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La ricompensa del gatto, di Hiroyuki Morita

Un film ideato un po’ per gioco, non per modo di dire: il soggetto originale era stato ideato dallo Studio Ghibli per un’animazione di appena venti minuti come intrattenimento per un parco a tema. Ma lo storyboard di Hiroyuki Morita impressionò talmente tanto Toshio Suzuki che lo spinse a chiedere a Hayao Miyazaki di poterlo realizzare come lungometraggio. In tre anni Neko no ongaeshi, La ricompensa del gatto,  vide la luce nel buio di una sala. Distribuito sin dal 2002 con il titolo internazionale The cat returns e presentato la prima volta in Italia nella versione originale con sottotitoli in italiano al Future Film Festival del 2005, questa leggiadra favola giapponese sarà distribuita da Lucky Red finalmente con un doppiaggio encomiabile, che privilegia i professionisti invece di cedere alle lusinghe delle comparsate illustri. Al cinema, ma solo il 9 e il 10 febbraio.

Animatore nel 1989 per Miyazaki in Kiki consegne a domicilio, Hiroyuki Morita lavora successivamente per Satoshi Kon, con il quale collabora per quasi tutti gli anni ’90 animando il suo episodio di Memories e poi anche il thriller hitchcockiano Perfect blue. Tornato in seguito allo Studio Ghibli, lavora per Isao Takahata (My neighbors the Yamadas) e passa a dirigere la sua prima e unica pellicola, The cat returns. Il film è tratto dal manga di Aoi Hiragi, a sua volta spin-off di un altro suo racconto dal quale nel 1995 era già stato tratto il già citato I sospiri del mio cuore di Yoshifumi Kondo.

Una liceale di nome Haru salva un gatto che sta per essere investito da un camion. Il gatto ringrazia nel linguaggio umano, fa l’inchino e se ne va. Da quel momento la vita di Haru non sarà più la stessa: il gatto salvato è il principe ereditario e l’eccelso re dei gatti farà di tutto pur di dimostrarle la sua infinita riconoscenza. Ma un eccentrico re non può che avere idee bislacche e così Haru si troverà subito in un mare di miao – pardon! – di guai. Come farà a sbrogliare questa intricata matassa e tornare alla sua vita di tutti i giorni?

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L’insieme delle avventure/disavventure di Haru possono essere viste come un percorso di formazione che la porta dall’adolescenza alla maturità. Si tratta di un viaggio dell’eroe un po’ particolare che può essere diviso in due fasi con due protagonisti che alternativamente si pongono al centro della storia. Dapprima è Haru a combattere e sconfiggere il drago-camion con tanto di spada-racchetta da lacrosse, per salvare l’innocente in pericolo e grazie a questo ricevere la ricompensa per poi poter far ritorno a casa, migliorando magari la situazione di partenza. Ma la ricompensa si dimostra non conforme alle esigenze dell’eroe e la situazione precipita quando il re dei gatti si mette in testa di dare la ragazza in moglie al principe. È a questo punto, quando è Haru ad essere in pericolo, che occorre un nuovo eroe. Ad aiutarla sarà il barone Humbert von Gikkingen, detto Baron, una statuetta di gatto vestito da gentiluomo inglese che prende vita al tramonto, di cui abbiamo già fatto la conoscenza in un altro capolavoro dello Studio Ghibli, I sospiri del mio cuore [titolo originale: Mimi o sumaseba, letteralmente “Drizzando le orecchie”], diretto da Yoshifumi Kondō, direttore dell’animazione e character designer dell’anime cult Conan il ragazzo del futuro, e scritto da Hayao Miyazaki. È Baron l’eroe della seconda parte, quando le cose si mettono decisamente male per Haru. Ad aiutare la ragazza, oltre a lui ci sono anche il gatto Muta, altro personaggio preso dal film del 1995, e il corvo-gargoyle Toto, creatura capace di trasformarsi come Baron in quel luogo magico che è l’Ufficio del Gatto, una specie di Baker Street, con il protagonista che ricorda molto da vicino lo Sherlock Holmes versione antropomorfa di Miyazaki, guarda caso.

