene, non rischiamo niente se non esistiamo».

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Valérie Donzelli, al suo quarto lungometraggio, si sente pronta a riscrivere con il partner di lavoro e di vita, nonché attore protagonista, Jérémie Elkaim, la sceneggiatura che nel 1971 Jean Gruault aveva preparato per Francois Truffaut. Il progetto era stato abbandonato dal regista de I quattrocento colpi e, una qualsiasi persona sensata si sarebbe domandata a fondo il perché senza incaponirsi a voler portare a casa un risultato frutto di mille espedienti e compromessi che depauperano la storia e l’arte cinematografica, inasprendo il giudizio del pubblico, che rimane deluso di un prodotto che si prende troppo sul serio senza avere né una struttura solida né un’estetica tale da sopperire ai notevoli buchi di sceneggiatura e alle brusche cadute di stile.

Diversamente dai film precedenti, la Donzelli non presenta uno spaccato della sua vita, discutibilmente interessante, bensì l’adattamento di una storia vera (da qui in avanti c’è il rischio SPOILER): Julien e Marguerite de Ravalet, figli del signore di Tourlaville, vengono catturati, processati e condannati alla decapitazione per adulterio e incesto nel 1603. Primo escamotage: non volendo sbattersi per una costosa ricostruzione d’epoca, si tenta grossolanamente un’operazione simile a quella di Titus, senza essere Julie Taymor, senza inserire abbastanza “anacronismi” per propendere verso un’interpretazione surreale postmoderna, senza verve. Come afferma la stessa regista, si è cercato di «incarnare una leggenda… un film senza tempo, che non fosse legato ad un’era in particolare, radicato nel mondo delle favole, ma senza appartenergli completamente». Di nuovo un “senza”.

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La location principale è proprio il vero castello di Tourlaville, che comunica Seicento in ogni inquadratura mentre sullo schermo si alternano automobili, radio, elicotteri, microfoni e altoparlanti, e poi tableaux vivants e costumi ottocenteschi a fornire un continuo straniamento spaziale, temporale e narrativo, nell’intento di lasciare gli spettatori confusi sulla poltrona allo stesso modo in cui sono smarriti i due amanti nel bosco, così come nella vita. Questi due Hansel e Gretel vivono una favola dove, però, la morale non c’è. Di moralisti, invece, ce n’è quanti se ne vuole, ma si tratta di oppositori che si pentono e che si trasformano in aiutanti, comunque inetti.

La tragedia familiare è dietro l’angolo, rovescio della medaglia di questo amore maledetto, eppure chi segue le vicende degli amanti impossibili non teme per la loro sorte, non si affeziona a loro, né prende posizione, come era del resto l’intento registico. Il conflitto che porta avanti la narrazione non è insito nella coppia, nel loro rapporto che è e rimane indissolubile, bensì nell’altrui testa, nell’educazione sessuale ricevuta anche per questioni di patrimonio genetico di un eventuale erede. Così si pensava, forse, di sviluppare una tragedia senza avere motivazioni valide, una favola senza una morale più o meno celata dietro tipiche allegorie, una leggenda o un sogno senza un rimosso o una cornice abbastanza surreale e un adattamento di una storia vera togliendo concretezza grazie agli elementi stranianti.

Anche la recitazione non è né melodrammatica né minimalista, indecisa non incide, e nelle occasioni più importanti si sbotta a ridere involontariamente. Una tragedia come quella di Romeo e Giulietta diventa una mediocre farsa teatrale su palcoscenico parrocchiale.

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La perla è il secondo stratagemma: la storia è narrata da una giovane ragazza in un orfanotrofio femminile come storia della buonanotte per far addormentare bambine neanche adolescenti. A parte la scelta discutibile dell’argomento incestuoso per addormentarsi, ci si domanda come mai si sia scelto di dare una struttura che preannuncia una chiusura ad anello per poi tradirla con il terzo espediente narrativo: non avendo mai deciso se della sceneggiatura, che Truffaut, guarda un po’, non ha mai voluto realizzare, farne un film poetico o un film erotico, ecco che, dopo un pecoreccio amplesso nel bosco tra i due amanti, mentre tempus fugit e sono braccati da un intero esercito di guardie, manco fossero dei terroristi, giunge la conclusione tragica con risvolti comici e un epilogo con poesia di Walt Whitman, recitata dalla voce di Marguerite sopra alcuni dettagli di elementi naturali giustapposti, in un montaggio che dovrebbe sostenere emotivamente le parole finalmente di unione indissolubile dei due: «Ora siamo qui… siamo corteccia… siamo rocce…». Questa trovata altro non è se non l’ennesima scappatoia per non dover rappresentare graficamente le ultime parole della sceneggiatura originale, cioè un dantesco «Spiriti volate via…». Sebbene non vi sia negli annali alcuna documentazione circa eventuali apparizione da fantasmi dei due amanti maledetti, in seguito a questa grossolana trasposizione cinematografica della loro vera triste sorte, non è escluso che ora abbiano davvero qualche conto in sospeso con qualcuno.

Con i “senza” come si può costruire qualcosa di buono?