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La narrazione filmica è ricca di elementi del folklore giapponese: il profondo rispetto verso i gatti, considerati spiriti saggi e portatori di fortuna, ma soprattutto la credenza che anche le cose abbiano un’anima. Quest’ultimo elemento, personificato da Baron e Toto, oggetti in cui alberga un’anima, fornisce una connotazione ecologica alla favola animata. Gli oggetti che accompagnano la nostra vita e le nostre attività non si devono considerare mere cose da sfruttare per poi disfarsene senza un motivo valido, è il concetto del mottainai 勿体無い “non sprecare”, non trattare male, non buttare un oggetto che può ancora mostrare la sua utilità, piuttosto bisogna cercare di riciclarlo, per permettergli così di dar vita a un nuovo oggetto. Senza giungere a casi-limite come la coperta di Linus, il concetto che sta alla base dell’elemento magico del film è che gli oggetti hanno una loro essenza, fedeli compagni di lavoro, stimoli per nuove idee ancore di conforto, che teniamo strette a noi perché ci danno sicurezza, ci aiutano ad affrontare le nostre paure, e ci seguono per parte della nostra vita, come compagni di viaggi silenziosi su cui poter sempre fare affidamento. Ed è nello scorrere del tempo che si animano di vita fino a diventare degli spiriti. Si chiamano tsukumogami 付喪神 [“gli spiriti delle cose”], e secondo una credenza giapponese hanno origine da un qualunque utensile che abbia compiuto almeno 100 anni. Raggiunta tale età, tutti gli oggetti diventano spiriti, il cui aspetto può variare molto, sia in base al tipo di oggetto da cui viene originato, sia in base all’uso che ne è stato fatto e alle sue condizioni. Se l’utensile è stato gettato via senza alcun rispetto, perché ritenuto ormai inutile, oppure trattato male o rotto, diventerà uno spirito maligno in cerca di vendetta, e anche il suo aspetto sarà terrificante; in caso contrario, avrà un aspetto benevolo e si manifesterà solo per apparizioni inoffensive.

Anche i nomi dei personaggi principali sono stati pensati per inserire un ulteriore strato di significazione. Sul piano etimologico, Haru sta per “primavera” e Muta significa “insieme” e ha la stessa radice della parola “muteki” che vuol dire “invincibile”. Sul piano dei riferimenti crossmediali, invece, non si può non notare che la leggenda di Renaldo Moon sia simile alla storia di Moby Dick o che il nome Toto richiami alla mente il fedele compagno di viaggio di Dorothy ne Il meraviglioso mago di Oz di L. Frank Baum, fiaba e allo stesso tempo romanzo di formazione, come il film stesso o. Una circostanza analoga la si può riscontrare con un’altra “fiaba di formazione”, Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, per la quale i riferimenti si sprecano. Solo per citarne alcuni: Haru è curiosa, attratta dal mistero, non si fa scrupoli a dialogare con gli animali e segue un gatto bianco, invece di un coniglio, in un posto lontano dal suo spazio-tempo, l’Ufficio del Gatto, una sorta di anticamera al Regno dei Gatti, «il posto dove va chi non riesce a vivere il proprio tempo», dove subisce una trasformazione dimensionale proprio come Alice. Un’ulteriore elemento a sostegno di questa tesi è la conoscenza del trio di amici composto da Baron, Muta e Toto che corrispondono al gruppo Cappellaio Matto, Lepre Marzolina e Ghiro, con tanto di degustazione di chiffon cake, bacche di gelso e tè, fatto con una «miscela speciale che ogni volta cambia lievemente gusto», come fosse una delle speciali caramelle di Willy Wonka.

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Disseminati per la città sono veramente tanti i riferimenti nascosti sottoforma di insegna di negozio, ad esempio La rosa di Versailles, traduzione letterale dell’originale Berusaiyu no bara, da noi famoso come Lady Oscar, diventa il nome di un salone di bellezza, oppure l’occhio volante della sorveglianza sono simili a quelli della serie Chobin e poi gli occhi strabici e di differenti colori dell’eccelso Re dei Gatti ricordano quelli del Dr. Zero, nemico di Fantaman, tutti elementi che presumibilmente provengono dal bagaglio culturale televisivo del regista stesso e dello staff dello Studio Ghibli. A completare questo gioco enigmistico con lo spettatore attento e perspicace, una crittografica firma del regista Morita che campeggia su di una scatola di biscotti…

Il legame con il testo di Carroll, la passione per gli enigmi e il rapporto con la cultura pop è confermata anche dalla citazione cinematografica del percorso dedalico che, in Labyrinth, la protagonista deve affrontare, insieme a tre amici incontrati lungo la strada, per raggiungere il castello multidimensionale di Jareth, posto al centro del labirinto e ispirato alle opere di M. C. Escher. Come il Re dei Gatti, anche il personaggio interpretato da David Bowie chiede alla protagonista di diventare la regina di quel mondo dove non sarà mai costretta a crescere.

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Un po’ quello che accade allo spettatore di questo come di ogni altro film fantastico: tutti per qualche minuto veniamo trascinati in un mondo che è fuori da quello reale, fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni, e viviamo le avventure come se fossimo dentro quei personaggi a cui ci siamo affezionati, per poi, alla fine del percorso, tornare ad essere gli adulti più o meno responsabili che è necessario che siamo.

Ma come non si può dimenticare la canzone finale Kaze ni naru, davvero bella e orecchiabile, non dobbiamo mai dimenticare il bambino racchiuso in ognuno di noi, che è il motore della nostra voglia di vivere, di inseguire sogni e di essere felici. Perciò guardiamo La ricompensa del gatto e diventiamo tutti Alici… ehm, gatti… insomma, non nascondiamo quella sana curiosità che ci muove all’avventura e ci rende capaci di essere gli eroi delle nostre vite!